Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Giusto un secolo fa Enrico Morselli, uno dei massimi psichiatri italiani della prima metà del Novecento pubblicava un volume, L’uccisione pietosa, dedicato all’eutanasia considerata non soltanto da un punto di vista medico e morale, ma anche eugenetico. Morselli, fra le altre cose, fu infatti uno dei primi e più seguiti esponenti dell’eugenetica italiana, sostenendo sempre una decisa contrapposizione fra le proprie posizioni e quelle propugnate dagli eugenisti “nordici”, anglosassoni, troppo radicali nelle soluzioni proposte per risolvere il problema delle malattie e delle degenerazioni sempre più diffuse nelle società moderna.

In questo senso, il testo di Morselli è davvero paradigmatico e rappresenta un momento essenziale nella storia del movimento eugenetico italiano. In particolare, esso si contrappone apertamente a un altro testo, di poco precedente, e rimasto celebre perché ha in un qualche modo anticipato i programmi eutanasici portati avanti dal regime nazista: ci riferiamo a Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (La liberalizzazione della soppressione della vita senza valore), scritto dallo psichiatra Alfred Hoche e dal giurista Karl Binding 1920. Pur ponendosi senza esitazione sulla scia del pensiero darwiniano e della medicina evoluzionista, Morselli ha rivendicato da diversi punti di vista l’inattualità e la disumanità di interventi eugenetici selettivi “positivi” (come la sterilizzazione o l’eutanasia).

Tornare al testo di Morselli – di cui sarebbe assolutamente auspicabile una ripubblicazione – è anzitutto importante per recuperare la storia del dibattito sull’eugenetica che, da più di un secolo, è vivo anche in Italia, ma anche perché ci permette di non appiattire quel dibattito alla sola, terribile esperienza degli anni dello sterminio nazista. In terzo luogo, il volume di Morselli propone riflessioni indubbiamente ancora molto attuali sul valore sociale da attribuire alla malattia e sulla distinzione fra guaribilità (non sempre garantibile) e curabilità (sempre da garantire).

Nella storia dell’eugenetica (o eugenica) e, più in generale, in quella della bioetica, la questione dell’eutanasia, della “buona morte” concessa o imposta a persone malate o variamente “anormali”, ha sempre rappresentato un punto critico: per i suoi sostenitori, si tratta di un obiettivo non soltanto lecito, ma meritorio e “umanitario”; per i suoi detrattori, si tratta invece dell’oggetto di un vero e proprio scandalo, l’esito di progetti omicidiari, totalitari. A dire il vero, è più che mai ingombrante l’eredità che il Novecento, con la sua storia di stermini e programmi “scientifici” di ingegneria sociale e di selezione umana, ha lasciato anche nel dibattito attuale sull’eugenetica. Non a caso, si è parlato di una “reductio ad Hitlerum” dello stesso concetto di eugenetica. L’eugenetica è – nonostante le sue origini ottocentesche con Darwin e Galton – una scienza sicuramente novecentesca e nel secolo breve, specie nei primi decenni di esso, si è diffusa e si è imposta per la sua grande attualità e per la sua (presunta) applicabilità. Per ciò che riguarda, in particolare, il caso italiano, studi importanti (come quelli di Francesco Cassata, Claudia Mantovani e Claudio Pogliano) hanno ormai ben delineato le peculiarità del movimento eugenetico nel nostro Paese, movimento che si concretizzò negli anni immediatamente precedenti alla Prima Guerra Mondiale.

In Italia, la corrente più “radicale” dell’eugenetica – quella che sosteneva l’opportunità di misure estreme quali la sterilizzazione o la soppressione di malati considerati inguaribili, di “tarati”, di “idioti” improduttivi – è sempre stata assolutamente minoritaria. A differenza che in altri contesi (quello anglosassone, quello scandinavo, quello statunitense), prevalsero da subito posizioni ben più moderate, votate a misura più preventive che “repressive”. D’altra parte, anche gli eugenisti italiani, medici, biologi, psichiatri o antropologi che fossero, si collocavano chiaramente nel solco dell’evoluzionismo e del positivismo, anche se, appunto, rifuggendo dagli “estremismi” nordici. Il trauma della prima guerra mondiale, con tutto il suo bagaglio di nocività e conseguenze “degenerogene” per la salute – fisica e mentale – della popolazione, ha rappresentato sicuramente un nuovo stimolo alla diffusione nel mondo medico e scientifico della questione eugenetica, la quale venne vista anzi come una vera e propria “emergenza”. Davanti a masse di mutilati, “infiacchiti”, nevrotici, anormali, che fare? Come preservare il patrimonio biologico della nazione?

È in questo contesto che Enrico Morselli (1852-1929), decano della scienza psichiatrica italiana ed esponente dalla prima ora del movimento eugenetico – essendo appunto fra i partecipanti della delegazione italiana al già citato congresso di Londra del 1912 – si occupò del tema dell’eutanasia e, più in generale, delle misure più radicali. Nel 1923, Morselli pubblicò, per Fratelli Bocca Editore di Torino, L’uccisione pietosa: l’eutanasia in rapporto alla Medicina, alla Morale ed all’Eugenica, che può essere considerato come un testo veramente esemplare di quanto fino ad allora il movimento eugenetico avesse prodotto. Morselli qui si occupa di eugenetica da psichiatra: egli, infatti, sostiene che la scienza psichiatrica fosse indispensabile per tentare di spiegare il problema centrale dell’eugenetica: quello della (presunta) ereditarietà dei caratteri fisici e psichici da una generazione all’altra. Morselli, inoltre, scrive da evoluzionista e positivista convinto, ma non vuole rassegnarsi a un ruolo puramente “chirurgico”, selettivo, della medicina, sostenendo, invece, che tanti soggetti che popolavano ad esempio i manicomi, squalificati come “inferiori” e “degenerati”, potessero in realtà progredire e vivere dignitosamente ed essere anche in qualche modo “produttivi”.

Dunque, Morselli si pone decisamente nel campo moderato, come detto dominante in Italia, e contro gli «eutanatisti teorici e coerenti» (Morselli, 1923, p. 22). Ponendosi contro ogni «misura spartana» (p. 24), Morselli mostra come proprio la scientificità dell’eugenetica richiedesse invece di assecondare l’evoluzione umana, con i suoi tempi lenti e che si tenesse comunque conto delle conquiste evolutive dell’umanità anche in campo etico. Morselli costruisce dunque la sua discussione attorno al problema dei limiti legittimi della eugenetica, criticando però – come è stato sottolineato giustamente fra gli altri da Paolo Francesco Peloso – la misure “radicali e dirette” dell’eugenetica soltanto da un punto di vista filosofico e morale, mai scientifico ed epistemologico.

Come alfiere dell’eugenetica “latina”, Morselli sceglie la prevenzione (in senso lato), dall’igiene alla diffusione dell’educazione sessuale, contro le forme eugenetiche violente e, in primis, l’eutanasia. E fa ciò sollevando tutta una serie di obiezioni etiche, giuridiche, deontologiche, per cui l’eutanasia (intesa come eliminazione dei “peggiori”), di per sé lecita, sarebbe alla fine inattuabile. Ad esempio, discutendo dell’ipotetico consenso del malato cosciente alla propria uccisione pietosa, Morselli scrive:

Un incurabile, un sofferente non potrebbe essere soppresso eutanatisticamente senza il suo consenso, per poco che possegga ancora barlume di consapevolezza; ma né la famiglia, né la Società possono essere assicurate sul valore intrinseco della domanda, e troveranno sempre medici restii ad effettuarne la soppressione. Per gli incoscienti, alla loro volontà supplirebbe quella dei parenti e dello Stato; ma già basta enunciare questa facoltà per vederne la terribile responsabilità e i possibili abusi. Né vale il confronto colla pena di morte inflitta ancora da molti Codici di popoli civilissimi ai criminali più feroci. Anzitutto, è discutibile se la Società civile debba continuare a godere di questo diritto sulla vita individuale; i popoli più avanzati e liberali […] hanno abolito il patibolo, e tutti i criminologi più modernisti lo hanno in obbrobrio: col tempo non vi sarà più pena di morte in nessun Paese veramente civile. D’altra parte, esiste sempre il terribile dubbio di un errore diagnostico e prognostico. Una Umanità veramente superiore penserà a prevenire il delitto e la malattia, non a reprimere nel sangue né a curare il dolore colla morte (Morselli, 1923, p. 74).

Per ciò che riguarda da vicino il mondo dei manicomi, Morselli considera poi del tutto impossibile anche soltanto ipotizzare una eliminazione dei “dementi” che li popolavano. Mancavano, da una parte, criteri certi per giudicare, da medici, della inguaribilità di una situazione clinica, essendo il giudizio psichiatrico caratterizzato da una ineliminabile incertezza prognostica. Dall’altra parte, Morselli considera come “egoista e disumano” il criterio della utilità (o della produttività) per decidere della sopravvivenza di una persona. Al contrario, la stessa solidarietà umana, e specialmente quella verso le persone malate o anziane, è un segno evidente dell’evoluzione umana.

Al miglioramento della specie, alla rigenerazione delle razze colpite dai mali che pajono inseparabili dai progressi della Civiltà fin qui basata sul principio della libertà individuale, si deve tendere gradualmente, evolutivamente col diminuire per l’appunto questa libertà, soprattutto in relazione alle unioni sessuali di riproduzione, e in seconda linea col vietare all’individuo il falso diritto di sperperare il proprio patrimonio di energie fisiche e mentali, ad esempio avvelenandosi con alcool, senza dire della lotta da intraprendere sempre più energica contro i grandi fattori della degenerazione indipendenti dalla volontà dei singoli, ma di natura esogena, quali sifilide, tubercolosi, malaria, pellagra, febbri infettive, morbi epidemici e malattie regionali, massime tropicali (Morselli, 1923, p. 84).

È in queste poche righe la sintesi del programma di Morselli per una eugenetica “umana”. Per ciò che riguarda invece i malati, specie se terminali, invece da dare loro la morte, andava garantita ogni cura, anche “palliativa”, compresa la psicoterapia.

Ciò detto, gli obiettivi polemici di Morselli non si rivolgono in questo caso tanto all’eugenetica anglosassone, ma a quella francese – con Charles Richet, il fisiologo premio Nobel autore nel 1919 de La sélection humaine (1911) – e, soprattutto, a quella tedesca, con Alfred Hoche e Karl Binding. I due, infatti, – il primo era uno psichiatra, il secondo un giurista – avevano pubblicato pochi anni prima un libretto, Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens [La liberalizzazione della soppressione della vita senza valore]. Anche andando al di là del pregiudizio antitedesco (ancora molto forte fra i medici e gli intellettuali italiani in generale nel primo dopoguerra), Morselli vede nella teoria dei due autori la summa di quelle teorie “nordiche” così disumane. Alla luce dei principi della “igiene razziale”, che avrebbe dominato pochi anni dopo nella Germania nazista, Hoche e Binding proponevano una ulteriore liberalizzazione della “dolce morte” (cioè del suicidio) per tutte le persone considerate “incurabili”. In realtà, concentrandosi esclusivamente sul valore sociale ed economico della malattia, la volontà stessa del malato avrebbe dovuto per i due essere comunque sovrastata dalla volontà della società intera, dagli interessi di quest’ultima. In questa prospettiva, il valore della vita degli idioti negli asili non era soltanto nullo, ma addirittura negativo. Per chi sopravviva alla propria “morte mentale”, non aveva senso avere compassione. Sarebbe stato necessario istituire delle commissioni di medici destinate a decidere della soppressione di inabili e malati incurabili su richiesta di loro stessi, di familiari, tutori o di istituzioni.

A questa “barbarie tedesca”, Morselli dice di no. L’eutanasia di Stato, così come proposta da Hoche e Binding, non sarebbe altro che un “omicidio medico”. La soppressione artificiale, metodica e a puro scopo utilitaristico di innocenti, spesso vittime dei malanni della società, era comunque inaccettabile. Ma anche nel caso in cui vi fosse stata una richiesta del soggetto interessato, essendo comunque irrisolvibile il dubbio sul consenso, sia pure ipotetico, sarebbe stato impossibile arrivare a prendere una decisione certa:

Disporre della propria persona a scopo salutare è lecito, è giuridicamente assiomatico, è umanamente concepibile, è socialmente utile: ma ben altro è il caso di disporre della propria vita, anche se questa è angustiata da mali tormentosi. Converrà in ogni caso cercare di riconvincere il malato che la Medicina non ha certezza di criterî per la inguaribilità delle malattie individualmente considerate; può sbagliare le sue diagnosi, può errare nelle sue prognosi, ma non può mai, pel suo continuo progresso, proclamarsi incapace di curare quei morbi che fin ad un dato momento ha giudicato o giudica irreparabili.

Anche da questo passaggio emerge tutta l’utilità della storia per il dibattito attuale sulle grandi questioni della bioetica e, in primo luogo, sulla possibilità, per i medici, di lasciar morire i propri pazienti. Morselli sarebbe scomparso pochi anni dopo aver pubblicato questo saggio, nel 1929, non potendo venire a conoscere, dunque, gli orrori prodotti dal regime nazista con la messa in pratica delle teorie eutanasiche come quelle di Hoche e Binding. D’altra parte, se nell’ambito della storia della psichiatria L’uccisione pietosa non è sicuramente fra i testi di Morselli che si ricordino di più, è anche vero che proprio questo suo contributo può essere considerato centrale nella storia della eugenetica italiana ed esemplare delle posizioni dominanti fra gli eugenetisti del nostro Paese prima della seconda guerra mondiale.

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