Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.
Vincitore delle elezioni dello scorso luglio con circa il 34% dei voti, secondo i sondaggi il Labour, nel giro di sei mesi, avrebbe subito un’emorragia di consensi vicina al 10%, finendo alle spalle del Reform Party di Nigel Farage e pochi punti sopra i Conservatives guidati da Kemi Badenoch.
La tendenza, secondo Julian Coman (An exiled group within Labour is making a comeback – it could hold the key to repelling Farage, «The Guardian», 21 febbraio 2025), si spiegherebbe con «il vento della destra radicale» che da oltreoceano soffia nelle vele dell’ex leader di Ukip, capace di avvantaggiarsi della delusione dell’elettorato un tempo tradizionalmente laburista: la classe operaia, i non laureati, gli abitanti delle aree interne e periferiche del regno danneggiate dalla globalizzazione. L’esecutivo di Keir Starmer è quindi corso ai ripari, accusando Farage di voler abbattere il National Health Service, riducendo il budget nazionale per gli aiuti umanitari e assumendo una postura di ferma opposizione nei riguardi dell’immigrazione non autorizzata. Una scelta, quest’ultima, che Daniel Trilling (Short Cuts, «London Review of Books», 20 marzo 2025) ha biasimato quale tentativo di conquistare i sostenitori della destra assecondandone irresponsabilmente le paure. Tali mosse, però, attesterebbero la strategia della dirigenza laburista di avvicinare la piattaforma del partito e del governo a quella dell’organizzazione Blue Labour.
Fondato all’indomani della crisi finanziaria del 2008 da Lord Maurice Glasman, già docente di teoria politica alla Johns Hopkins University a Bologna e attualmente alla London Metropolitan University, per contrastare la linea blairiana di Gordon Brown, il Blue Labour divenne ben presto inviso alla gran parte della stampa progressista, a seguito della proposta di limitare persino l’ingresso di migranti europei sul suolo britannico, e fu dato in rapida dissoluzione. Ha però continuato a vivere, appoggiando dapprima la fuoriuscita del paese dall’Unione Europea e contribuendo poi con alcuni suoi esponenti – tra cui lo stesso Glasman e John Cruddas – alla creazione del think tank Labour Together, che ha favorito l’ascesa di Starmer alla guida del partito in sostituzione di Jeremy Corbyn (diversi parlamentari ex sostenitori del quale guarderebbero ora con favore al Blue Labour).
Con la nomina del direttore di Labour Together, Morgan McSweeney, a capo di gabinetto di Starmer, Glasman ha iniziato a godere di ampio ascolto a Downing Street, rilevano, favorevolmente, Coman e, con forte disapprovazione, commentatori più centristi (Philip Collins, Maurice Glasman and the origins of Blue Labour, «Prospect Magazine», 24 febbraio 2025) o più radicali (Solomon Huges, Who are Blue Labour really?, «Morning Star», 21 marzo 2025). Tantopiù che, nell’odierno riassetto geopolitico, può tesaurizzare la stima che per lui nutrono il vicepresidente J.D. Vance e Steve Bannon, ossia la componente nazionalconservatrice del movimento MAGA. Alla cerimonia di insediamento di Donald Trump, lo scorso gennaio, il Lord era presente quale unico laburista britannico invitato. E, dopo la recente visita di Starmer alla Casa Bianca, ha speso parole di elogio verso il primo ministro, ora pronto, a suo dire, a indirizzare nuovamente il Regno Unito verso il meritato ruolo da protagonista sulla scena internazionale: alleato leale, ma autonomo, rispetto agli Stati Uniti; capace di fungere da mediatore tra i blocchi; ben disposto a inviare truppe in Ucraina non appena si giungerà al cessate il fuoco (https://unherd.com/watch-listen/labours-maga-lord/, 6 marzo 2025).
Pare allora opportuna una conoscenza più approfondita dei princìpi cardine del Blue Labour, organizzazione che, seppure legata a un approccio pragmatico e anti-intellettualistico, ha sempre tenuto a definire con chiarezza le proprie coordinate teoriche, in opere collettanee (si veda, ad esempio, Blue Labour: Forging a New Politics, eds. I. Geary, A. Pabst, I.B. Tauris, London – New York 2015) e monografie. Più recente tra queste è Blue Labour: The Politics of the Common Good (Polity Press, Cambridge 2022) dello stesso Glasman. La filosofia del Blue Labour, che il fondatore vi espone, è sostanzialmente coincidente con quella che, a suo parere, vigeva nel partito alla sua nascita, all’inizio del secolo scorso; e d’altra parte lo stesso nome dell’organizzazione richiama il colore che la cultura anglosassone associa alla nostalgia (oltre a essere quello dei Tories). Il Labour, si legge, era una «chiesa larga» (termine che designa il latitudinarismo anglicano), capace di ospitare una pluralità di appartenenze e di posizioni: ceti industriali, urbani e rurali; laici e religiosi; protestanti e cattolici. Queste erano unite nell’intento di realizzare il «bene comune» e la «vita buona», privilegiando – con attitudine definita «burkeana» – la trasformazione nella continuità invece dell’aspirazione alla frattura del coevo massimalismo continentale. A differenza delle sinistre europee, inoltre, il Labour, rifiutava di opporre lo statalismo al laissez-fairismo, predominante per buona parte dell’Ottocento; e valorizzava, sia sul versante politico sia su quello economico, le pratiche cooperative e di autogoverno locale e professionale, suffragate dalle tesi di William Morris e del socialismo ghildista di G.D.H. Cole e S.J. Hobson.
Al fondo vi sarebbe stata una visione relazionale, «esplicitamente aristotelica», della persona: «le istituzioni plurali della vita civile hanno un effetto vitale sulla prosperità dell’individuo e sono inseparabili da esso […]. Questa è un’importante radice del conservatorismo nella tradizione laburista, un interesse alla preservazione dello status, ai limiti del mercato, all’affezione ai luoghi, partendo dal senso comune del popolo [doxa], piuttosto che da valori esterni, e un forte impegno per la vita comune». A lumeggiare ancora l’ethos aristotelico, Glasman rimarca: «I primi teorici dell’economia laburista erano legati alla legge naturale, che prescriveva limiti circa come una persona andasse trattata dall’autorità politica e anche economica». Una legge che non era «astratta, ma incorporata nella storia politica della nazione». Da questa impostazione, di cui Glasman rinviene semi ancora fecondi nella dottrina sociale della Chiesa cattolica e nelle analisi di Karl Polanyi, era derivata la netta resistenza alla «mercificazione» capitalistica dell’essere umano e delle risorse naturali.
Se, poi, nel concetto liberale l’individuo è «formato al di fuori delle relazioni e degli affetti», ed è unito in società solo per mezzo del «contratto» – un «evento isolato […] indifferente alle conseguenze esterne, alle tendenze a lungo termine o al contesto» –, Glasman ritrova nel passato laburista una lettura piuttosto pattizia: la società è, o dovrebbe essere, frutto del covenant di solidarietà tra le generazioni passate, presenti e future, tra le classi e i luoghi che componengono la «comunità». Eppure Glasman rifiuta la qualifica di «comunitarista» per la propria interpretazione del laburismo, poiché il contesto sociale nel quale la personalità si sviluppa è sempre plurale e in continuo mutamento, rendendone impossibile e indesiderabile la cristallizzazione. Piuttosto, la ricerca del bene comune richiederebbe la continua e piena «negoziazione» tra i singoli e i gruppi, ricorrendo all’estensione degli strumenti della democrazia quale area di «non dominio» – scrive il monarchico Glasman, rievocando la concezione repubblicana della libertà dei cittadini dal potere tirannico – di cui sarebbe inverato il carattere sociale.
Queste disposizioni, a parere di Glasman, erano state spazzate via allorché il Labour, a partire dalle formulazioni della Third Way di Anthony Giddens, si rese il più conseguente prosecutore della cosiddetta “svolta neoliberista” reaganiana e thatcheriana. «Tutte le fallacie del marxismo», dalla cui forma originaria il partito si era tenuto alla larga, «furono fatte proprie acriticamente nei termini della rivoluzione, del determinismo tecnologico e della direzione progressiva della storia».
Abbracciando la «teoria Whig della storia», scrive Glasman, il Labour blairiano si era fatto convinto che la rotta obbligata indirizzasse all’ampliamento dei «diritti individuali», anche se a discapito di quelli sociali e «del lavoro», all’unificazione dei mercati, al superamento della «democrazia nazionale». Di qui, sentenzia l’autore del volume, il favore verso la globalizzazione e l’accettazione dei vincoli europei, e la disattenzione per le istanze delle classi lavoratrici e dei left behind. Né Corbyn, nonostante appartenesse all’ala radicale, aveva avuto il coraggio di sfruttare l’occasione del referendum sulla Brexit per proporre una riarticolazione dei rapporti in seno all’Unione nelle forme di una federazione «legata da pace e libero mercato, ma non da un’unione politica e dall’imposizione di un’uniformità economica che sottrae il capitalismo dall’interferenza politica».
Agli occhi di Glasman, gli eventi tra la crisi del 2008 e le risposte all’emergenza Covid, avrebbero segnato la fine della «globalizzazione liberale» e aperto una nuova fase, propizia per l’aggiornamento di quelli che considera i migliori elementi della vicenda laburista e della storia britannica, al fine di riaffermare il potere della politica sulle forze del capitalismo.
Al cuore della proposta riformatrice del Blue Labour si rivela, allora, il recupero (invero non estraneo agli intendimenti originari di Giddens) della sussidiarietà e della cooperazione tra i corpi sociali, professionali e locali. Avvalendosi di più ampi ambiti di autodeterminazione, e rappresentati da «tribuni» (con esplicito richiamo a Machiavelli), questi dovrebbero arricchire la democrazia tanto nella dimensione funzionale quanto in quella spaziale. Tale ripartizione andrebbe a riflettersi nelle istituzioni rappresentative nazionali. Se, infatti, lascerebbe sostanzialmente intatta la composizione della House of Commons, in quanto assemblea dei delegati dei distretti geografici, Lord Glasman giudica indispensabile una decisa trasformazione della Camera di cui è membro. Essa, sebbene non manchevole di «esperienza ed expertise, […] resta una vestigia del clientelismo». Dovrebbe, perciò, diventare la «vocational chamber»: l’assemblea dei rappresentanti del mondo del lavoro, che avrebbe il compito di «revisionare ed emendare la legislazione», prodotta dai Comuni, «sulla base del giudizio di persone che effettivamente sanno di cosa stanno parlando e che, attraverso una democratica elezione, sono riconosciuti esperti nel proprio campo da parte dei loro pari come ».
Sotto il profilo della politica estera, invece, Glasman ritiene necessario che il Labour sospinga il Regno Unito a un approccio «internazionalista»: la «costruzione di alleanze» con nazioni accomunate da preoccupazioni e da interessi irriducibili a «mercato e denaro, e in particolare [alla] finanza». A questo proposito risalta l’invito a «rinnovare il significato sostanziale del Commonwealth come associazione civica e commerciale costruita attorno alle libertà e alla democrazia», che potrebbe fornire anche ai paesi africani una partnership di cui approfittare per sottrarsi all’attuale «espansionismo cinese», «la principale minaccia alla nostra democrazia e alla libertà, a causa del suo potere industriale e alla sua dedizione ideologica a una forma di capitalismo di stato che le esclude entrambe».
Alcune recenti iniziative dell’esecutivo di Starmer sembrano effettivamente andare nella direzione auspicata dal Blue Labour. Il partito, però, difficilmente ne abbraccerà integralmente il programma, pena l’inevitabile opposizione delle sue aree liberali e socialiste. Ma, tanto più in questo frangente, è azzardato prevedere l’evoluzione delle dinamiche interne alla sinistra britannica, sulla quale peserà, oltretutto, l’ipotizzata alleanza elettorale tra le destre.