Dino Cofrancesco (Arce, 1942) è Professore emerito di Storia delle Dottrine Politiche dell’Università di Genova. Ha diretto il Centro per la Filosofia Italiana e il Centro internazionale di Studi Italiani dell’Università di Genova. È nel Comitato Scientifico o Direttivo delle riviste ‘Nuova Storia Contemporanea’, ‘Il Pensiero Politico’, ‘Libro Aperto’, ’Quaderni di scienza politica’, ’Civitas et Humanitas’. Ha collaborato al ‘Corriere della Sera’, al ’Foglio’, a ’Libero’, al ‘Riformista’, al ‘Dubbio’. Ha scritto saggi sul liberalismo, sullo stato nazionale, sulla destra radicale.
A volte, ho rilevato in un articolo del 13 febbraio u.s., nel nostro paese, si ha l’impressione che quando mancano pretesti (seri) per contendere e infierire sugli avversari – ad es. progetti politici, riforme, provvedimenti divisivi – ci siano sempre le risorse costituite dalla guerra dei simboli. “Fascista!”, “Comunista!”, “Sovranista!”, “Populista!”. Il nostro “passato che non passa” sta sempre lì a dividerci, a trasformare le autentiche tragedie della guerra civile in solennità da celebrare.
Così alla Giornata dell’Olocausto fa riscontro la Memoria delle foibe: due atti doverosi, peraltro, in quanto la Shoah è un evento unico nella storia della civiltà occidentale e il genocidio delle foibe rappresenta una delle pagine più nere della seconda guerra mondiale – ma tirati, per così dire, l’uno a sinistra – a ribadire che la destra nazifascista rivelò il suo autentico volto criminale nei campi di sterminio – e l’altro a destra – a condannare i comunisti titini che si resero complici di un genocidio indistinguibile da quello armeno o da quello congolese. In questi due casi, tuttavia, la “guerra dei simboli” si riferisce a crimini così grandi che è difficile che non vengano sinceramente riconosciuti da tutti gli attori politici e sociali: un nostalgico del ventennio può dire che gli ebrei erano stati messi al bando perché complici di una congiura mondiale ai danni dell’Europa cristiana (i famigerati “Protocolli degli Anziani di Sion”); un orfano dell’URSS può dire che Dalmati e Istriani furono infoibati non in quanto italiani ma in quanto fascisti. Nessuno dei due gruppi, però, contesta l’“onor di pianti” che si deve alle vittime o si oppone a quanti intendono ricordarle nei monumenti, nelle intitolazioni di piazze e di vie. Insomma né la Shoah né le foibe dividono gli italiani in due gruppi “l’un contro l’altro armati”.
Diverso, molto diverso, e dispiace che il suo significato simbolico non sia stato colto (e chi l’ha fatto s’è sentito dare del fascista) è il caso dei certificati di antifascismo proposti da alcuni comuni della Toscana e dell’Emilia. Mi riferisco, innanzitutto, all’iniziativa del Comune di Sant’Anna di Stazzema – teatro di un eccidio raccapricciante raccontato da vari documentari e rievocato nel film di Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna (2008) – di istituire (2018) un’anagrafe antifascista e di proporre una legge per aggravare le pene per i reati già previsti dalle leggi Mancino e Fiano. Tale iniziativa, a mio avviso, si presta a un’assai malinconica riflessione sulla maturità della nostra cultura civica e sull’inutilità della grande stagione storiografica revisionistica che trovò in Renzo De Felice la sua espressione accademica più documentata e rigorosa. Non ci si è chiesti quale senso e significato possa avere un elenco degli antifascisti residenti in un comune, ma se ne è dato per scontato l’alto, indiscutibile, valore civico. Un bravo giornalista, difensore appassionato del sindaco di Stazzema, non ha esitato a elogiarlo, dicendo «la cosiddetta “anagrafe antifascista” (nome che effettivamente trae in inganno) è in realtà un elenco di adesioni aperto a tutti gli italiani che ribadiscono il valore dei diritti inalienabili previsti nella prima parte della nostra costituzione». «Aderendo al Comune Virtuale Antifascista – si legge nella Carta di Stazzema – affermiamo che esistono diritti inalienabili che ogni essere umano possiede, senza distinzione per ragioni di pensiero, razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica, origine nazionale o sociale». Seguono una serie di salmi democratici – il rispetto dei diritti, la tutela delle minoranze, il valore del dialogo etc. – che finiscono nella gloria dell’affermazione finale: «Affermiamo che il Futuro non è il Fascismo. La civiltà, il progresso, il futuro, appartengono alla dimensione democratica». Che tutto questo possa sembrare normale ed anzi meritorio è qualcosa che non si riesce a comprendere, almeno per chi si riconosce nei valori della società aperta. Agli iscritti all’anagrafe antifascista verrà rilasciato un attestato della loro virtù repubblicana, del loro culto dei valori della Resistenza – un attestato che, all’occorrenza, potrebbe venir richiesto per svolgere determinate funzioni pubbliche o esibito come titolo concorsuale, assieme ai parenti a carico, al riconoscimento di invalidità, al servizio di leva e ora all’avvenuta vaccinazione anti-Covid?
La prima democrazia che avrebbe potuto istituire un registro dei cittadini virtuosi fu quella giacobina – che, per fortuna, i termidoriani provvidero ad abbattere nel 1794 – durante il Terrore, però, la virtù venne posta all’o.d.g. ma nessuno pensò all’album dei buoni repubblicani. Prendere seriamente un registro del genere e, per giunta, renderlo ‘pubblico’ (dando agli uffici comunali l’incarico di predisporre i moduli) fa davvero accapponare la pelle: ricorda l’iscrizione al fascio che, paradossalmente, cessò di essere fonte di discriminazione sociale solo quando venne resa obbligatoria per tutti. Potremmo allora anche noi iscriverci tutti all’anagrafe antifascista per fare contenti il sindaco di Stazzema e l’Anpi? E a chi non si iscrive dovremmo ritirare, se non altro, la stima sociale?
In realtà, non è esagerato dire che su questa operazione gravano le ombre della distopia del romanzo 1984 di George Orwell. Ogni iscrizione a un partito, a un sindacato, a un’associazione culturale, a un consorzio economico, divide la popolazione in due categorie: quelli che hanno determinati interessi e valori e quelli che ne coltivano altri e diversi. E tuttavia in un paese occidentale chi non sta con noi, non sta contro di noi: può essere un concorrente non un nemico. Se sono socialista, non per questo mi rifiuto di riconoscere la legittimità dell’essere liberale.
Nel caso dell’anagrafe, invece, non abbiamo valori di pari dignità in competizione ma da una parte un Valore – democrazia, Costituzione, libertà e diritti eguali – e dall’altra un Disvalore – fascismo, dittatura, violenza. Non si confrontano diverse interpretazioni del bene comune – come in ogni democrazia a norma – ma i dannati e gli eroi —per citare il titolo italiano del grande film di John Ford del 1960 Sergeant Rutledge. Da una parte, in questa grande chiamata a raccolta repubblicana e resistenziale, troviamo il popolo della Libertà, gli eredi dell’universalismo cristiano e illuministico, dall’altra, il ‘mal seme’ d’Adamo, i complici delle peggiori nefandezze del XX secolo (quelle compiute dai regimi totalitari di destra, beninteso).
«L’antifascismo – si legge nella lettera inviata dal sindaco di Stazzema, Maurizio Verona a Marco Bucci in cui si lamenta il fatto che il Consiglio comunale genovese abbia incluso nell’anagrafe virtuale antifascista anche l’anticomunismo e l’antidemocrazia – è un valore positivo: è antifascista chi è per i diritti, per le libertà, per la Costituzione. L’antifascismo deve essere un valore comune, il pilastro su cui si regge la nostra democrazia». Pura retorica, illustre primo cittadino di Stazzema: la filosofia politica iscritta nella vulgata antifascista non è quella dei grandi liberali, teorici della ‘società aperta’. Per loro, da Benedetto Croce a Raymond Aron, l’antifascismo non è un sostantivo ma un attributo della democrazia liberale, come lo sono l’anticomunismo, l’antipopulismo, l’anticlericalismo. Non è la democrazia liberale che deve sottoporsi al test dell’antifascismo, ma è l’antifascismo versione Anpi a dover dimostrare di avere, in tutte le sue componenti, le carte in regola con la democrazia. E, sinceramente, dubito che riesca a superare la prova, tenuto conto che anche i comunisti più irriducibili, quelli col mito di Stalin, sono, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, antifascisti.
La falce e martello, è vero, durante la Resistenza, sventolò sulle bandiere che aprirono le strade agli Alleati Liberatori, ma simboli di movimenti di estrema destra si videro anche nel 1956, durante l’insurrezione di Budapest contro i sovietici. Se quest’ultima fosse riuscita, non sarebbe mancata la gratitudine per i ‘fascisti ungheresi’ che, insieme ai democratici e agli stessi comunisti dissidenti (e ce ne furono non pochi, a cominciare dallo stesso Imre Nagy), avevano sacrificato la vita per l’Ungheria. Più fortunati degli ungheresi schiacciati dai carri armati sovietici, in Italia per la fine del fascismo dobbiamo essere riconoscenti anche ai comunisti – che pure, se fossero prevalsi gli intransigenti sulla prudenza di Palmiro Togliatti, non ci avrebbero risparmiato quarant’anni di ‘democrazia popolare’ qualora il Fronte popolare avesse vinto le elezioni del 1948.
Detto questo, però, dobbiamo farla finita con un preconcetto ideologico che, dal 1945, avvelena la convivenza civile nel nostro paese. Molti di noi hanno conosciuto – anche in famiglia – neofascisti e comunisti fior di galantuomini, professionisti seri e affidabili, amici sinceri, ottimi padri di famiglia. Sono da collocare tutti nella massa damnationis in cui vorrebbero confinarli i pasdaran dell’antifascismo e dell’anticomunismo?
Già tanti anni fa ritenevo ingiusto vedere nell’elettore del Msi un complice del Lager e in quello del Pci un complice del Gulag e dello stalinismo: i nostalgici di Mussolini, di Hitler di Stalin, di Mao non ne rimpiangono certo eccidi e genocidi (semmai li ‘storicizzano’ in modo per noi inaccettabile: per convincerci che in quei contesti non si poteva fare diversamente…), non sono tutte persone affette da disturbi mentali – come i tatuati con le teste rapate che ostentano svastiche e sventolano bandiere di cui ignorano la storia. I regimi oggetto del loro amore platonico si identificano, per loro, con le opere civili, le istituzioni sanitarie, le provvidenze sociali, le case popolari, le bonifiche, le autostrade, le colonie estive, il (presunto) senso comunitario ridestato da quei dittatori. Realizzazioni che non vengono ricordate nei ‘giorni della memoria’ ma che si trovano nelle ricerche degli storici che, a destra e a sinistra, fanno il mestiere dello scienziato non quello dell’ideologo (un mestiere scelto, invece, da Angelo D’Orsi, per il quale «l’equiparare nazismo e comunismo» è una grave distorsione dei fatti storici – vedi l’articolo sul “Secolo XIX” del 12 febbraio u.s. – come se non ci fosse un’imponente saggistica sul totalitarismo intesa a illustrare proprio le ragioni di quell’equiparazione).
Risulta intollerabile in un paese democratico, l’esaltazione dei crimini, da qualsiasi parte essa provenga. Un manifesto neonazista che esalti Treblinka o uno comunista che neghi le foibe – o addirittura le attribuisca ai fascisti – non si possono passare sotto silenzio. È qui che la repressione dev’essere dura, durissima, ma deve prescindere dalle “visioni del mondo” che ispirarono macelli e barbarie giacché i valori politici – siano la patria o la giustizia sociale –, a ben riflettere, sono tutti buoni ed è solo la loro assolutizzazione a convertirli in ideologie infernali. Un cristiano che facesse l’apologia dei roghi dell’Inquisizione starebbe sullo stesso piano dei “fanatici dell’apocalisse” fascista e comunista, ma non per questo i Vangeli diverrebbero opera del demonio.
Versione integrale di articolo apparso in forma ridotta su “HuffPost”, 27 giugno 2021.