Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, insegna Filosofia teoretica, Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. Ha anche insegnato Epistemologia, Sociologia della cultura e Storia dell’estetica. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Altri temi di cui si occupa sono: la mente come dispositivo semantico; la vitalità del pensiero classico greco e romano; le strutture ontologiche delle intelligenze artificiali; la questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). Il suo sito web è www.biuso.eu

Recensione a: P. Colonnello, Fragilità. Una condizione umana, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 126, € 10,00.

«È certo impresa ardua salpare sulla nave di un poeta»[1] ma l’andare teoretico di Pio Colonnello mostra da tempo la capacità di farlo, di saper coniugare – nell’indagine sulla vicenda umana – il rigore dell’argomentazione logica con la saggezza che poesia, letteratura, arti figurative, cinema sanno esprimere quando sono sostenute e intramate da uno sguardo fenomenologico che è in grado di vedere e di andare poi oltre il risultato della visione.

I percorsi di Colonnello nei territori di Essere e tempo, della tragedia attica, dell’immaginario poetico di Eugenio Montale, dell’angelo sopra Berlino di Wim Wenders, confermano che

l’assillo speculativo della tradizione occidentale, da sempre, ha tentato di preservare i fenomeni dal naufragio nel nulla, di salvare gli enti dal loro svanire. […] La vocazione soteriologica di larga parte del pensiero occidentale compare sintomaticamente nella costellazione di metafore elaborate dal linguaggio della tradizione, quali caduta e ascesa, perdita e rivincita, scempio e tripudio, naufragio e trionfo[2].

Sono metafore, immagini, parole, argomentazioni, tutte volte «alla ricerca delle costellazioni di senso del fondo inesplorato dell’Exsistenz»[3].

L’impersonalità di Montale, che fa protagonista delle sue liriche un verbo all’infinito e non la finita entità di ogni sentimento umano; l’angelo malinconico e solitario di Wenders; il Dasein infitto dentro un mondo del quale cerca di cogliere i modi della finitezza; il destino paradossale del saggio Edipo, sono tutte forme di spaesamento, di dimora dentro un mondo che sentiamo non essere per intero nostro, che ci ricorda altro, dal quale di tanto in tanto traluce la memoria o almeno la nostalgia di una Heimat, di un luogo familiare che sappiamo esserci ma non sappiamo più dove sia.

Un destino tragico ci involve e ha uno dei suoi emblemi in Edipo, figura alla quale Colonnello dedica una particolare attenzione, in dialogo con le tesi di Carlo Diano sulla «incolpevole colpa» del sovrano di Tebe[4]. L’Edipo di Sofocle è una tragedia della colpa o del destino? Io credo che sia entrambe ma in un senso assai oggettivo e che si spiega soltanto allontanandosi dai criteri morali nostri, dai principi della civiltà cristiana, per cogliere invece il sentimento ellenico dell’esistere collettivo. Esso si basa infatti non sulla colpa che caratterizza le azioni ma sul danno che le azioni producono. Edipo non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. Il danno è un dato oggettivo, la colpa è un concetto interiore destinato a rimanere oscuro poiché nessuno può davvero penetrare nell’animo, nella mente, nelle intenzioni di un altro umano. Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere.

Anche di fronte a un destino così inquietante, il coraggio filosofico di Colonnello consiste nell’affrontare in modo esplicito la domanda del demone nietzscheano sulla nostra disponibilità a voler ripetere

questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta […] ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso[5].

Una risposta che consiste nel desiderio e nella volontà di «benedirla [la vita] nell’evento più effimero, in ciò che è più fragile»[6]. Una risposta che viene ripresa nella parte più bella di questo libro, quella nella quale l’autore racconta di aver trovato, in un pomeriggio di dicembre a Buenos Aires, dentro un vecchio volume delle opere di Borges scovato in una antica libreria, una lettera destinata allo scrittore e redatta da un non meglio specificato Fernando Obregón. Colonnello ha abituato i suoi lettori a simili ‘ritrovamenti’. Il più famoso è quello di una lunga lettera che Martin Heidegger scrisse a Hannah Arendt il 12 febbraio del 1951. Lettera che Colonnello afferma di aver ricevuto da un suo maestro e amico, il quale la trovò in circostanze del tutto casuali, e che intende colmare un vuoto di relazioni e di pensiero. L’ampio carteggio Heidegger-Arendt[7] affronta infatti gli argomenti più diversi ma è privo di una precisa e documentata spiegazione da parte del filosofo del vissuto politico ed esistenziale negli anni che vanno dal 1933 al 1950. La Lettera di Colonnello ricostruisce quindi gli eventi della vita di Heidegger in quel periodo e i sentimenti che li accompagnano. E lo fa con stupefacente verosimiglianza[8].

Quest’altra lettera ‘argentina’ è commovente e profonda per tante ragioni, anche personali. La principale questione teoretica che vi si affronta è il tempo, la cui natura – afferma Obregón – lo ha sempre incuriosito e inquietato, trovando in Borges una molteplicità di risposte perfino stordente. In ogni caso è chiaro che il tempo segna «la differenza ontologica tra l’Essere e il misero, fragile ente che l’uomo è»[9] e che proprio per questo – e qui viene ripresa la benedizione nietzscheana dell’esistere – l’autore afferma di aver «imparato che è impossibile sfuggire alla rapina del tempo, ma è possibile amare le cose e gli eventi, per quanto effimeri, precari e fugaci essi siano, e la stessa fragilità che noi siamo. Godere del privilegio di essere mortale»[10].

Provo a coniugare queste risposte di Obregón/Colonnello e la questione fondante del libero arbitrio che la vicenda di Edipo solleva e affronta. E vorrei farlo anch’io con una poesia, come l’autore invita con il suo libro a tentare. Una poesia di Ambrose Bierce, tratta da Il dizionario del diavolo (1911): «Una foglia si staccò da un alto ramo, / disse: “Di cadere a terra io bramo”. / Il vento dell’ovest, alzandosi, la fece turbinare. / “A est”, disse, “or mi dovrò orientare”. / Il vento dell’est s’alzò con maggior forza. / Quella disse: “Sarebbe savio cambiar la mia corsa”. / Con egual poter si svolse la lor contesa. / “La mia scelta è meglio lasciar sospesa”. / Si spensero i venti e la foglia, non più afflitta, / esclamò: “Ho deciso: cadrò giù dritta”»[11].

Le nostre domande, le nostre risposte, sono forse il frutto del vento teoretico ed esistenziale che ci spinge nel tempo e dentro il tempo. E infatti la metafora più antica ed efficace della fragilità umana e di ogni animale è quella che da Omero arriva a Ungaretti e per la quale gli umani sono la fragilità stessa della materia, sono come foglie che «il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva / altre ne germina, e torna l’ora della primavera: / così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l’altra sfiorisce»[12]. Tutte le generazioni rimangono composte da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita»[13].

Nell’autunno nel quale si sta come foglie pronte a cadere dal loro albero, le pagine di Pio Colonnello[14] rappresentano molto più di un conforto teoretico e letterario; esse costituiscono infatti un gesto di comprensione profonda, e dunque di accettazione vera, della fragilità che ci costituisce.

NOTE

[1] P. Colonnello, Fragilità. Una condizione umana, Mimesis, Milano-Udine 2024, p. 69.

[2] Ivi, pp. 45-46.

[3] Ivi, p. 71.

[4] Ivi, p. 55.

[5] F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. di F. Masini, in «Opere», vol. V/2, Adelphi, Milano 1965, af. 341, pp. 201-202.

[6] P. Colonnello, Fragilità. Una condizione umana, cit., p. 28.

[7] Pubblicato in italiano da Einaudi nel 2000 con il titolo Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, dai lasciti a cura di U. Ludz, edizione italiana a cura di M. Bonola. Cfr. Hannah e Martin, tra le lettere il segreto di un amore, «Il Pensiero Storico», 23.3.2023: https://ilpensierostorico.com/hannah-e-martin-tra-le-lettere-il-segreto-di-un-amore/

[8] P. Colonnello, Martin Heidegger e Hannah Arendt. Lettera mai scritta, Guida editori, Napoli 2015.

[9] Id., Fragilità. Una condizione umana, cit., p. 107.

[10] Ivi, p. 109.

[11] In D.M. Wegner, L’illusione della volontà cosciente, trad. di O. Ellero, Carbonio Editore, Milano 2020, p. 7.

[12] Omero, Iliade, trad. di G. Cerri, Rizzoli, Milano 2003, VI, 147-149, p. 383.

[13] Ivi, XXI, 464-466, p. 1093.

[14] In Fragilità come anche in Solitudine ed esistenza. Sullo statuto della vita interiore, Mimesis, Milano-Udine 2022 (si veda: https://ilpensierostorico.com/le-altre-forze-che-guidano-il-mondo/).

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