Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.
Recensione a
L. Falsini, La storia contesa. L’uso politico del passato nell’Italia contemporanea
Donzelli, Roma 2020, pp. 218, €19,50.
È ormai un dato consolidato la crisi che la storia sta attraversando in Italia una crisi che non riguarda soltanto la riduzione dei corsi universitari o gli sbocchi professionali dei laureati, ma il ruolo stesso che gli storici, con le loro competenze e le loro argomentazioni, possono ancora avere nel mercato editoriale e, più in generale, nel mondo delle comunicazioni. La storia appare ormai delegittimata e, soprattutto, gli storici appaiono desolatamente incapaci di reagire davanti agli usi distorti o squalificati della loro disciplina. Gli storici subiscono una concorrenza spietata da parte di tutti gli altri “agenti della storia”, nei tanti non-specialisti che riescono comunque a imporsi (nella stampa, nel web, in televisione) come divulgatori. In altre parole, «la comunicazione scientifica fatica a farsi senso comune e […] la forza comunicativa dei nuovi agenti ha una capacità di persuasione che le è superiore. E allora serve che lo storico lavori sul linguaggio, sullo stile e sulla struttura dei testi e impari l’uso di fonti meno consolidate» (p. 205, corsivi nel testo).
Ciò che conta oggi, anche in questo campo, è soprattutto saper attrarre audience, riducendo spesso e volentieri il discorso storico a una collezione di ipotetici scoop, rifugiandosi nel sensazionalismo e mettendo sempre in primo piano il lato emotivo di ogni vicenda. Questa sottocultura storica ha ormai una tradizione e – non vogliamo assolutamente negarlo – ha avuto anche alcuni meriti, primo dei quali l’aver attirato verso il passato tanti lettori e tanti telespettatori. La Public History, senza dubbio attualmente di moda, è sia un esisto di questa lunga trasformazione, sia il tentativo – non sappiamo ancora quanto efficace – di arginare il dilettantismo e la superficialità dilaganti.
È questa la tesi di fondo del libro di Luca Falsini, appena edito da Donzelli. L’autore muove da questo assunto per concentrare la propria attenzione sugli usi (e sugli abusi) politici della storia negli ultimi decenni repubblicani. La storia, da questo punto di vista, appare perfettamente manipolabile: del passato è possibile selezionare solo ciò che serve a sostenere la polemica politica; di più, è sicuramente vero che viviamo in un’epoca in cui ciò che conta sono sempre e soltanto le vittime: tutti hanno una categoria di vittime, di martiri di cui rivendicare la memoria, di solito contro i vuoti che la “memoria ufficiale” (cioè la storia che sarebbe imposta dai governanti di turno) creerebbe. Ancora, l’assoluto presentismo dominante oggi, con la rivendicazione dell’oblio come unica via possibile per arrivare a una pacificazione che superi le contrapposizioni ideologiche del passato, è stato un altro elemento fondamentale nel processo che ha portato a un generale rifiuto della storia. I partiti, quelli vecchi tanto quanto quelli nuovi (pur con un stile assolutamente diverso), hanno sempre cercato di piegare la storia, con le sue tragedie e le sue contraddizioni, ai propri interessi, ma anche con l’intenzione, talvolta maldestra, di costruirsi una identità forte e riconoscibile. Oggi che le ideologie sono oggetti buoni per un museo (e per un museo con pochissimi visitatori), le proposte politiche si differenziano spesso in modo platealmente artificioso: ecco che allora qualche evento storico (come il brigantismo meridionale nell’Ottocento, le violenze coloniali italiane, le foibe ecc.) può essere utilizzato per riaffermare una differenza, denunciando un torto, a lungo rimosso, a cui sarebbe giusto porre rimedio.
Sarebbe inutile ritornare qui ai diversi usi politici del fascismo e dell’antifascismo o del comunismo e dell’anticomunismo. Diremo soltanto che la nostra epoca, ancora segnata da una centralità assoluta assegnata alle memorie e ai testimoni, sta producendo una completa polverizzazione del passato, ridotto in frammenti di cui è sempre più difficile capire il senso e di cui sfugge comunque il contesto. Ogni evento scompare in una nebbia indistinta, in una universale “zona grigia” da cui non emergono più attori responsabili, colpevoli. Così, ad esempio, le vittime dei diversi terrorismi sono tutte mescolate assieme in una «logica onnicomprensiva» (p. 70). Allo stesso tempo, fenomeni essenziali come il Risorgimento o la lotta di Liberazione, posto che vengano ancora ricordati, sono degradati a stereotipi di cui è impossibile cogliere la fisionomia.
Non si può ridurre un fenomeno ampio come questo a una semplice vittoria del “revisionismo”; anzi, è stata la grande democratizzazione del passato (per cui non possono più esistere versioni ufficiali, né tabù non affrontabili) a generare una illimitata confusione e, di più, la sostanziale obsolescenza del discorso storico. Ce ne possiamo accorgere facilmente rileggendo in questo volume i tanti interventi tenuti da parlamentari italiani negli ultimi anni, interventi svolti alla Camera o al Senato per denunciare gravi lacune nella “memoria ufficiale” o la presunta inadeguatezza nell’insegnamento della storia della scuola pubblica (ad esempio, in libri di testo faziosi). Ne esce un panorama desolante, in cui la semplificazione e la sciatteria si mostrano in costante crescita. Per parte sua, anche la scuola deve fare i conti con classi di studenti sempre meno “avvicinabili” con gli strumenti classici a disposizione degli insegnanti. Sarebbe comunque illusorio (oltre che pericoloso) sperare di riuscire ad imporre una storia oggettiva, distaccata da interessi e opinioni. Le idee politiche, ovviamente, avranno sempre un ruolo nel lavoro degli storici. Occorre, sì, evitare ideologismi e faziosità, ma è ancora più urgente evitare che la storia semplicemente scompaia, per ridursi ad arnese, e pure marginale, per la propaganda elettorale.