Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Tra le leggende più divertenti del cabaret italiano, spicca il famigerato “beverone” di Enzo Jannacci. Si racconta, infatti, che Jannacci, anche medico oltre che artista, fosse aduso somministrare ai propri amici uno strambo intruglio per curare i loro malanni. Il comico Paolo Rossi una volta svelò la ricetta: «Cinque volte il vostro peso di acido salicilico, un po’ di gin, acqua tonica e una pastiglia presa a caso dalla borsa del dottore».

Ultimamente mi è tornato alla mente questo aneddoto, perché mi pare un’immagine adeguata per presentare un fenomeno socio-culturale dai contorni poco netti e tuttavia assai pervasivo. In prima istanza, potrei definirlo, con toni ironico-polemici dei quali mi scuso in anticipo, il “beverone ideologico”. È una sorta di sistema Frankenstein, che mette insieme parole o espressioni d’ordine quali ad esempio “antifascismo”, “uomo bianco maschio occidentale”, “eurocentrismo”, “liberismo”, “imperialismo occidentale”, “patriarcato”. La tassonomia è difficile da completare, perché a questi concetti-vagoni se ne possono agganciare o sottrarre altri, per estendere o modificare il beverone. Ciò che accomuna tale insieme di idee che di norma viaggiano insieme, questa “teoria del tutto” in salsa sociale, è un pathos del rovesciamento o smascheramento.

Questi concetti sono entrati nel lessico del ceto mediocolto, quello che ha un’infarinatura di tutto, ma padroneggia davvero poco, fino a formare un corredo di idee utilizzato meccanicamente, in una sorta di sonnambulismo culturale, che si auto-rafforza grazie all’impressione di poter dominare il presente con poche nozioni, come un chitarrista principiante che ha imparato il giro di Do e crede di padroneggiare l’intero repertorio musicale. Così, sempre più persone, giovani o meno giovani, donne e uomini comuni, studenti, giornalisti, perfino professori o accademici, lanciano in aria come coriandoli tali idee, estendendole come un elastico per spiegare praticamente qualsiasi fenomeno: per ogni fatto c’è già lo schema pronto che divide gli oppressi e gli oppressori in base alle generalità del passaporto.

Il danno che produce questa chiacchiera (che ricorda il “Si dice” heideggeriano) è duplice. In primo luogo, infatti – e chiedo al gentile lettore di fare attenzione al passaggio che segue – questo Frankenstein concettuale riduce a macchietta temi seri, la cui consistenza reale non si vuole qui negare, appiccicandoli dappertutto, col tipico sussiego del cittadino che mostra fiero la propria “autonoma opinione” dopo aver letto un paio di libri e ascoltato ben tre podcast, con l’avallo di un certo populismo accademico che forse è sempre esistito, ma oggi è un po’ più effusivo grazie ai social che grattano il narcisismo. La questione, insomma, non è negare che “patriarcato”, “eurocentrismo”, “imperialismo occidentale”, “fascismo” e così via siano esistiti ed esistano ancora oggi: il problema, per utilizzare (con qualche forzatura) una nota invenzione concettuale di Uwe Pörksen, è che tali termini sono diventati delle “parole di plastica”. Fabbricati dal mondo degli specialisti ed entrati nella lingua comune, con tutta l’aura di “termini scientifici”, i concetti che essi esprimono diventano “verità assolute”. Dopo tale battesimo, acquistano una valenza mitica, esercitando una specie di tirannia connotativa a cui diventa impossibile sottrarsi. A tal proposito, possiamo chiamare in causa Italo Calvino e la sua idea di “antilingua”: «Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per sé stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente».

Ma veniamo all’altro danno procurato da questa chiacchiera. Essa sottrae spazio a un autentico pensiero critico; la caratteristica principale di questo grammelot da influencer della cultura, infatti, è la richiesta perentoria di adesione, non di interlocutori. Si vende come frutto del dubbio ma lo vieta tassativamente. Chi può controbattere quando si tira in ballo la terribile peste dell’eurocentrismo e del suprematismo bianco come spiegazione universale di ogni male della storia, dalla scoperta dell’America a oggi? Chi se la sente di imbarcarsi in un contraddittorio quando l’interlocutore addita il patriarcato come causa praticamente di qualunque distorsione nei rapporti tra i generi? Chi riesce a precisare che sì, l’imperialismo americano esiste, ma forse, ad esempio, c’è pure quello russo o cinese, e le popolazioni dell’Est Europa e di Taiwan ne sanno qualcosa? Ovviamente, sollevare questa questione espone al rischio di essere inseriti nella lista nera di quanti vogliono perpetrare le storiche ingiustizie sistemiche. In aggiunta, il Frankenstein si presenta come pratica di resistenza, ma di fatto il “beverone” è molto praticato e ospitato in salotti tv, editoriali, festival; si autocelebra come avanguardia, ma in realtà la denuncia dell’eurocentrismo e l’autocritica delle democrazie liberali era roba nuova nel dopoguerra, non certo oggi. Il fenomeno culturale di cui stiamo parlando è spesso nutrito da una filosofia fuzzy che presenta almeno tre costanti, strettamente legate tra loro: un vago “declinismo” che presenta l’Occidente come entità antropologicamente inquinata; la nostalgia per una “autenticità” o “essenza” umana dalla quale capitalismo, tecnoscienza e razionalismo ci avrebbero allontanati; il richiamo allo “spirito dei popoli” che, ovviamente, si troverebbe in un’origine mitica da rispolverare.

Rientra in questo pot-pourri anche un’idea geopolitica, che ultimamente circola molto, conosciuta come “equilibrio multipolare”, sulla quale è istruttivo soffermarsi. Dopo l’equilibrio bipolare Usa-Urss, e la fase di interregno unipolare a guida americana iniziata dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il nuovo assetto mondiale deve prevedere più zone d’influenza a guida Usa, Cina, Unione Europea, Russia e forse altri Stati. Il reciproco riconoscimento o equilibrio tra le diverse potenze garantirebbe la pace e la stabilità internazionale. Ora, che il mondo stia andando verso questa direzione, che possa farlo senza aumentare il volume dei conflitti bellici (purtroppo già alto), è tutto da vedere: sotto certi aspetti possiamo augurarcelo. Il punto è un altro. L’“equilibrio multipolare” si aggiunge alla lista di quei concetti originariamente anche seri, ridotti però a slogan e inseriti nel beverone ideologico di cui sopra. Che il mondo presenti diversi potenze candidate ad essere altrettanti poli di un equilibrio internazionale è una palmare evidenza: la questione, semmai, è guardare dentro tale sistema e scoprire quali insidie può contenere.

A questo punto scopriamo che il mondo multipolare, questa ricetta per la pace mondiale da più parti indicata, è nientemeno che uno dei cavalli di battaglia di Alexandr Dugin, filosofo e ideologo di Putin. In La sovranità nel mondo multipolare, articolo pubblicato da «L’ircocervo» nel 2020, Dugin espone la sua idea di multipolarismo. Nel saggio, il pensatore russo comincia col richiamare la sua Quarta teoria politica, così nominata perché intende essere la proposta che segue le tre grandi teorie della politica moderna, vale a dire il liberalismo, il fascismo e il comunismo. Queste tre teorie politiche si differenziano, spiega Dugin, in base al soggetto posto al centro dalle rispettive prospettive: l’individuo nel liberalismo, la nazione nel fascismo, la classe nel comunismo. Un nuovo soggetto dovrebbe subentrare ai precedenti anche se, in verità, ci pare che questo nuovo soggetto non venga ben identificato dall’autore nelle sue opere.

Tornando all’articolo, dopo aver ricordato la fine dell’equilibrio bipolare e la crisi di quello unipolare, Dugin richiama la configurazione completamente nuova del mondo attuale, «caratterizzata da nuove collisioni e scontri, tensioni e conflitti». Come se ne esce? La soluzione che il filosofo russo lascia intravedere, a questo punto, consiste nella valorizzazione della categoria di “civiltà”. Ricordando la nota opera di Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà, infatti, Dugin dichiara esplicitamente che in quel testo il politologo statunitense «avanza un’ipotesi del tutto valida e ancora oggi sottovalutata su chi sarà l’actor, il principale personaggio del mondo a venire. Egli chiama tale attore “la civiltà”. Huntington mette in luce un elemento centrale: identifica un nuovo attore, la civiltà, e al tempo stesso parla della molteplicità di questi attori, usando al plurale questa parola nel titolo del suo libro». Riconoscendo la molteplicità delle civiltà e identificandole con i principali attori del nuovo sistema di relazioni internazionali, scrive il pensatore russo, otteniamo una prima approssimazione della mappa di un nuovo mondo: il mondo, o ordine, multipolare. Ma cos’è una civiltà? Per il nostro autore, «non ha nulla a che fare con le idee di Stato, regime politico, classe, rete, ecc. La civiltà è una comunità collettiva unita da una stessa tradizione spirituale, storica, culturale, intellettuale e simbolica […]. Con il collasso del blocco socialista, in luogo di un’opposizione simmetrica tra Oriente e Occidente compare un nuovo campo di tensioni in cui si confrontano diverse civiltà». Queste civiltà, oggi molto spesso divise dai confini nazionali, nel corso dei processi di globalizzazione e integrazione diventeranno sempre più consapevoli dei propri legami comunitari e agiranno nel sistema delle relazioni internazionali, guidate dai propri valori e da interessi comuni derivanti da questi valori. In un tale sistema a venire, dice Dugin, «le civiltà saranno libere di organizzare le proprie società secondo le proprie preferenze, in base ai propri sistemi valoriali e alle proprie esperienze storiche. Per alcune di esse, la religione giocherà un ruolo centrale, per altre potrebbero prevalere i princìpi del secolarismo. In alcune vi sarà democrazia, in altre vi saranno forme politiche di governo completamente diverse, o legate all’esperienza storica e alle caratteristiche culturali di una società, o scelte come più appropriate dalle società stesse».

Tutto molto bello, plurale, tollerante, “policentrico”. Ma c’è un piccolo dettaglio da chiarire: quanta libertà c’è di spostarsi all’interno di questo puzzle per una popolazione? Ad esempio, chiediamo ingenuamente, se gli ucraini volessero entrare nell’Unione Europea, possono farlo? Chi decide esattamente i confini di queste civiltà? I perimetri sono attraversabili o no? Chiunque abbia letto Un Occidente prigioniero di Milan Kundera può intendere ciò di cui sto parlando. La risposta, seguendo l’argomentazione di Dugin, non tarda ad arrivare. Per trasferire dal campo socioculturale al campo giuridico la nozione di civiltà, il filosofo russo si richiama al concetto di “grande spazio” di Carl Schmitt: «Il concetto di “grande spazio” – scrive Dugin  ̶  si correla inoltre a quello di “impero” (il termine tedesco das Reich significa “impero”, “regno”). Secondo Schmitt le “grandezze fautrici e artefici della coesistenza tra i popoli non sono più, come nel XVIII e XIX secolo, Stati, bensì Reiche, ‘imperi’” i quali rappresentano “le potenze egemoni, la cui idea politica s’irradia in un grande spazio determinato, e che per questo spazio escludono per principio gli interventi di potenze esterne”». Su tali basi, l’ideologo di Putin distingue un impero atlantico (avente il suo centro negli Stati Uniti), seguito dagli embrioni di un impero asiatico (imperniato sulla Cina), di un impero europeo e di un impero eurasiatico (avente il suo fulcro nella Russia), cui andranno ad aggiungersi altri “grandi spazi” potenziali nel mondo islamico.

A questo punto, arriva il passaggio cruciale:

La Russia ha recentemente perso un enorme segmento del suo “grande spazio”, ma si sta gradualmente orientando verso una direzione eurasista (il che implica un nuovo ciclo di iniziative volte all’integrazione del grande spazio eurasiatico). I fautori del progetto imperiale russo ritengono che, per giungere alla soglia di una effettiva multipolarità, la Russia deve ricostituire la sua influenza nello spazio post-sovietico, integrando attorno a sé quei paesi e popoli legati ad essa da un “nesso di civiltà”. E, parallelamente a questo, deve promuovere la formazione di un fronte unito costituito da tutti quei progetti alternativi all’impero americano oggi esistenti, dal più blando al più audace.

Sì, avete letto bene: il passo appena citato rappresenta la conclusione del decorso argomentativo col quale Dugin, in sostanza, fornisce la giustificazione “filosofica” dell’aggressione militare di altre popolazioni. È questo, infatti, che il nostro autore vuole dire con «iniziative volte all’integrazione del grande spazio eurasiatico», facendosi scudo col burocratese. Naturalmente, come si sarà visto, non può mancare il condimento antiamericano. A tal proposito, è rivelatore il fatto che Dugin esprima il desiderio che gli Usa tornino alla dottrina Monroe e all’isolazionismo: il distacco tra Stati Uniti ed Europa è fortemente sponsorizzato.

In altre parole, l’“equilibrio multipolare” di Dugin è nient’altro che la piattaforma ideologica anti-illuminista e anti-liberale cui richiamarsi affinché, nei diversi “grandi spazi”, una potenza centrale sia legittimata ad assorbire ogni disomogeneità rispetto alla “civiltà” che intende guidare: se può farlo con le buone, meglio, altrimenti lo farà con le cattive. Il Nomos della terra è il richiamo mitologico che fa da sfondo a questa filosofia. Se sentite aria di Blut und Boden probabilmente avete ragione. Spero che quanti inseriscono nel beverone ideologico anche “equilibrio multipolare”, sappiano che questa espressione così “ragionevole” può essere il volto rispettabile di un’impostura intellettuale.

Di fronte a certi scenari l’unica via che caparbiamente possiamo cercare di seguire è quella di continuare a pensare bene e a praticare, nel pensiero, quella che per il filosofo francese Henri Bergson era l’invenzione greca per eccellenza: la precisione. È una via oggi di minor successo (forse mai stata di successo), ma che può piantare semi che potranno germogliare al di là di questi anni di pericoloso trambusto.

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