Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell'interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Nel 2022 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la classe di concorso A019 (Filosofia e Storia). Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, l’ermeneutica letteraria e i paganesimi antichi. Ha pubblicato saggi e articoli per riviste di filosofia, letteratura e fotografia. Con la cura del volume Psyché. L’anima ha contribuito alla collana del «Corriere della Sera» dedicate a Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà  (a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, 2022/2023). È redattore della rivista culturale online «Il Pequod». Ha pubblicato De scriptura. Dolore e salvezza in Proust (Mimesis, 2024).

Recensione a: Davanti alla legge. Leggendo e rileggendo Kafka, a cura di A. Andronico, Mimesis, Milano-Udine 2024, € 26,00.

Che il kafkiano sia un principio metafisico rispetto al quale è più adeguato e corretto parlare di diramazione invece che di comprensione è un aspetto che questo libro curato da Alberto Andronico mostra in modo limpidissimo. Decine tra i più importanti filosofi del diritto del panorama nazionale, anche a partire da un’occasione solo apparentemente triviale, si interrogano in maniera acuta, argomentata e plurale su uno dei testi in assoluto più enigmatici e geniali di Kafka, quel Vor dem Gesetz (Davanti alla legge) di cui già Walter Benjamin, nel suo eccezionale saggio del 1934, aveva colto tutta la portata dirimente per l’intera opera dello scrittore praghese.

Il grande scrittore, come diceva Heidegger in pagine famose su Hölderlin, è un fondatore, e lo stesso può dirsi per Kafka. Fonda un senso, benché, come sottolineato da molti degli autori di questo volume, si tratti a volte della sua stessa rimozione. Con un’immagine ardita, anche questa prestata da Benjamin, il kafkiano è come un gorgo che attira il senso al proprio interno per eliminarlo, uno strumento per decretarne l’indisponibilità, perché un senso generale, se vogliamo realmente avvicinarci a qualcosa come la redenzione, è irraggiungibile. Tale è uno dei percorsi che in questo libro vengono battuti con dovizia argomentativa, certamente in riferimento, ad esempio, al dentro e al fuori del diritto che era già di Derrida, ma anche al prima e al dopo, in senso quindi spaziale e temporale, ricordando il modo in cui molto spesso il racconto viene tradotto nelle edizioni in lingua inglese, e cioè Before the Law. Prima delle legge come prima del senso, rispetto a cui non ci sarà mai un dopo, un punto cioè superato il quale il senso possa dirsi realmente colto e, come voleva Kafka, applicato al travaglio della vita.

A questo proposito, Andronico coglie acutamente due delle identità più proprie di questo possibile grimaldello interpretativo intorno al kafkiano. Riprendendo l’autore premio Nobel del Zauberberg, scrive il curatore: «Era un maestro della forma, come diceva Thomas Mann, e forse è proprio il suo aver portato la scrittura ai limiti estremi della purezza a generare angoscia in chi lo legge. Sorge il sospetto, infatti, che dietro i suoi testi non ci sia nulla. Così come forse non c’è nulla neanche dietro quella porta della Legge di fronte alla quale si presenta un giorno l’uomo di campagna chiedendo di entrare. O magari c’è il nulla, chissà, il vuoto della sua origine. Tutto è davanti, in Kafka» (p. 11). Una riflessione sul nulla, quindi, anche su quello a cui potrebbe ridursi qualunque interpretazione, che però ha il dovere, nonostante tutto, di cimentarsi in un’ermeneutica a cui il testo kafkiano richiama con forza.

Un galleria sempre più rastremata che chiede di essere attraversata, con in fondo il Glanz che intravvede l’uomo di campagna nell’attimo del suo morire, come ironica, vana e frustrante rassicurazione che la legge, il senso, ci sono, che gli sono destinati ma che non si possono ottenere. Leggere Kafka, specialmente i suoi testi più estremi e, come ricordano Adorno e Canetti, scandalosi, significa in qualche modo interpretare se stessi, un ponte che il teoreta e lo studioso possono gettare per costruire una prospettiva originale, a cui lo scrittore praghese offre, come detto, le fondamenta. Il kafkiano, quindi, anche come concetto di spinta, di slancio a dire e a essere. Eppure, con una formula assai acuta, Andronico afferma: «Leggere Kafka, insomma, è forse un po’ come sfondare una porta aperta. Qui risiede la sua ironia. E anche la sua tragedia» (p. 17). Una tragedia però di cui bisogna prendere consapevolezza per dissolverne l’aspetto angoscioso, per trasformarla anzi da elemento angosciante a strumento di salvezza, riconoscendo nella terribile soglia della legge, nell’aperto che Kafka ci fa comprendere come tale, il prima della redenzione, il luogo della Erlösung.

L’aperto che Kafka invita a concettualizzare non è l’accesso alla legge, a quel senso come centro risolutivo di ogni domandare circa l’essere e l’esistenza, ma il suo contrario, la soglia del nulla, dimorare dinanzi all’apertura e lì trovare, per dirla con Heidegger, il senso stesso dell’esserci. Il ci dell’umano è nell’apertura del nulla, sicché la letteratura kafkiana si declina come una profonda istruzione al niente. Un nichilismo attivo della salvezza che fa guarire dall’insana aspirazione all’assoluto, come quella Torre di Babele di cui Kafka dice che, se non si fosse iniziato a costruirla per effettivamente scalarla, Dio ne avrebbe permesso la realizzazione.

Questa aspirazione è formulata da Belloni nei termini di una fascinazione, perché tale è, un canto delle sirene a cui non prestare ascolto per passare indenni dalle loro insidie. È la fascinazione, infatti, a indurre l’uomo di campagna ad attendere per un’intera vita accanto al guardiano, è la fascinazione che gli consuma letteralmente l’esistenza. È una tendenza dell’animo umano che non può essere estirpata, forse controllata e moderata, ma sarebbe meglio eliminarla del tutto nell’accettazione del limite ontologico di tutte le cose, che è costitutivo sia dell’essere sia dell’essente. «Fino a che l’ingresso non verrà chiuso – con la morte – resterà per ciascuno quello spiraglio che intravede l’uomo di campagna, uno spiraglio che promana dall’interno della legge e che attira, abbagliando, quanti anelano alla legge. È come se si trattasse di un fascio di luce che ci investe, illuminando il percorso davanti a noi e dietro di noi e invogliandoci a percorrere la strada che conduce verso la legge, quasi fosse un cammino alla ricerca di una sua origine misteriosa e per questo ancora più affascinante» (p. 30).

È un dramma della conoscenza, come sottolinea giustamente Tuzet, della «mancanza di ragioni conoscibili» (p. 43), poiché si ignora, di fatto, quali siano le reali motivazioni dell’interdizione a entrare nella legge. Ed è anche, forse in misura preponderante, un dramma della finitudine, nel quale secondo Montanari consiste l’enigma della vita nel modo in cui Kafka lo propone con la sua letteratura, la lotta sempiterna cifra della sproporzione di cui parlavano anche Descartes e Pascal, l’incommensurabilità tra il finito dell’umano e l’infinito che egli riesce comunque a concepire.

Il nucleo del kafkiano è allora «la “situazione” dell’uomo, ente empirico e finito, il cui scopo ultimo, anche se spesso non avvertito ma implicito in tale sua dimensione strutturale, dovrebbe consistere nell’interrogarsi circa il senso esistenziale della sua empirica finitudine, che, proprio perché tale, lo apre, appunto, dal punto di vista logico-razionale, verso la mera pensabilità (non conoscenza) di un “ulteriore” “praeter-razionale”», che a sua volta significa l’atteggiamento di «un uomo che consapevolmente si situa sul confine della ragione per andare oltre» (p. 53). Oltre la sua situazione, oltre il suo essere finito. Se infatti l’umano, esemplato dall’uomo di campagna e dal guardiano, fosse la completezza, egli sarebbe già nella legge; non si darebbero nemmeno le condizioni per un’apertura dell’aperto, perché, intercettando gli albori dell’ontologia di Parmenide, l’apertura e l’infinito sono una forma di imperfezione. Solo nel limite come condizione dell’infinito può darsi l’aperto. E Kafka, nelle ultime parole del guardiano, sintetizza la beffa in cui la vita è situata quando vuole oltrepassare l’aperto, dal quale derivano la colpa e il giudizio a cui è immancabilmente sottoposto, che appartengono «alla sua esclusiva e finita consapevolezza» (p. 61).

Avventurarsi verso la legge significa anche prendere di petto due delle componenti dell’esistenza in relazione al suo stesso senso, l’ostacolante e il minaccioso, elementi messi in rilievo da Greco nella sua riflessione, nella quale auspica una rimozione di qualunque guardiano per rendere libero l’accesso alla legge. Il guardiano prospetta gli ostacoli all’uomo di campagna, rappresentati da una serie indefinita di altri guardiani sempre più potenti; Macht che nelle parole del Türhüter, l’ultimo per importanza ma il primo in cui ci si imbatte, costituisce il fattore scoraggiante, appunto la minaccia che fa desistere dal proposito di entrare. Greco caldeggia quindi un’interpretazione in senso riappropriante: «Vedere invece nella Legge ciò che i guardiani tendono a nascondere con la loro presenza – e cioè tutto ciò che costituisce lo scopo e la funzione sociale del diritto – appare l’unico modo per riappropriarsi della Legge e ritrovare i suoi aspetti migliori: se la legge è per le relazioni, essa non potrà non (o quanto meno dovrà) farsene carico, offrendo loro quella “cura” di cui persino il diritto può (e deve) farsi portatore» (p. 119).

In ogni caso, si può individuare uno dei principi ermeneutici meglio penetranti nella duplice riflessione conclusiva di Sciacca, in cui si segue molto da vicino l’epopea edificatoria della creatura indefinita di Der Bau. Lo stesso Kafka si aspettava con i suoi racconti di suscitare il riso nei lettori. E questo è anche uno dei motivi per cui, anche secondo Sciacca, si può propendere verso due percorsi interpretativi, quello comico e quello serio. Ad ogni modo, Sciacca coglie splendidamente ciò davanti a cui la letteratura kafkiana ci mette in guardia, una cautela da adoperare nei confronti della nostra stessa natura umana: «L’essere umano è imperfetto. Tendere verso la perfezione è una cosa che va bastonata, non lodata: perché la tendenza verso la perfezione è un vizio, non una virtù, dell’essere umano. Questa potrebbe essere una chiave di lettura pessimistico-ironica. Vi potrebbe anche essere una chiave di lettura ottimistico-irenica: spregiudicatezza e scherno potrebbero essere una via di salvezza nella lettura dell’’imperfezione umana. E la comicità di Kafka probabilmente potrebbe avere questa nota di mancanza di solennità, compensata dal gusto dello spiazzamento» (pp. 298-299). C’è da concordare su quanto afferma Sciacca, e cioè che al fondo dell’intenzione letteraria kafkiana giace una norma di buon-senso, volto cioè ad accettare la finitudine, l’imperfezione, il limite, e a riconoscerli come qualcosa su cui intervenire con decisione, persino con violenza, al modo del bastonatore del Processo contro il quale la vittima Josef K. si accanisce stupidamente per farlo smettere. Ritengo però che, insieme allo scherno, anche la tragedia, il dramma, l’angosciante che si dipartono da Kafka siano una componente dell’eirene attesa, delle sue condizioni, come la figura che sta alla finestra forse addirittura inconsapevole dell’invio del messaggio dell’imperatore. Ridere delle proprie sciagure, certo, libera e consola. Ma alla radice del riso c’è sempre dell’altro. Compreso quello, si viene assolti, e si sospira.

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