Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
V.E. Parsi, Vulnerabili: come la pandemia cambierà il mondo
Piemme, Milano 2020, formato e-book, € 2,99.
Apprezzato analista di relazioni internazionali, Vittorio Emanuel Parsi in questo instant book sorretto da sincero impegno civile immagina quale volto potrà mostrare il mondo quando la bufera della pandemia sarà definitivamente alle nostre spalle. L’Autore delinea tre scenari («restaurazione»; «fine dell’impero romano»; «rinascimento») e già dai nomi si intuisce che i primi due si connotano per un profondo pessimismo e solo il terzo scenario invita alla speranza di un mondo migliore.
Nello scenario della restaurazione non assisteremo a bruschi mutamenti strutturali né nelle relazioni internazionali né nelle dinamiche del processo di globalizzazione. L’interdipendenza tra le cose continuerà a prevalere sull’interdipendenza tra le persone. Ma questo scenario non comporterà neppure il ritorno sic et simpliciter al passato: il mondo restaurato presenterà i tratti salienti del precedente ma con un netto slittamento verso la diseguaglianza. Nei rapporti internazionali la Cina, se da un lato sarà costretta a ridimensionare i colossali investimenti già pianificati, proseguirà tuttavia lungo l’itinerario della digitalizzazione e del potenziamento delle nuove tecnologie informatiche di controllo sociale; gli Stati Uniti pagheranno lo scotto di un ridimensionamento di prestigio internazionale ma consolideranno le proprie posizioni difensive, secondo le linee tracciate dalla presidenza Trump e, prima ancora, dalla presidenza Obama. Il ripiegamento degli USA sulle posizioni interne segna un mutamento strategico di lungo periodo; l’emergenza della pandemia lo ha ulteriormente accentuato. L’Unione Europea, a egemonia tedesca, continuerà a caratterizzarsi per debolezza e litigiosità. Ma nello scenario della restaurazione quel che più preoccupa l’Autore è l’incremento delle disparità sociali. C’è chi ha tratto e trarrà ancora immensi profitti dalla pandemia: «chi gestisce la rete, la sua infrastruttura e i contenuti che vi sono riversati». Il mercato globale che fa perno sull’interdipendenza e la mobilita delle cose più che delle persone, continuerà a dilatarsi a discapito della democrazia e delle protezioni sociali. Più che una crisi di involuzione autoritaria di segno sovranista, lo scenario della restaurazione contempla il ritorno al potere delle oligarchie tecnocratiche e finanziarie che, attraverso governi “tecnici”, hanno già imposto nel recente passato le loro scelte a discapito delle popolazioni, «giustificandole con l’esigenza della globalizzazione». Un punto di deciso interesse, che l’Autore tocca con prezioso acume, sta proprio nella critica giustamente corrosiva al mito della neutralità dei tecnici e scienziati sociali. La scienza economica «è stata trascinata nel campo di giudizio di valore dell’opinabile» e, fusasi con l’oligarchia del potere, ha imposto alle popolazioni come tecnicamente ineludibili (e moralmente neutri) «sacrifici asimmetrici per mantenere un ordine economico e sociale iniquo». Lo stesso abito mentale lo si è ritrovato nei giorni più drammatici della pandemia, quando ovunque le classi politiche hanno ceduto il passo alle autorità dei tecnici sanitari oppure, più sottilmente e in accordo con i virologi, hanno presentato come necessarie e neutre scelte che in realtà sono innanzitutto politiche, valoriali e nient’affatto tecniche. La tentazione, diffusa anche tra i cittadini comuni, di affidare agli “esperti” e alla loro presunta imparzialità i destini delle democrazie pare all’Autore uno dei più gravi rischi.
Lo scenario da «fine dell’Impero romano» è dipinto a tinte forti e con chiaroscuri. La pandemia ha mostrato tutta la fragilità delle interconnessioni dei processi produttivi. In questo scenario assisteremo al repentino passaggio da una economia a lungo raggio a una di scala regionale. E sarebbe «la fine della divisione globale del lavoro», con affermazione di realtà economiche non più planetarie ma circoscritte in macro-aree. Per esempio, gli USA dominerebbero il loro giardino di casa (il Continente americano); la Cina ridurrebbe a proprie colonie economiche le nazioni asiatiche minori; etc. Questa regionalizzazione economica procederebbe di pari passo con trasformazioni politico-istituzionali: si appannerebbero gli organismi internazionali e tornerebbero in auge le autorità politiche locali, più insistenti sul territorio. Questo scenario (non troppo originale perché ricorda da vicino la schmittiana divisione del globo in plurimi Großraum) presenta aspetti contraddittori. Alcuni positivi: la divisione in spazi regionali autonomi e autosufficienti, potrebbe tradursi in duraturo equilibrio; economie su scala ridotta eviterebbero le delocalizzazioni produttive. Altri negativi: con lo smantellamento dell’economia globale si andrebbe incontro «a una maggiore probabilità di involuzione autoritaria dei regimi democratici», questa volta non a vantaggio di tecnocrazie ma di gruppi politici sovranisti e populisti. E ciò soprattutto se la pandemia diventasse cronica: il distanziamento sociale, la paura del contagio, la chiusura in se stessi favorirebbe l’affermazione di poteri autoritari i quali in cambio di maggiore sicurezza farebbero strame delle libertà individuali. D’altronde le autorità politiche, non più globalizzate, accrescerebbero l’intensità del controllo. A tale proposito la Cina offre già oggi un caso esemplare di regime isolato dalla realtà globale della rete. La Great Farewall, la Grande Muraglia digitale è funzionale alla repressione mirata del dissenso e alla profilazione di interi gruppi sociali. Una repressione raffinata, all’altezza del XXI secolo: «Potendo disporre dei singoli profili individuali il regime può scegliere quali strumenti repressivi siano efficaci per il singolo target».
E veniamo all’ultimo scenario («il rinascimento»). Per comprendere la previsione o la ricetta dell’Autore si deve partire dal nocciolo della questione esposto all’inizio del saggio: la pandemia ha enfatizzato la vulnerabilità del fattore umano. Se salta questo fattore, salta tutto. L’uomo, non le cose, va posto al centro dell’economia. Noi abbiamo invece subìto una globalizzazione al cui centro vi era la mobilità delle cose. Un bene vale tanto più quanto maggiore è la sua mobilità E il bene che circola più rapidamente è il denaro delle transazioni finanziarie digitalizzate. Il capitale nomade ha prevalso sul lavoro stanziale nel senso che sono stati i lavoratori – anche in conseguenza di scelte politiche e “tecniche” squilibrate dal lato del capitale – a doversi adattare al denaro. Ciò si è tradotto ovunque in contrazione dei diritti del lavoro e precarizzazione della vita di milioni di persone («sono state le persone a doversi adattare alla velocità del denaro e delle merci, finendo col dover accettare la compressione di retribuzioni, protezione, diritti»). La pandemia, colpendo il tassello più vulnerabile della globalizzazione, cioè gli esseri umani, ha bloccato la produzione di merci e servizi e ha compresso la mobilità delle transazioni. Il meccanismo si è inceppato. Rimettere l’uomo al centro, un uomo che non è soltanto produttore/consumatore ma anche cittadino, padre, figlio, diventa essenziale. Il sistema va “tarato” sul fattore umano e regge solo se è capace di proteggere i suoi elementi più vulnerabili. Ma cosa propone in definitiva l’Autore? Non il capitalismo “di concessione” (in cui l’élite economica è subordinata alla élite politica autoritaria, come avviene in Cina e in Russia); e neppure il capitalismo della globalizzazione (che l’Autore un po’ arbitrariamente riconduce al reaganismo), bensì il capitalismo ben regolamentato, il modello franco-renano, il sistema del giusto equilibrio tra democrazia e mercato, libertà e solidarietà. «Tra un mondo dominato dagli autocrati e un mondo dominato dal denaro esiste ancora una terza possibilità: quella di un mondo governato per gli esseri umani». Insomma: un umanesimo vagamente socialdemocratico. Una ricetta legittima e condivisa da milioni di persone, ma nient’affatto nuova.
A volte l’analisi dell’Autore, solitamente obiettiva, pare offuscata da pesanti giudizi di valore su alcune leadership del mondo occidentale, giudizi legittimi in quanto diretta espressione delle preferenze politiche e emotive di Parsi ma che denotano scarso distacco dall’oggetto di studio. Prendiamo ad esempio il presidente Trump, sprezzantemente e apoditticamente definito «la persona più tragicamente inadeguata a ricoprire la carica di presidente». Ogni volta che lo si menziona, lo si fa per redarguirlo, tacciarlo di incompetenza, incapacità e perniciosità. L’Autore insiste nel sottolineare le dimensioni catastrofiche che la pandemia ha assunto negli USA proprio a causa dell’inadeguatezza dell’odierna presidenza, senza però spiegarci perché – al di là degli slogan – e in cosa questa presidenza si sarebbe rivelata più impreparata e inadeguata di altri governi occidentali (compreso quello italiano). Non che non manchino critiche a Macron, o ad Angela Merkel (e invece manca ogni sia pur minimo accenno critico alla condotta tenuta dal governo italiano) ma queste, quando ci sono, vengono condotte con linguaggio più misurato e circostanziato. Una cautela che con Trump (e con Boris Johnson) l’Autore non osserva. Per esempio a più riprese l’Autore disegna come particolarmente gravi, a causa di difetti strutturali del sistema e della (al solito) «conclamata inadeguatezza» di Donald Trump, le conseguenze economiche abbattutesi sugli USA nei mesi della pandemia. Conseguenze addirittura catastrofiche, epocali, uniche per gravità e dimensioni in tutto l’Occidente. Ma poi è lo stesso Autore a riportare le previsioni del Fondo Monetario Internazionale sulle cadute in picchiata del pil nel mondo occidentale. Ebbene, tali previsioni segnano cali più contenuti per gli USA e la Gran Bretagna (rispettivamente: -5,9% e –6,5%) e più accentuati per Germania e Francia (-7% e –7,2%), per non parlare dell’Italia (-9,1%). Quanto a disastri la pandemia da Covid-19 non fa preferenze tra gli USA di Trump e l’Europa dei nostri odierni governanti.