Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Quando il giorno di Ferragosto ho visto il nostro vicepresidente del consiglio nonché ministro dei trasporti, Matteo Salvini, inzuppare nell’acqua una fresella su Instagram, davanti a una tavola imbandita con pomodori, formaggi e salumi, la mia memoria associativa si è messa in moto. Subito mi sono ricordato di una scena simile ma dal contenuto grottesco assai più elevato. Sempre su Instagram (l’idealista Berkeley avrebbe detto che il mondo materiale è un’illusione prodotta dalle stories) una fidanzata napoletana chiedeva al suo lui di bagnare una fresella nel mare, per tre volte, ché lei aveva già preparato i pomodori e il tonno da metterci sopra. La cosa non è proprio salutare, ma i proprietari dell’account sembravano ignorarlo, così come lo ignoravano quanti, sempre a favore di social, hanno passato l’estate a usare l’acqua di mare per sciacquare mozzarella, pomodori o frutti di mare prima di mangiarli.

Ciò che lega la prima immagine di questo articolo con la seconda, non è la presenza della fresella nelle due scene, ma qualcosa secondo me di più profondo, che ha a che fare con una sindrome di cui soffre il nostro Paese e che è tra i responsabili del suo declino, speriamo non irreversibile. Credo che questa sindrome possa essere spiegata con la fissa per ciò che è “autentico”. Con questa parola vogliamo riferirci a quell’ampia e articolata mitologia della veracità e dell’incontaminato, che ormai sembra essere penetrata in tante teste, da quelle dei politici a quelle dei semplici cittadini, passando ovviamente per i food influencer. Tale mitologia crediamo poggi su due assunti di fondo: ciò che è naturale è in quanto tale anche innocuo; il naturale è tutto ciò che c’era già prima che l’uomo si mettesse a lavoro: la natura è il mondo al sesto giorno della creazione.

In base a tali assunti, allora, sciacquare la fresella in un mare trasparente non può fare male, perché il mare è naturale quindi innocuo. Inutile ricordare quanti batteri e sostanze chimiche nocive possano esserci nell’acqua. Tutto ciò che è “locale”, “verace”, “tradizionale”, “casalingo”, “paesaggistico”, è automaticamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Bisogna andare all’origine, dov’è custodita l’autenticità, per trovare ciò che ci fa bene. Naturalmente si tratta di concetti vaghi ma forse per ciò stesso assai seduttivi. Ecco che allora i food influencer riempiono l’infosfera di video coi prodotti tipici, con l’italianità che promana da prosciutti e salami, coi localini intimi dove si cucina “proprio come una volta”. Il fenomeno si nota in particolare a Napoli, città che ora è in pieno hype, e che a nostro giudizio rappresenta l’Italia vista con lente d’ingrandimento, ma su questo forse diremo un’altra volta. Gli influencer napoletani si occupano quasi tutti di cibo ed esattamente entro i canoni che abbiamo detto. Pizzaioli e ristoratori seguono a ruota: “il latte di questa mozzarella è solo campano” (per le bufale di Gaeta c’è il Daspo), “l’olio che utilizzo”, declama uno orgoglioso, “viene da un piccolo frantoio dell’alto casertano” (prossima volta fornirà il codice fiscale dell’azienda olivicola). Da qui è facile passare alle spiaggette incontaminate, alcune da raggiungere solo via mare, ai piccoli borghi dove poter essere ancora svegliati dai galli, agli spaghetti alla Nerano gustati mentre si ammirano i faraglioni di Capri dal proprio motoscafo.

Che c’è di male, si potrebbe controbattere, se dei giovani produttori di contenuti su internet parlano di pizza e provola (di Agerola, of course), se dei ristoratori insistono giustamente sulla genuina provenienza dei propri prodotti e se si va alla ricerca di luoghi panoramici dove passare le vacanze? Ovviamente nulla in sé e per sé, anzi. La questione appare rilevante, almeno a noi, quando tale prospettiva diventa una vera e propria forma mentis tale da influenzare la vocazione di un’intera comunità. Spieghiamoci. I nostri nonni hanno vissuto il passaggio dell’Italia da nazione agricola a potenza industriale. Noi rischiamo di vedere il trapasso da potenza industriale a hub turistico del Mediterraneo e pure di esserne felici. Siamo tutti felici che in Italia il turismo sia in salute e che contribuisca al Pil creando ricchezza. Il problema è che, contemporaneamente, uno dei nostri tradizionali polmoni economici, la manifattura, zoppica non poco, e in innovazione e ricerca certamente non siamo tra i primi in Europa. E il discorso potrebbe continuare identico per altri importanti indicatori. La ricchezza prodotta dal turismo, poi, in non pochi casi, è la grassa rendita di pochi e un guadagno modesto per molti, dal momento che il tipo di lavoro del settore turistico è per lo più quello poco specializzato. Si accorgono di questa situazione i laureati in materie tecnico-scientifiche, che riescono a trovare una occupazione confacente alle proprie aspettative perlopiù nei territori industrializzati del Nord Italia o all’estero. Come ha ricordato Federico Fubini sul Corriere della sera qualche settimana fa, nel 1992 il reddito per abitante degli Stati Uniti era di appena il 9% sopra quello dell’Italia, mentre l’anno scorso era superiore al 113%. Come molti italiani sperimentano, non pochi luoghi del turismo del nostro territorio noi non possiamo più permetterceli: ci vanno quasi esclusivamente stranieri, un po’ come negli hotel di Sharm el-Sheikh, dove molti miei conterranei napoletani vanno a maramaldeggiare sui residenti, perché pure la Croazia inizia a essere troppo cara, figurati una settimana a Sorrento o Amalfi in alta stagione. «Per alcuni aspetti – scrive ancora Fubini  ̶  siamo ormai da qualche parte a metà strada fra un Paese sviluppato e un Paese che non lo è così tanto».

Questa trasfigurazione negativa del nostro Paese non ci pare sia avvertita in giro con la necessaria attenzione, anzi. In fondo  ̶  pensa qualcuno  ̶  se perdiamo 100 dalla manifattura ma lo guadagniamo dal turismo non è lo stesso? E magari siamo pure più green, più sostenibili. Per i motivi sopra indicati, le cose non funzionano così, eppure il racconto collettivo  ̶  in cui politica, comunicatori di diverse tipologie e uomini della strada si rafforzano a vicenda  ̶  sembra puntare inesorabilmente nella stessa direzione: buon cibo, spiagge, vino, olio d’oliva, pomodorini a km 0, impastati insieme dalla mitologia dell’autenticità, del naturale-innocuo, dei caseifici che sostituiscono la Fiat. Non si possono contare le storie Instagram in cui c’è uno che gira un piatto di spaghetti e sotto Dean Martin che canta That’s Amore, mescolando l’inglese a “vita bella”, “tarantella”, “pizza” e “pasta e fasule”. Per decenni gli italiani hanno detto che non volevano essere rappresentati attraverso i soliti stereotipi della pizza e del mandolino e oggi, quasi quasi, quello sguardo su di noi sempre avversato diventa il modo in cui vogliamo che gli altri ci guardino: come cambiano i tempi.

In quest’orizzonte, non è un caso che il massimo dello shock culturale che possiamo permetterci di questi tempi, provenga da Alberto Grandi, professore associato di Storia del cibo a Parma, che ha scritto un libro assieme a Daniele Soffiati, dal titolo La cucina italiana non esiste. Bugie e fasi miti sui prodotti e i piatti cosiddetti tipici (e altri prima sul medesimo argomento). Grandi circola da qualche tempo in tv e in rete, dove intervistatori attoniti lo ascoltano mentre smonta molti miti della nostra cucina, come quello del guanciale nella carbonara, che all’inizio in realtà era fatta con la pancetta, o quello del tiramisù, che sarebbe nato non prima degli anni 80’, e così via. Tale demitizzazione non fa altro che svelare una dinamica che interessa lo sviluppo praticamente di tutto quello che c’è nell’universo: l’identità di ogni cosa, dal pianeta Saturno, alle tigri, alla carbonara, non è che una stabilizzazione momentanea di un processo in continuo mutamento, entro il quale solo per l’effetto ottico generato dallo sfasamento temporale tra il nostro sguardo e il processo stesso, ci appaiono come “fisse” determinate realtà, quali ad esempio le specie animali o le ricette della cucina abruzzese.

La fissazione per l’italianità (nella mia Napoli per la napoletanità) è talmente forte (e conveniente per alcuni), che addirittura siamo disposti a raccontare di mondi che non esistono più o non sono mai esistiti. L’altro giorno, facendo scrolling sul mio Instagram, ho beccato un video di un cuoco italiano molto popolare in Inghilterra, Gino D’Acampo, seduto tra i partecipanti di un talk show estero. Quando il conduttore gli ha chiesto perché in Italia ad agosto andiamo tutti in vacanza per l’intero mese, lo chef non gli ha risposto che questo poteva avvicinarsi al vero forse trent’anni fa, è che, anche se dai social non sembra, pochi possono andare in ferie per un mese, pure perché pochi ormai se lo possono permettere (secondo gli ultimi dati di Openpolis, quasi una famiglia su tre con figli piccoli non può permettersi un weekend fuori d’estate). No, nulla di tutto ciò. Visto che chef Gino è italiano ma è pure napoletano, quindi ha l’iperbole nel DNA, non solo ha confermato il pregiudizio del presentatore, ma con soddisfazione ha aggiunto che a Ferragosto in Italia è tutto chiuso, anche gli ospedali, e che se ti viene un malanno è meglio pregare. Naturalmente gli ospedali italiani il 15 agosto sono aperti e tendenzialmente pure centri commerciali, supermercati, ristoranti, pizzerie e paninoteche. Ma per difendere l’autenticità va bene anche essere inautentici. Ecco, allora, per tornare all’inizio del nostro discorso, quel che lega la fresella del vicepremier e quella dell’anonima ragazza: questo visione del mondo che ormai circola nel sistema cardiocircolatorio del Paese, nel suo immaginario, nel suo dizionario, nella sua estetica. Somigliamo al personaggio eduardiano Luca Cupiello: lui si dedica alla preparazione del Natale tradizionale e genuino, mentre attorno a sé il mondo cambia, e quando se ne accorge non ha la forza di arrestare la catastrofe. Basta sostituire il presepe con una parmigiana di melanzane, per quanto ci riguarda.

Se questa è la direzione, non è strano che mio nonno abbia visto nascere la Ferrari e io l’Antico Vinaio, che lui sognasse l’America e che gli adulti di oggi rimpiangano le autostrade italiane degli anni ’70 piene di famiglie che andavano a fare la “villeggiatura”, in tempi in cui “avevamo di meno ma tutto era più semplice e autentico” (copio-incollo da un post di Facebook con migliaia di like e commenti commossi). La fissazione sull’autenticità è forse sintomo di una identità che proprio non ne vuole sapere di sopportare la fatica che comporta ritrovare un nuovo equilibrio allostatico nel mondo contemporaneo, dopo un ciclo storico iniziato nel secondo dopoguerra e conclusosi con gli anni ’90. Si preferisce insistere anziché esistere, cioè saltellare sul posto invece di perdere l’equilibrio e spostarsi in avanti. Per Freud la fissazione è una sorta di inerzia psichica che si oppone al cambiamento a causa di una frustrazione o di una eccessiva gratificazione. Strettamente connessa alla fissazione, c’è la regressione, un ritorno a fasi di sviluppo precedenti, dove abbiamo sperimentato maggiore felicità. Volendo farci ispirare da tali discorsi, potremmo dire, non senza una generalizzazione un po’ forzata ma forse suggestiva, che siamo dentro una collettiva regressione alla fase orale.

Qui non si tratta  ̶  è bene chiarirlo  ̶  di contrapporre la “mentalità chiusa” alla “mentalità aperta”, l’identitarismo associato ai conservatori, al diversitarismo associato ai progressisti. Bisogna sforzarsi di pensare un po’ oltre queste gabbie mentali. La fissazione e la regressione ci pare interessino una fetta importante della società italiana, che può riconoscersi nella destra come nella sinistra. Se la fissazione autenticista sta trovando in questi anni superbi appoggi a destra, pure negli ambienti della sinistra alberga una certa mentalità regressista da “decrescita felice” (che è altra cosa dalla ricerca di una vita più sostenibile), che dovrebbe tutti riportarci a una vita ovviamente più antica e autentica, quella che c’era prima che l’uomo, mettendosi ad armeggiare troppo con le risorse della natura, rompesse una fantomatica armonia iniziale. Anche le voci più radicali delle cosiddette teorie intersezionali, che appaiono ultra-progressiste, in realtà condividono il frame che stiamo tentando di esporre. Queste ultime, infatti, pensano la società costituita come una piattaforma sopraggiunta che avrebbe imposto ai corpi, in modo più o meno subdolo, categorie funzionali al potere, la cui rimozione favorirebbe finalmente l’adesione perfetta tra identità profonda dell’individuo e narrazione di sé, in altre parole, l’autenticità, originariamente (si potrebbe dire “naturalmente”) già disponibile ma purtroppo inquinata dai dispositivi di disciplinamento intriseci al discorso sociale.

L’autenticità come mito-fulcro di una filosofia regressiva non è certo una invenzione dei nostri giorni. La coppia autentico-inautentico, ad esempio, è essenziale nel pensiero di Martin Heidegger. Questi sognava che la Germania dei primi decenni del ‘900 potesse far rivivere una nuova Grecia preclassica. Era un sogno che Heidegger condivideva con molti tedeschi colti del proprio tempo ma anche del secolo precedente (si pensi a Friedrich Hölderlin): il ritorno a una società preindustriale e premoderna, prima che lo sviluppo vertiginoso dell’apparato tecno-scientifico rendesse così difficile sintonizzarsi col senso dell’essere. Probabilmente, almeno secondo l’interpretazione di Gianni Vattimo, Heidegger vide nel nazismo quella forza capace di permettere la realizzazione storica di questo progetto. Da qui la sciagurata adesione del filosofo al partito di Hitler. Il mito del ritorno alle origini può far prendere degli abbagli anche alle menti più brillanti. Figuriamoci cosa può fare in tempi in cui c’è chi inzuppa la fresella nel mare pensando sia una buona idea.

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