Andrea Frangioni (1978): abilitato come professore associato di Storia Contemporanea, è consigliere parlamentare del Servizio studi della Camera. È autore di Salvemini e la Grande Guerra (Soveria Mannelli 2011) e di Francesco Ruffini. Una biografia intellettuale (Bologna 2017); tra i suoi saggi: Una mezza rivoluzione di metodo e di piano di lavoro. Chabod e il progetto di storia della politica estera, in Il realismo politico a cura di A. Campi e S. De Luca (Soveria Mannelli 2014) e La fine di un ciclo democratico. Su Gauchet, Rosanvallon, Schnapper, in “Rivista di politica”, 1/2019.

Lo scorso 24 marzo su “La Domenica” de “Il Sole 24 Ore” Natalino Irti ha celebrato da par suo il 150° anniversario della nascita di Luigi Einaudi con un articolo sulla concezione della libertà di Einaudi e di Croce.

L’articolo riprende in realtà molte delle argomentazioni già svolte da Irti in Dialogo sul liberalismo del 2011 e mette a confronto le concezioni di libertà einaudiana e crociana con quelle che può avere, scrive Irti, un “giovane di oggi”. Si tratta di argomentazioni importanti che, oltre a riflessioni significative su Einaudi e su Croce, contengono le linee essenziali di una concezione che può essere definita “liberalconservatrice”. Vediamole:

  1. «gli individui – scrive Irti – sono soli […] dinanzi alle nuove potenze della tecnica e dei mercati planetari. L’individuo avverte […] che l’economia non gli appartiene più, non appartiene più ai singoli e neppure allo Stato sovrano»
  2. «si assiste – prosegue il giurista – alla “rinascita del giusnaturalismo”: si fa quotidiano e assiduo discorrere di “diritti umani” o “naturali”, “innati” che sarebbero attribuiti all’uomo in quanto uomo, a ciascun singolo, per la sua identità biologica. Diritti extrastorici o metastorici»;
  3. Infine, secondo Irti, si verifica «un assoluto ripiegamento dentro la propria vita. La libertà – o forse sarebbe meglio parlare di groviglio di desideri e attese che premono sull’animo individuale – la libertà si frantuma e particolarizza in singoli spazi di indipendenza […] la libertà tende a ripiegarsi in godimenti privati».

Mi sembrano tre assunti sbagliati. Infatti:

  1. il dominio della tecnica e della finanza a scapito degli Stati non è il risultato di un complotto; è il frutto di politiche di liberalizzazione dei movimenti di capitale, di delocalizzazione dei capitali, di affermazione dell’indipendenza delle banche centrali e di priorità alla lotta all’inflazione; è con queste politiche che l’Occidente è uscito dalla crisi di Bretton Woods e dalla stagflazione degli anni Settanta; si è trattato di politiche pensate per mantenere i livelli di benessere raggiunti con la ricostruzione postbellica, anche se al prezzo di maggiori diseguaglianze; si è trattato, in sintesi, di politiche democratiche;
  2. di rinascita del giusnaturalismo si può parlare a far data dalla fine della seconda guerra mondiale, con le nuove costituzioni europee, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo; questi documenti non delinearono una concezione atomistica dei diritti: gli individui sono calati nella realtà concreta dei loro rapporti sociali; è forte, ad esempio, l’influenza del personalismo di Maritain; su questi aspetti si può utilmente leggere, con riferimento specifico alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, Verso un mondo nuovo di Mary Ann Glendon; certo da allora le nostre società si sono molto individualizzate ma questo ci porta al terzo punto;
  3. è vero che oggi, per un “giovane di oggi”, libertà significa ripiegamento nel godimento di beni privati? Lo confesso, è un interrogativo che mi sono spesso posto anch’io e per questo il discorso liberalconservatore mi ha a lungo interessato e, sia pure senza mai giungere a una condivisione completa, affascinato; alla base vi era la ricerca di una via d’uscita da quello che è oggi noto come il paradosso di Böckenförde sullo Stato secolarizzato che si basa su presupposti morali che non può dimostrare; cito alla rinfusa alcuni autori in questa esplorazione: il Joseph Ratzinger del dialogo con Habermas e tutto il dibattito che ne seguì, Leo Strauss, anche se l’ho trovato sempre un po’ ostico, Roger Scruton, Marcel Gauchet, Dominique Schnapper, che rimane secondo me la migliore, per il suo equilibrio; pesavano poi gli eventi esterni: l’11 settembre e, dopo, Charlie Hebdo e il Bataclan; cosa potevamo opporre al fanatismo jihadista? Quali risorse di coesione morale?

Oggi questo discorso continua ad interessarmi ma mi affascina sempre meno. È perché credo che, se si ragiona non in termini intellettualistici ma si guarda alla concretezza delle cose, vi sono ancora così tanti esempi di dedizione al prossimo e alla comunità da poter affermare che l’eredità cristiana, umanistica e illuminista, insieme agli analoghi retaggi provenienti da altre culture, continua ad agire nelle nostre società.

Continuano ad operare le “scuole di speranza” individuate da Martha Nussbaum nel suo La monarchia della paura (il pensiero critico e la tradizione umanistica, i gruppi di volontariato, i gruppi religiosi, la famiglia e gli amici, la poesia e le arti). Si pensi all’arcipelago del volontariato, si pensi all’esperienza della pandemia e agli esempi di abnegazione e senso del dovere dimostrato da moltissimi, dai medici agli insegnanti. Si pensi, per la “grande politica”, alla forte reazione di fronte all’invasione russa dell’Ucraina; oggi quella reazione è stanca ma non era scontato che nel 2022 Stati Uniti ed Unione europea reagissero come reagirono. E si pensi proprio ai giovani ucraini che resistono a Putin. Non spuntano fuori dall’Ottocento. Sono molto simili ai nostri giovani, “consumisti”, “edonisti”, “senza valori” come loro.

In queste settimane ho ripensato a un maestro incontrato negli anni dell’università, Giuliano Marini, grande studioso di filosofia politica, e alle sue lezioni dedicate alla “speranza kantiana”. Marini ci spiegava (o almeno è quello che io, indirizzatomi poi verso altri studi, ne compresi) che Kant scriveva di segni prognostici di una tendenza al progresso morale dell’umanità. Ecco, se è vero che dal legno storto dell’umanità non si potrà ricavare niente di completamente diritto, questi segni prognostici comunque ci sono ancora. E si può ancora sperare – ed alimentare questa speranza, essere speranza, non solo avere speranza – in una società civile dove il ricorso alla coazione per garantire la convivenza delle libertà possa progressivamente ridursi grazie alla crescente propensione degli uomini a rifiutare la violenza. Anche un pensatore importante negli anni della mia formazione, Karl Popper, nei suoi ultimi scritti sottolineava il legame tra Stato di diritto e nonviolenza e per questo andava approfondendo il pensiero di Gandhi. L’aspirazione alla nonviolenza come cemento morale delle nostre società, chissà…

Una postilla: in questi anni ho cercato di leggere Thomas Mann; rimane per me un autore molto complesso e intuisco che alcuni suoi temi, come il rapporto arte-vita-morte, non sono i miei… Ciononostante mi sono interessato alle sue Considerazioni di un impolitico, alla sua critica della Zivilisation e della mentalità democratica “francese” nel nome della Kultur e dell’aristocrazia dello spirito e quindi al suo successivo mutamento, al suo diventare un “repubblicano della ragione”, dal Discorso sulla Repubblica tedesca del 1922 in avanti. Fino ad usare nel Giuseppe la potenza del mito, che aveva studiato e approfondito, per creare una mitologia democratica contro il mito nazista (e qui mi viene in mente anche Il mito dello Stato di Ernst Cassirer, altra lettura universitaria).

Oggi il contesto è meno drammatico. Ma mi pare che, come allora, il pericolo maggiore venga da potenti dittature e non da presunte “dittature del relativismo” (con tutto il male che si deve dire di estremismi woke e cancel culture). Ed è un dato rilevante che tratto comune di vari dittatori in giro per il mondo sia quello di prendere di mira la decadenza dei costumi e il relativismo occidentali.

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