Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, insegna Filosofia teoretica, Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. Ha anche insegnato Epistemologia, Sociologia della cultura e Storia dell’estetica. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Altri temi di cui si occupa sono: la mente come dispositivo semantico; la vitalità del pensiero classico greco e romano; le strutture ontologiche delle intelligenze artificiali; la questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). Il suo sito web è www.biuso.eu

Recensione a: H. Arendt – M. Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze (Briefe 1925 bis 1975. Und andere Zeugnisse, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1998), Pubblicato dai lasciti a cura di U. Ludz, edizione italiana a cura di M. Bonola, Einaudi, Torino 2007, pp. 315, € 24,00.

Nel carteggio tra Martin Heidegger e Hannah Arendt vibra immediatamente una disincantata verità sulle relazioni umane: «Non vogliamo immaginarci qualcosa come un’amicizia spirituale, che tra esseri umani non esiste mai» (M.H., lettera n. 1, 10.2.1925, p. 4). E infatti fu una passione profonda quella che spinse il giovane professore e la giovanissima allieva a reciprocamente darsi, volersi, possedersi.

Non tutto è rimasto del loro carteggio durato l’intera vita, solo una parte, soprattutto le lettere conservate da Hannah. 119 sono infatti i documenti firmati da Heidegger e soltanto 33 quelli di Arendt. E tuttavia pur nella parzialità, nella reticenza, in un pudore d’altri tempi, questo straordinario carteggio è assai chiaro.

Heidegger e Arendt irruppero l’uno nella vita dell’altro come «qualcosa che nessun sentimento riesce a dominare» (M.H., n. 1, 21.2.1925, p. 5), che li rese amanti in anni appassionati ma poi per sempre. Così si esprime il filosofo nei confronti di Hannah: «Soltanto per poco tempo ancora potrò resistere alla nostalgia di te» (n. 15, 13.5.1925, p. 21); «Ti amo così come sei e come resterai con la tua storia» (n. 20, 22.6.1925, p. 24); «La tua vicinanza è luce solare» (n. 32, 5.11.1925, p. 37).«Bacio le tue care mani. Appartengo interamente a te» (n. 39, 19.2.1928, p. 45).

L’amore di Hannah appare completo, molteplice, limpido: «Ti amo come il primo giorno – tu lo sai, e io l’ho sempre saputo, anche prima di questo incontro. […] Avrei perso il mio diritto alla vita, se perdessi il mio amore per te» (n. 42, 22.4.1928, pp. 47-48); «Non dimenticarmi, e non dimenticare quanto sia forte e profonda in me la consapevolezza che il nostro amore è diventato la benedizione della mia vita. […] Ti bacio la fronte e gli occhi, Tua Hannah» (n. 43, probabilmente il giorno stesso del suo matrimonio con Günther Stern/Anders, 26.9.1929, p. 48); «Ma io sono la tua bambina, sono davvero Hannah» (n. 44, settembre 1930, p. 49).

Per entrambi, anche se in modo diverso, questo amore è ‘per sempre’: «Ti sei avvicinata a me proprio partendo dal centro della tua esistenza e sei diventata una forza che agisce per sempre nella mia vita» (M.H., n. 12, 24.4.1925, p. 16); a proposito del libro Vita activa Hannah scrive questa dedica: «Dedicarlo a te, l’intimo amico, cui sono e non sono rimasta fedele, sempre per amore» (n. 89, 28.10.1960, p. 238).

Tra i due amanti si interpongono lunghi periodi di distanza fisica, di tempo, di scrittura. Una distanza che Heidegger esprime, accetta – quando Arendt decide di lasciare Marburg per Heidelberg –, razionalizza, scrivendo «ti ho dimenticata – non per indifferenza, non a causa di circostanze esteriori, che si siano intromesse, ma perché ero costretto a dimenticarti e ti dimenticherò ogniqualvolta mi ritroverò a dover lavorare con assoluta concentrazione. […] E la tua decisione – io dico ‘no’ ad essa, se penso a me stesso, e le dico ‘sì’ se penso a me nell’isolamento del mio lavoro» (n. 35, 10.1.1926, pp. 38-39).

Una distanza che però sembra non scalfire mai ciò che la curatrice Ursula Ludz definisce esattamente «il segreto che lega queste due persone» (p. 280).

Un segreto che si apre nella profonda gioia con la quale Heidegger comunica il proprio successo didattico e Arendt ne individua alcune delle ragioni: «Un’ora di lezione il venerdì dalle cinque alle sei sul tema Che cosa significa pensare? [Was heißt denken?] – l’aula magna viene occupata già fin dall’una, e verso le quattro non c’è più posto per nessuno – persino per me ce n’è poco; la lezione viene poi trasmessa in due altre aule; complessivamente saranno milleduecento uditori che tengono duro» (n. 77, 14.12.1951, p. 99); e questo perché – come scrive Hannah – «nessuno fa lezione o ha mai fatto lezione come sai fare tu» (n. 14,  18.6.1972, p. 183).

Il vertice di questo amore intellettuale è raggiunto nella chiarezza ed efficacia con la quale Hannah Arendt in occasione degli 80 anni di Heidegger parla della novità che quest’uomo e il suo pensare costituiscono nella vicenda della filosofia contemporanea. Si tratta di una presentazione esemplare della personalità di Heidegger, forse la migliore che si possa leggere, nella sua sintesi, empatia, rigore:

La voce che li attirava verso il libero docente a Freiburg e un po’ più tardi a Marburg diceva che c’era uno che faceva davvero le cose che Husserl aveva proclamato, uno che sapeva che non si trattava di faccende accademiche, ma delle domande degli uomini che pensano, e non soltanto da ieri o da oggi, ma da sempre; e che riscopriva il passato, proprio perché per lui il filo della tradizione si era spezzato. […] La fama lo diceva in modo semplicissimo: il pensiero ha ripreso a vivere, il patrimonio culturale del passato che si credeva estinto, ha ripreso a parlarci ed esprime cose molto diverse da quelle che, con diffidenza, si supponeva ci dicesse. C’è uno che insegna, forse è possibile imparare a pensare (n. 116, discorso radiofonico del 25.9.1969, pp. 140-141).

Un pensare che per Arendt e Heidegger «è in sé un agire» (M.H., n. 65, 27.6.1950, p. 82), nel quale tra vita activa e vita contemplativa non si dà iato, salto, differenza ma continuità nel dominio di ciò che è grande. Un pensare che è fatto di domande e non di dogmi. Un pensare nel quale «la metafisica alla fine è stata [appunto] pensata e non soltanto sopraffatta», come Arendt afferma ancora nel discorso radiofonico del settembre 1969 (p. 142). Un pensare che scaturisce e rimane immerso nella verità e nella potenza dell’intero, della Φύσις, del mondo:

La solitudine delle montagne, il ritmo di vita tranquillo del montanaro, la vicinanza elementare del sole, della tempesta e del cielo, la semplicità di una traccia perduta su di un ampio pendio copiosamente innevato – tutto questo tiene l’anima più che mai lontana da ogni turbamento e cruccio dell’esistenza. E qui è la patria della pura gioia (n. 6, 21.2.1925, p. 7);

Qui vivo nuovamente immerso nella natura, nella mia terra nativa, e sento come maturano i pensieri. Girovagare nei boschi di abeti è anche un modo meraviglioso di meditare. […] In un ambiente di questo tipo il lavoro ha una consistenza diversa, rispetto a quando ci si muove in mezzo a professori litigiosi e intriganti (n. 28, 23.8.1925, p. 31).

Un pensare, soprattutto, che «continua a darmi gioia» come Heidegger scrive a Arendt il 19.6.1973 (n. 157, p. 191).

Heidegger sapeva «che io, nonostante tutto, a prescindere dalla durata della mia vita personale, ho molto tempo» (n. 68, 15.9.1950, p. 87). Una donna meravigliosamente intelligente, politicamente scorretta («Devo dedicarmi alle lauree honoris causa; io quest’anno ne ho ricevute cinque – una vera inflazione, di cui dobbiamo ringraziare il movimento delle donne completamente impazzito. Suppongo che l’anno prossimo sarà la volta anche degli omosessuali», n. 144, 27.3.1972, p. 180), una donna innamorata di Martin Heidegger sino alla fine dei suoi giorni, dà al filosofo conferma della unicità e grandezza del cammino di pensiero da lui intrapreso, percorso, costruito: «sai già da solo che non ci sono tuoi pari» (n. 133, 28.7.1971, p.167). Anche noi, adesso, lo sappiamo sempre meglio.

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