Recensione a: G. Lorini, Elogio dell’invidia. Una riflessione filosofica, Carocci, Roma 2021, pp. 103, € 12,00.
L’invidia non sarebbe un’emozione, un sentimento, una tonalità di vita – Stimmung – ma, assai di più, è un elemento sostanziale della nostra specie. Per molte ragioni l’umano è un ente «strutturalmente invidiante» (p. 11), che questo libro di Gualtiero Lorini cerca di comprendere all’incrocio tra metafisica, fenomenologia e antropologia filosofica, mediate da un costante utilizzo della narrativa e della poesia, della letteratura.
L’obiettivo è greco, è il socratico bisogno di conoscersi poiché
comprendere che la dinamica invidiante, in quanto vitale, ci è connaturata forse ancor più di alcune funzioni biologiche ci consente una conoscenza di noi stessi nel senso più pieno e profondo in cui la conoscenza può essere intesa, vale a dire nel senso di quella conoscenza delle cause con cui Aristotele identifica la sapienza (p. 95).
Mi sembrano due i cardini sui quali l’indagine così delineata sembra argomentare le proprie tesi. Il primo consiste nel fatto che l’invidia non riguarda l’altro – che ne costituisce una semplice occasione – ma concerne il sé, più esattamente riguarda l’autorappresentazione che la persona si fa della propria identità, natura, capacità e limiti. L’invidia «viene innescata dalla disarmonia rispetto a un’immagine di noi che, per diventare attuale, richiede un riconoscimento esteriore reso impossibile proprio dall’elemento incontrato» (p. 34).
La causa efficiente dell’invidia è dunque la nostra immaginazione, che si dirige a una causa materiale costituita da una determinata situazione, con l’obiettivo – causa finale – di realizzare la rappresentazione che abbiamo di noi stessi, «ossia quel progetto di mondo in vista del quale agiamo e informiamo ogni nostra relazione con l’altro, relazione che – come si è detto – per questa ragione è sempre interessata, per quanto con sfumature ed esiti spesso tanto diversi tra loro da risultare talvolta opposti» (p. 93).
La causa formale è certamente l’insieme delle tre strutture qui riassunte ma coniugate, costituite e semantizzate dal secondo elemento dell’indagine. Esso è il tempo, la potenzialità di trasformarsi, il divenire. Lo si comprende bene nel caso del rapporto tra gli dèi greci e gli umani. Il φθόνος, l’invidia che le divinità nutrono verso gli effimeri rispetto al sempre che invece essi sono, è determinata non dalla forza o dalla felicità, che i divini naturalmente possiedono in modo incomparabile rispetto a noi, ma dalla δύναμις, dalla potentia, dalla possibilità di migliorarsi, evolvere dallo stato attuale, diventare altro. Agli umani gli dèi invidiano «la finitezza desiderante, la mortalità che consente ai ‘vivi d’un giorno’ di vivere oggi meglio di ieri e forse meno bene di domani. […] Paradossalmente, gli dèi invidiano la capacità degli uomini di crescere e migliorarsi, invidiano la loro umanità, alla quale non possono accedere, e soddisfano tale tensione soffocando una crescita dalla quale pure sanno di non poter essere soverchiati» (pp. 82-83).
C’è una acuta verità in tutto questo, anche se espressa da Lorini in modi non sempre ordinati e perspicui. Una verità che fa del suo libro non tanto un ‘elogio’ dell’invidia quanto una sua apologia, una difesa comprendente del suo statuto così caratterizzante la finitudine umana perché caratterizzante la sua struttura temporale, diveniente, in costante e indeterminata evoluzione.