Recensione a: D. Miccione, Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, LetteredaQALAT, Caltagirone 2022, pp. 204, € 17,00.
L’intellettuale, che è il vero protagonista di questo libro a dispetto delle molte pagine dedicate a descrivere il suo contrario, almeno una volta deve essersi posto, in un momento di afflizione e di scoramento sociale, questa domanda: ma io che ci sto a fare?
Una domanda terribile, in realtà, una domanda che ha a che fare con il suo stesso destino, con la sua sopravvivenza minacciata costantemente dalle orde di ignavia di cui questo volume di Miccione mostra benissimo i caratteri, la genesi e l’identikit, quello dell’ignorante ipermoderno, il quale, anziché fare dell’ignoranza una colpa o un demerito, non sa nemmeno di non sapere, insomma non si pone nemmeno il problema circa un suo eventuale difetto. Ma rispetto a cosa, a chi?
È proprio qui che si gioca la questione con cui l’intellettuale non può che in ultima analisi parteggiare. Come rileva molto giustamente la lucidissima introduzione di Francesco Coniglione, questo libro è strutturato su una fenomenologia dell’ignorante contemporaneo, sul suo dilagare, che giocoforza minaccia chi in queste pagine dovrebbe riconoscere, se sollecitato, il pericolo per la sua stessa estinzione, l’intellettuale di cui l’autore difende identità, storia e missione oggi quasi totalmente misconosciute. I dati forniti dall’Autore – benché si tratti della seconda edizione di un libro pensato e scritto per la prima volta quasi un decennio fa ma che resta tuttora valido (e dimostrazione ne è appunto la riedizione, che ne fa ben altro che un semplice documento storico dal valore profetico) – tracciano un panorama desolante, confermato dalla fenomenologia personale che ciascuno di noi, se si ritiene un intellettuale, crea ogni giorno facendo le stesse esperienze di quello stupidario tragicamente grottesco del primo capitolo di imbarazzanti ma sibilline prove di ignoranza pura (il rispondere, ad esempio, alla domanda su quale sia la religione più diffusa in Nord Africa con il protestantesimo).
Più si va avanti con la lettura, più lo spazio disputabile per l’intellettuale di pura razza sembra restringersi fino all’area ancora protetta dalle istituzioni (anch’esse però abbastanza malate) di alta formazione, istruzione e ricerca. Ma perché l’intellettuale, protagonista del libro, si domanda circa la sua stessa esistenza? Perché è lo sguardo di chi traccia questa fenomenologia a contare, è proprio l’occhio a interessarci, ciò che vede e come lo vede, quali sono le zone sociali da osservare con più attenzione, quali, eventualmente, i fenomeni, i rischi, le storture, i rigurgiti di orgoglio, gli individui da salvare.
La solitudine dell’intellettuale è sempre stata un luogo comune della storia. Perché innamorato di tempi perduti, perché sprezzatore e critico del presente, perché nostalgico di un passato migliore o invidioso di un futuro ancora da venire. Ma se questo libro è la vera rappresentazione di una minaccia, di un deuteragonista, esso ci permette di capire, ed è la sua grande ricchezza, chi sia colui che pone la domanda, che percepisce la minaccia, che si oppone a questo regresso dei tempi, tutt’altro che alti per parafrasare l’Ortega y Gasset molte volte citato. Per dirla con il Gadamer teorico dell’ermeneutica, l’intellettuale di Miccione è la bestia ormai rarissima, quasi da giardino zoologico, impagliata in qualche sparuta galleria accademica, dell’homo traditionis, del garante e del difensore di una civiltà che si senta figlio di quell’Occidente su cui l’epoca attuale si poggia ancora, del custode non di spoglie, pur gloriose, di un tempo finito, ma di viva fiamma. Il sostenitore di quell’idea di Umanesimo di retaggio così antico che per i tempi odierni talmente velocizzati è scaduto nell’oblio. È dunque un fatto di visione del mondo, di fiducia e di credenza. L’intellettuale è chi crede che la conoscenza sia il principale modo di accesso al mondo per vivere meglio e trovarvi occasione di felicità e pienezza; che la lettura sia lo strumento per poterlo fare; che serva fatica per adempiere a tutto ciò e che essa abbia un senso. L’intellettuale oppone la fatica e la complessità alla superficialità dell’ignorante cultore del mariadefilippismo; oppone il merito e il riconoscimento degli sforzi alla troppo facile raccomandazione o alla garanzia di fare la scalata per coloro che sono provvisti dei giusti mezzi; oppone la lucidità e l’eleganza del pensiero alla raffica di grida mercantili dei talk show e della televisione, oppone la solitudine della lettura al peso altrimenti insostenibile di un libro letto in silenzio per chi è totalmente immerso nell’ondata delle notifiche e degli stimoli digitali.
Il libro di Miccione, naturalmente, non può rivolgersi all’esemplare di ignorante ipermoderno che analizza (perché questo, com’è ovvio, non avrebbe nemmeno gli strumenti per affrontarne il titolo), né lo fa con intenti discriminatori (benché a volte, per motivi di onore leso, si sia tentati di preferirlo), poiché aspira a parlare a quell’intellettuale di cui discutiamo, a sensibilizzarlo, a fargli capire che non è solo, a indurlo a leggere dentro di sé per fargli cogliere i doveri intimamente sociali e collettivi che egli rappresenta con la sua presenza ostinata al mondo, che la sua è una profonda missione etica. Come ricorda con la bellissima epigrafe da Pasolini, Miccione vuole che il suo libro venga inteso come un atto profondamente filantropico, cioè, alla lettera, di amore per l’umano di «ogni ordine e degrado» (così il quarto capitolo), di strenuo contrasto al regresso anche se questo significasse la denuncia vana e disperata.
Al di là infatti di quali e quanto impietosi possano essere i dati forniti dagli istituti di statistica, dai sondaggi o dai sociologi, bisogna collocarsi su un altro piano di riflessione: «La domanda fondamentale è, perciò, non quanta ignoranza vi sia negli attuali studenti universitari italiani o negli studenti di secondo grado ma, più generalmente, quale sia il rapporto degli italiani, come popolo, con la conoscenza» (p. 80). La conoscenza di cui scuole, università, cinema, teatri, musei dovrebbero essere motori propulsivi e non relegati a fanalino di coda delle scelte politiche nazionali degli ultimi decenni, le quali dirottano gli investimenti sulla produzione e la folle ricorsività del progresso tecnologico su se stesso, determinando con ciò (e forse è questo il vero problema) un inesorabile impoverimento intellettuale, che, ad esempio, ci mette in mano dispositivi sempre più potenti, veloci e collegati globalmente ma per visionare contenuti di bassissimo profilo e vergognosamente scadenti: qualcosa che Heidegger avrebbe facilmente definito come il trionfo della tecnica sulla parola, dell’impianto (il Gestell) creato dall’uomo sull’uomo stesso, che ne diviene il mero mezzo di esecuzione.
Come nota Miccione citando alcune affermazioni di Baricco, siamo al cospetto di un mutamento di civiltà e di cultura, naturale e necessario in ogni caso possibile, ma si tratta di un cambiamento in cui sempre più nettamente emergono due posizioni tra di loro antitetiche e l’un contra l’altra armate, quella dell’intellettuale e quella dell’ignorante, in cui il secondo, nelle vesti di un barbaro anti-storico, sta letteralmente facendo a pezzi il primo.
Ma questa riflessione sulle possibili cause non deve distrarci dal dato che emerge. È un dato che si impone, una di quelle cose che chiedono a chi viene a saperle di prendere necessariamente posizione. Questa è in fondo l’unica cosa che questo libro chiede al suo paziente lettore: prendere posizione (p. 84).
Questo monito rivolto all’intellettuale – il paziente lettore – viene riproposto da Miccione in altri luoghi del libro e in differenti contesti, ma conserva sempre il suo carattere di presa di posizione come chiamata all’agire, alla sensibilizzazione, a spendersi energicamente affinché la sua presenza non resti vana e destinata in tal maniera alla dissoluzione.
L’invito è ancora pasoliniano: mischiarsi alla gente, mediare le sue conoscenze, rendersi appetibile ma non stomachevole, patetico. L’intellettuale «cresciuto in serra» (p. 123), o al sicuro nella sua bolla, che rifugge la massa di ignoranti ipermoderni per sdegno, ribrezzo o pernicioso senso aristocratico, è il peggiore nemico di se stesso, una specie di eutanasia inconsapevole.
Dunque normalmente l’intellettuale non sa nulla. Il suo silenzio è massimamente innocente perché lui appunto, di come è fatta la gente, non ne sa proprio nulla. Sono due mondi che non si frequentano. A pensarci meglio però il suo silenzio è massimamente colpevole perché per l’intellettuale non sapere nulla è in assoluto l’unica colpa imperdonabile (p. 124).
È anche per tale motivo che questo libro di Miccione rappresenta un’ottima guida per l’intellettuale per informarlo, per sollevarlo da questa colpa altrimenti difficilmente perdonabile.
Elemento a cui l’Autore, ancora sulla scorta dei barbari di Baricco, aggiunge: «Stiamo tramontando, è d’uopo rendersene conto e non avercela con chi non ci avversa volutamente, anzi con chi in fondo non ci vede nemmeno» (p. 128). Ed è questo il principio di differenza, tra chi si abbarbica su un’altra cultura impiantandovi in essa quanto porta con sé (nell’esempio di Miccione, le persone della sua generazione che provenendo da un’altra temperie tecnologica adesso leggono i giornali soltanto sul tablet o che per il puro piacere di farlo preferiscono una videochiamata a una conversazione vera) e chi invece della propria cultura continua a non sapere né da dove provenga (la sua storia) né che cosa sia (il presente nella complessità delle sue manifestazioni). L’ignorante ipermoderno ha quindi questo di diverso: «Manca al Nostro, per essere un barbaro, la comprensione della sua stessa cultura. Non la conosce, sa esserne solo utente, non la sa generare, non è in grado di capire gli aspetti tecnologici e matematici che ne stanno alla base» (pp. 131-132).
Insieme quindi allo sforzo fenomenologico della Lumpen Italia (dal Lumpenproletariat, il sottoproletariato marxiano che in Miccione diventa sottoproletariato cognitivo trasversale a ogni classe sociale) e dell’ignorante ipermoderno, l’autore associa la scelta di uno stile di vita opposto a quello superficiale, analfabeta e privo di fatica, e con grande precisione traccia il cammino che auspica di seguire nella scuola, in politica, in società, nella scrittura: «Il problema non è rifiutare la società contemporanea ma pensare altre forme di contemporaneità ed essere consapevoli che la libertà delle idee non si costruisce nel vuoto del sottoproletariato cognitivo ma nel cozzo delle idee, nel conflitto (parola rimossa e terrorizzante) degli stili di vita. Pensare che questa dialettica si possa stabilire attraverso il nostro “pilatismo” di genitori, vicini, cittadini, elettori, pubblicisti, insegnanti eccetera, significa solo lasciare campo libero. Non proporre con forza una via migliore costituita dalla frequentazione dei libri non significa lasciare spazio alla vocazione o passione individuale che ogni uomo diversamente interpreta ma, più concretamente, lasciare in balia della sola via peggiore: quella diffusissima, e del tutto interessata, che vede i libri come una perdita di tempo» (pp. 143-144).
Questa mi sembra la sintesi migliore degli intenti di questo libro, la strenua e condivisibile idea di un tipo molto preciso di uomo, un’idea che sta subendo smottamenti e incrinature: quella dell’intellettuale, lo ripetiamo, ma più segnatamente dell’intellettuale come uomo del libro. In una pagina per me bellissima in cui, non a caso, si prende le mosse da Walter Benjamin, Miccione fornisce quasi en passant una definizione puntuale e rigorosa della figura di tate uomo che, come si è detto all’inizio, è il vero protagonista di questo libro. Così Miccione concepisce l’intellettuale:
In senso estensivo, gli intellettuali sono coloro che mantengono in vita la civiltà umana occidentale come siamo abituati a pensarla da secoli, cioè un luogo dove si crea e si fruisce arte visiva e musicale, letteratura, dove per iscritto vengono comunicate scoperte scientifiche o analisi della realtà che ci circonda (p. 116).
Il libro di Miccione si inserisce in questa eredità per difenderla e per rendere edotti, prima ancora degli ignoranti, gli intellettuali che rimangono, che vogliono resistere.