Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan (Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Tra i cosiddetti scritti minori del celebre filosofo Immanuel Kant, spicca un intervento dal titolo curioso, apparso nel 1796: D’un tono da signori assunto di recente in filosofia. Nel breve saggio, intriso di squisita vis polemica, Kant prende posizione contro tutte le filosofie che pretendono di rispondere ai grandi quesiti dell’esistenza non attraverso il faticoso rigore argomentativo, ma ricorrendo a intuizioni pseudo-mistiche, svendevano così l’impegno della seria analisi filosofica in cambio di una popolarità derivata dall’apparenza di una grande sapienza.

È molto facile, denuncia Kant, evitare il lavoro richiesto dalla paziente costruzione logica, che trova dei presupposti, tenta di svilupparli coerentemente, affronta le obiezioni, esamina le contraddizioni. Molto più comodo saltare a piè pari l’intero processo e sostituirlo con un insieme di orecchiabili pronunciamenti:

Il modo sprezzante con cui ci si rifiuta di riconoscere il formale della nostra conoscenza (che pure rappresenta l’occupazione fondamentale della filosofia), ritenendolo una pedanteria che va sotto il nome di ”fabbrica di forme”, conferma il sospetto di una riposta intenzione: quella di bandire, in realtà, in nome della filosofia ogni filosofia, e, da vincitore nei suoi confronti, darsi arie da signori.

Ora, Kant intendeva difendere l’autentica pratica filosofica. Ma non solo. Ad un secondo livello, difendeva la fatica del pensare in quanto tale, che spesso deve attraversare drammi e frustrazioni prima di poter raggiungere qualche risultato apprezzabile: se la grazia non è a buon mercato, a maggior ragione non lo è la verità (comunque la si intenda).

Le sue parole, mutatis mutandis, possono tornare utili per provare a discutere su alcune prese di posizione sull’invasione russa dell’Ucraina, sorte nell’ambito del cattolicesimo italiano. Mi riferisco a quanti hanno fin da subito abbracciato forme di pacifismo “assoluto” e dintorni, pretendendo talvolta di presentarsi come gli interpreti più fedeli del messaggio evangelico. Assumere questo ruolo è molto conveniente mediaticamente, soprattutto in un tempo di twitterizzazione dell’opinione pubblica: i seguaci di una persona che predicava l’amore per i nemici e diceva “porgi l’altra guancia” possono mai abbracciare una teoria diversa dal pacifismo? “Nient’affatto!”. Et voilà, discorso chiuso. Basta dirsi per la pace contro la guerra, per la non violenza contro la violenza: cos’altro c’è da aggiungere? Ci sarebbe però da chiedere chi mai si dichiarerebbe contro la pace e a favore della guerra. I più grandi criminali della storia si sono sempre detti persone pacifiche. Il 1 settembre 1939, mentre la Wehrmacht stava già massacrando i polacchi da qualche ora, nel parlamento tedesco Adolf Hitler parlava delle sue «proposte per limitare la produzione di armi e per eliminare certi metodi di guerra moderna» e degli estenuanti tentativi intrapresi «per trovare una soluzione pacifica al problema dell’Austria e più tardi a quello dei Sudeti, della Boemia e della Moravia». Solo pochi giorni prima, il 27 agosto 1939, il cancelliere tedesco aveva rassicurato via lettera il presidente francese Daladier  ̶  che su Hitler, va detto, era più sveglio di Chamberlain  ̶  con toni quasi commoventi: «Come ex combat­tente, conosco come voi l’orrore della guerra. In ragione di questa forma mentale e di questa esperienza, ho fatto lealmente ogni sforzo per eliminare qualsiasi causa di conflitto tra i nostri due popoli». Insomma, vista da chi è composta la brigata pacifista della storia, dirsi a favore della pace, anche se in assoluta buona fede, è un po’ come dichiararsi per la salute contro la malattia.

Un discorso che punta tutto sulla declamazione ossessiva del valore della “pace”  ̶  ovviamente “senza se e senza ma”  ̶  derubricando il resto ad adulterazione della purezza dottrinale, ha una grande forza di penetrazione nel mercato dell’attenzione, soprattutto quando in giro c’è tanta nostalgia di discorsi chiari, abituati come siamo alle vaghezze opportunistiche dei governanti. Però c’è chiarezza e chiarezza. Quella sana segue la tortuosità del reale, non lo sacrifica sull’altare di una limpidezza morale coibentata, impermeabile al sangue innocente che zampilla dalla carne del mondo. Il mito dell’incontaminato, del resto, è il santo patrono di ogni moralismo.

Il conflitto, iniziato con la brutale aggressione dei soldati di Putin, va ormai avanti da un anno e mezzo, e le vite umane perdute, gli orrori, le deportazioni, le torture, gli stupri, non possono non generare un grido della nostra coscienza e la richiesta di arrestare subito la spirale del male. Il problema, però, è che ogni soluzione alla guerra che chieda de facto l’arresto dell’autodifesa e congeli le conquiste sul campo ottenute dalla Russia, è un premio all’invasore: chiamare pace tutto questo è una adulterazione logica, dinanzi alla quale la (mia) coscienza grida non meno di prima. Tra l’altro, la maniera in cui un immediato negoziato dovrebbe portare a evitare ulteriori crimini di guerra rimane non specificato dai proponenti. Proprio sul punto più delicato si resta sempre sul vago. In aggiunta, se, giustamente, si ripudia la guerra come «mezzo di risoluzione delle controversie», il miglior modo per tradire tale intento, a mio avviso, è proprio rendere conveniente fare la guerra dando all’invasore ciò che si è preso con la violenza e che mai il diritto gli avrebbe concesso. È per questo che Emmanuel Mounier nel suo I cristiani e la pace, tanto citato in questi mesi ma poco letto, scriveva che «Il cristiano (…) deve rifiutarsi di dare il nome di pace alla semplice assenza di guerra armata o di sangue versato. La pace apparente, nel senso negativo della parola, può essere a certe condizioni un male spirituale equivalente al male della guerra». Giudicare quindi a priori come anticristiana l’assistenza militare agli ucraini, significa, mi pare, aggiungere una nota a piè di pagina alla mitologia dell’incontaminato, che niente ha a che fare con chi crede in un Dio incarnato, che si è mischiato ai peccatori per la salvezza dell’uomo.

A chi chiede di abolire il concetto della “guerra giusta” (fino a ieri sempre affermato nella dottrina cattolica) bisogna prestare attenzione massima: il potenziale distruttivo dei nostri arsenali è troppo grande e troppo spaventosi gli orrori che abbiamo alle spalle, per non avvertire disagio dinanzi a un’espressione simile. Papa Francesco, sollevando la questione nell’enciclica Fratelli tutti, ha toccato un nodo importante. Già la Chiesa Evangelica in Germania, in un documento del 2007, Vivere della pace di Dio – Prendersi cura della pace giusta, aveva espresso la necessità di una revisione, proponendo la categoria di “pace giusta”. Giusta può essere solo la pace, mai la guerra. Tale correzione, però, seppur con un opportuno spostamento di accento, non nega l’universale diritto alla legittima difesa dei singoli e dei popoli, come del resto non l’ha negata papa Francesco.

Siamo così ricondotti alla vischiosità della storia e al duro appello alla nostra coscienza, dinanzi al quale non si può fuggire con richiami profetico-romantici (ancora la polemica di Kant). Non si può circumnavigare la tragedia della storia, se non si vuol somigliare a quei banditori della pace a basso prezzo dei quali Geremia diceva “gridano pace, pace quando pace non c’è” (Ger 6,14). Se il cristianesimo non dev’essere un irenismo velleitario, bisogna andare al di là dei pronunciamenti speculativi e sciogliere i nodi. Orbene, sostenere che la violenza è moralmente sbagliata, vuol dire sancire che non esiste un diritto a usare violenza e che colui verso il quale sarebbe rivolta ha il diritto a non essere oggetto di violenza. Se però a qualcuno è rivolta una violenza, deve difendersi o no? Se la risposta è sì, la discussione non c’è più, se è no, sussiste un problema perché è autocontradditorio “affermare che hai un diritto a X, ma che non esiste giustificazione di sorta per impedire a qualcuno di privarti di esso”, come ha rilevato Jan Narveson nel noto articolo Pacifism. A Philosophical Analysis del 1965. Dentro queste faticose contraddizioni il credente deve entrare, a costo di perdervisi.

Forse distinguere tra violenza (che vìola il diritto) e forza (che talvolta è necessaria per ristabilire il diritto) sarebbe utile, e forse, come sostiene il filosofo Andrea Aguti nell’articolo Si può davvero essere pacifisti? (in «Filosofia morale», vol. 1, 2022), si è propagata una confusione nell’etica cristiana contemporanea tra etica dei precetti ed etica dei consigli. Ciò ha fatto credere che quello che può essere scelto da pochi sia da additare a tutti. «Il fallimento che ne è conseguito – si dice ancora nell’articolo  ̶  ha gettato e continua a gettare discredito sullo stato di perfezione morale che mediante i consigli viene raccomandato, rendendo incerto, per altro verso, ciò che invece è moralmente obbligatorio». Probabilmente, aggiunge l’autore, soltanto in questo modo, «cioè distinguendo un piano di perfezione morale guidato dai consigli evangelici da uno guidato dai precetti della legge morale naturale, è possibile evitare che “pacifismo” e “guerra giusta” siano posizioni contraddittorie». La prospettiva di Aguti sembra richiamare quanto Mounier dice nel testo già citato: «Non esiste vocazione vera e propria che non sia personale. Nessuno può decidere da solo il martirio – vocazione questa non solo suprema ma anche eccezionale – per la propria famiglia o per il proprio paese. Questa immolazione di una nazione, per essere valida, esigerebbe l’unanimità di un popolo che agisse, in senso stretto, “come un sol uomo”». Si tratta di una “via eroica” di partecipazione al mistero della Croce, che un cristiano può abbracciare ma che non si ha alcun diritto – spiega Mounier  ̶  di estendere a dovere universale. La distinzione dei piani, che non vuol dire separazione, appare decisiva. Il gesuita americano David Hollenbach, nell’ultimo numero de La civiltà cattolica, in un articolo in cui ricostruisce il magistero dell’attuale pontefice sulla guerra, scrive: «Nel regno di Dio si realizzeranno sia la totale non violenza sia la pienezza della giustizia. Nei limiti dell’esistenza storica, tuttavia, le nostre società e la nostra politica non saranno all’altezza del pieno raggiungimento della non violenza e della giustizia proprie del regno di Dio realizzato. Quando si daranno casi del genere, saremo costretti a prendere sagge decisioni politiche su come bilanciare i valori della non violenza e della giustizia».

Difendere la vita non coincide col preservare le vite a ogni costo, perché significa salvarla in “corpo ed anima”. Aggiungo subito, a scanso di equivoci, che sono perfettamente consapevole del fatto che questo pensiero vada maneggiato con estrema cura, poiché troppe volte abbiamo sacrificato esistenze a mostruose trascendenze religiose o politiche; tuttavia ricordiamo anche che è possibile perfettamente sacrificare esistenze vive facendole morire mentre respirano, negando loro la dignità e la libertà. Mi si potrà dire: “Ma noi vogliamo portare l’utopia della pace contro il realismo brutale della guerra”. Sì, ma confesso che mi appare ben strana un’utopia che chiede sostanzialmente di accettare i rapporti di forza militari. Si dirà ancora: “Ma è realisticamente possibile mettere fine al conflitto senza un qualche compromesso, seppur minimo?”. Forse no, ma un conto è cedere col ricatto della violenza, un altro è risolversi a con-cedere in un sovrappiù di responsabilità, e a questo si potrà pur arrivare, non ne ho idea. Fintanto che un tiranno minaccia di schiavitù un popolo, se ascoltiamo la lezione del pastore Dietrich Bonhoeffer, vittima del nazismo, si devono però mettere i bastoni tra le ruote al tiranno. La semplice solidarietà con le vittime non è sufficiente: bisogna assumersi la responsabilità delle conseguenze di ciò che si fa e di ciò che non si fa. A fine ‘800, negli Stati Uniti, lo pseudo-messia Wovoka predicava ai nativi l’imminente scomparsa dell’uomo bianco e il ritorno alla vita serena e felice di prima. Bisognava solo praticare il rituale della “Danza degli Spiriti” (Ghost Dance) e le potenze divine avrebbero agito. Finì che nel dicembre del 1890, nella valle del torrente Wounded Knee, i soldati americani massacrarono almeno 150 Sioux, in larga parte disarmati.

Il punto è che i principi possono essere usati a favore dei deboli o per disertare il dramma della storia: o sono la luce che fuga l’oscurità in cui prosperano gli aguzzini, oppure servono alla reputazione di chi li declama. È scritto nel salmo “giustizia e pace si baceranno”. In quest’ordine: giustizia e pace. È troppo facile prendere partito per un’idea, più difficile è schierarsi per le persone.

Due postille finali. Chi scrive sa che esistono diversi tipi di pacifismo e diverse sfumature. I miei rilievi qui sono mossi verso quanti sostengono che il sostengo militare, in quanto tale, sia in contraddizione col Vangelo. In secondo luogo, mi scuso se nei toni, in qualche passaggio, il mio discorso sarà suonato un po’ duro o intransigente. Sono persuaso che più grande è la voglia di dialogare sul serio, più autentica debba essere la confessione delle rispettive idee. Davanti alla guerra, condivido con tutte le persone ragionevoli  ̶  del cui consesso spero di far parte  ̶  il travaglio, l’incertezza, il dubbio, la pena, dunque, lo assicuro, anche lo sforzo di tenere aperta la mente per sentire discorsi contrari a ciò che oggi la mia coscienza ritiene giusto.

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