Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: Pace e mercato. Le relazioni internazionali nella tradizione liberale, a cura di N. Iannello e A. Mingardi, Edizioni Studium, Roma 2024, pp. 240, € 20,00.

Reso ancor più attuale dall’ampliarsi dei conflitti nel mondo, nel corso degli ultimi anni si è riacceso in Italia l’interesse per la storia delle teorie pacifiste e internazionaliste e, in particolare, per quelle di matrice liberale. Ne sono la prova le recenti traduzioni di testi classici, quali gli Scritti e discorsi politici. Il libero scambio per la pace tra le nazioni (a cura di A. Mingardi, Rubbettino, 2022) di Richard Cobden, La società del futuro e La produzione della ricchezza (Sapere Aude, 2023) di Gustave de Molinari e La grande illusione. Studio sulla potenza militare in rapporto alla prosperità delle nazioni (a cura di E. Giammattei e A. Lepore, Rubbettino, 2023).

Brani di questi autori – assieme a quelli di Montesquieu, Adam Smith, Benjamin Constant, John Bright, Juan Bautista Alberdi, Herbert Spencer, Vilfredo Pareto, Frédéric Passy e Ludwig von Mises – sono ora meritoriamente recuperati e antologizzati in Pace e mercato. Le relazioni internazionali nella tradizione liberale (a cura di N. Iannello e A. Mingardi, Edizioni Studium, Roma 2024). In tal modo, spiegano i curatori del volume – Nicola Iannello e Alberto Mingardi, rispettivamente Senior Fellow e direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni –, si potrebbero in primo luogo confutare alcuni pregiudizi circa il liberalismo classico. Innanzitutto, questo non si interessa esclusivamente alla politica interna, cioè ai rapporti tra Stato e individui. Possiede invece una visione circa le relazioni internazionali. Ed essa non è riconducibile all’esportazione su scala globale dei «diritti umani», dei valori o dei modelli politici ed economici liberali, magari manu militari, prescindendo dall’esistenza della «statualità» con un’ingenuità che, non di rado,  maschererebbe gli intenti egemonici e predatori dell’Occidente. Al contrario, mentre propugnava la trasformazione in senso antiautoritario dei governi, difendendo i benefici della libertà di commercio contro le teorie mercantilistiche che avevano invitato all’espansionismo coloniale, il liberalismo aveva affermato la necessità di rapporti umanitari, pacifici e cooperativi sul piano internazionale, senza fare appello a sentimenti di benevolenza.

Come dimostra l’antologia, infatti, la carriera del pacifismo e dell’internazionalismo liberali sorgeva e si modulava sull’onda delle rivoluzioni che avevano trasformato lo scenario della modernità: commerciale, scientifica, militare, industriale, tecnica. In De l’esprit des lois (1748), riflettendo proprio sul commercio, a cui la bussola aveva aperto «l’universo», Montesquieu scriveva infatti che esso aveva felicemente consentito agli individui di realizzare il proprio «interesse» senza cedere alla malvagità che avrebbe ispirato loro il cedimento alle «passioni». Così erano contraddetti il convincimento, radicato ancora in Montaigne, che si traesse profitto solo arrecando il danno altrui e quello secondo cui si potessero contrastare le passioni, naturalmente antisociali, soltanto reprimendole. Ci si avviava inoltre, come argomentò Albert O. Hirshman, alla “distruzione dell’eroe”, ossia al superamento dell’equazione di ascendenza platonica, mantenuta dal cristianesimo, tra la virtù e la continenza, alla quale il repubblicanesimo avrebbe aggiunto le qualità militari per la difesa della patria. Il commercio e il lusso – avrebbe ripetuto lo “spartano” Jean-Jacques Rousseau – intaccavano davvero i costumi tradizionali, ma ciò non veniva necessariamente per nuocere. Anzi, mettendo in contatto le nazioni, «il commercio guarisce dai pregiudizi distruttori», sentenziava Montesquieu; perciò, ovunque sia praticato «vi sono costumi miti». Soprattutto, lo scambio rendeva le nazioni «reciprocamente dipendenti», per la rispettiva convenienza di acquistare e vendere. Il vicino, visto un tempo come un nemico da sottomettere e ridurre e impoverire, per conquistarne i beni e i territori (prima che egli facesse altrettanto con noi), ora si sarebbe potuto e dovuto intendere come un potenziale partner commerciale, la prosperità del quale avrebbe favorito la nostra. La guerra, ormai, finiva per danneggiare tanto il vincitore quanto il vinto e, notava Smith un trentennio dopo, l’«invenzione delle armi da fuoco» aveva ulteriormente innalzato i costi per l’addestramento delle truppe in tempo di pace (sulle spese dirette per gli armamenti si concentrano, peraltro, anche i passi dell’antologia tratti da Pareto).

Il riflesso della rivoluzione militare sulla strutturazione del paradigma pacifista liberale era ancora più evidente in Constant. In De l’esprit de conquête et de l’usurpation (1814), difatti, si constatava con soddisfazione la complessiva fine dell’“età della cavalleria” che Edmund Burke aveva rimpianto. Se la guerra aveva avuto «in talune epoche» il merito di stimolare nobili valori, ora essa aveva perso anche quella motivazione e il relativo fascino. Non coincideva più con le condizioni e gli interessi dei moderni; e sarebbe stato piuttosto lo «spirito militare», diventato anacronistico e nocivo, a corrompere i costumi ormai invalsi tra i moderni, votati alla libertà politica e civile e alla «tranquillità», che lasciavano modo e tempo per l’«industriosità» e per gli «agi» che ne scaturivano.

La tesi, che Constant riprendeva, sui legami di interdipendenza tessuti dal commercio, con il corollario della pace internazionale, avrebbe ricevuto un enorme impulso da parte di Spencer, tanto influente nella propria epoca quanto dimenticato o, al più, travisato oggi. Cresciuto in un clima di sostegno alla battaglia contro i dazi sull’importazione di cereali animata da Cobden e Bright (dei quali Pace e Mercato propone due testi, contro i blocchi navali e contro l’interventismo, degli anni della guerra di Crimea), il presunto fautore di ciò che Thomas Henry Huxley chiamò una “barbarie ragionata”, appare dalle pagine di The Study of Sociology  (1873) come fustigatore di quella forma di malinteso «egoismo» collettivo esaltata con il nome di «patriottismo», latore di pregiudizi razziali e incoerenza morale. E certamente si può ricordare che, applicando le teorie evoluzionistiche alla realtà sociale, lo spenceriano sistema della filosofia sintetica aveva individuato nell’espansione del libero mercato e della cooperazione spontanea e volontaria tra le nazioni industriali, fuoriuscite dalla fase prevalentemente militare e specializzatesi in un ramo della produzione, le vie per la pacifica integrazione economica e politica internazionale, meta di umanità assurta all’“etica assoluta” della conciliazione razionale di egoismo e altruismo.

Così Spencer fissava il modello a cui più o meno direttamente guardava Alberdi. L’argentino, in El crimen della guerra (1870), vedeva anzi sorgere il diritto internazionale dal commercio, che è «costruttore della pace universale» e «unifica il mondo» sotto lo sguardo sanzionatorio della pubblica opinione avversa alle impese belliche e pronta a chiederne conto ai suoi rappresentanti. “Con buona pace”, è opportuno dire, di Ugo Grozio, reputato sì «creatore del moderno diritto delle genti», ma egli stesso «in un certo senso opera del commercio», poiché influenzato dall’egemonia mercantile olandese.

D’altra parte la contrazione dello spazio e del tempo procurata dal progresso repentino nei trasporti e nelle comunicazioni, durante la seconda rivoluzione industriale, avevano consolidato l’assunto che dai sempre più saldi vincoli oggettivi tra i popoli venisse l’opportunità di conseguire la pacificazione perpetua, non più intervallo preparatorio per i conflitti che effettivamente si preparavano. Se Passy, fondatore di organizzazioni pacifiste e vincitore del Nobel per la pace nel 1901, reiterava quei convincimenti avendo conosciuto lo scontro franco-prussiano, Mises e Angell lo facevano dopo aver assistito alla Grande guerra. Anche Angell venne insignito del Nobel, nell’annus horribilis 1933, proprio per The Great Illusion, la cui edizione originale datava però al 1910. E l’“illusione” a cui si riferiva era quella di cui erano vittime coloro che pensavano ancora a una guerra vittoriosa e alle acquisizioni territoriali come a buoni affare.

Certo, sottolineano Iannello e Mingardi, gli internazionalisti liberali non preconizzavano il necessario avvento dell’armonia universale secondo dinamiche meccanicistiche o finalistiche, benché alcuni, come Kant, riconoscessero nella spinta dei traffici commerciali a quello scopo un’astuzia della “Natura”. In altri casi, invece, vi videro l’inveramento delle profezie bibliche (così, ad esempio, in Cobden, in Bright e in Passy). E vale aggiungere che, specularmente, la persuasione sui vantaggi politici e sociali degli scambi si ritrova anche in alcuni esponenti del cattolicesimo liberale, come Niccolò Tommaseo, per il quale negli anni ’30 dell’Ottocento i «consorzi commerciali, stretti fra provincie e nazioni», e «gl’interessi materiali intrecciati da nazione a nazione» cementavano «una prima materiale unità, la qual frattanto renderà impossibile le diplomatiche tirannidi e le militari».

Sarebbe ora facile affermare che “illusione” fosse quella coltivata dagli internazionalisti liberali nel tentativo di convertire alla propria prospettiva. Si potrebbe contestare che, pur non errando nel considerare il mercato un efficace antidoto a tante ragioni di contrasto, non tenessero in dovuto conto le conflittualità incrementare dal sistema commerciale, la difforme praticabilità di questo nei vari contesti culturali o l’attitudine da esso palesata a prosperare anche in sistemi politici tutt’altro che pacifici e liberali, oppure – come i curatori scrivono – la capacità della guerra di creare profitti per «segmenti piccoli ma molto influenti del mondo produttivo». Paiono innegabili la refrattarietà di tante passioni a lasciarsi imbrigliare dagli interessi e la non convertibilità di ciascun interesse a motivi di utilità materiale: a voler permanere nel solco schiuso dalla filosofia spenceriana, mancherebbe ancora di ravvivare quella tensione verso l’“apertura” spirituale che Henri Bergson, non a caso,  aveva indicato tra le due guerre mondiali. Resta che quella che Pace e mercato riporta alla luce è effettivamente una tradizione «intellettualmente rilevante» nella storia del pensiero politico, oltre che di quello liberale, la quale merita di essere conosciuta, esplorata e discussa.

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