Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

Che cosa caratterizza l’esperienza del dolore nelle forme di sofferenza psichica nella vita depressiva e nella vita schizofrenica? Non è possibile riflettere sopra ai nuclei portanti di questa tematica senza rifarsi ad alcuni grandi psichiatri e filosofi che ne hanno esplorato i confini umbratili; tra questi bisogna ricordare V. E. von Gebsattel, Eugené Minkowski, Erwin Straus, Eugenio Borgna, Franco Basaglia.

In questa terza parte verranno affrontate le questioni relative il rapporto tra struttura temporale, spazio vissuto, vita depressiva e vita schizofrenica, soffermandosi soprattutto su questa ultima, la vita schizofrenica, e le costellazioni di significati (che vanno slittando, eclissando e sovrapponendo) che conseguono lo svilupparsi di una nuova Stimmung. Vanno distinte le forme fenomenologiche, perché la depressione non è la malinconia clinica, diversa anche dalla malinconia-malattia, dalla malinconia come stato d’animo, dalla malinconia creatrice e Borgna aggiunge anche la malinconia-leopardiana. Se i confini e i contenuti differiscono in ognuna, una questione rimane centrale e attraversa i vari vissuti: l’importanza di ridare voce al dolore e al silenzio. A questo proposito, ora si lascia la parola ad Anna, giovane paziente di Eugenio Borgna, donna immersa in una depressione psicotica:

La mia casa è cambiata. C’è il sole ma io non lo vedo. Vivono anche le foglie: lei le vede diverse, io lo so, io so che si chiamano foglie perché mi hanno detto che si chiamano così. Sono solo carne e ossa, senza vita. Non sono più un essere umano. Non so, sono un mucchio, sono diventata una cosa senza senso, un nulla. […] Le ore non passano più: non c’è più né giorno né notte. Il tempo è sempre uguale. Solo ore che passano. Non crescono più i miei bambini. Non vedo il futuro, non lo vedo, neanche vedo il giorno dopo. Ma perché fanno le case?[1]

Il tempo è sospeso, le cose sfuggono e così gli eventi, persino i familiari sembrano usciti dal tempo della storia. La storia, questa dimensione che dischiude i fenomeni della durata e della propulsione alle concatenazioni degli eventi, lascia spazio a una massa di indefinito che spinge ogni contenuto all’infinito di ogni direzione. Due sono le affermazioni di Anna che consentono di cogliere il moto perpetuo delle cose che sfuggono all’infinito verso ogni parte, irraggiungibile al soggetto: «non crescono più i miei bambini» e «ma perché fanno le case?». La prima riflette il tempo vissuto inchiodato alle alterazioni che la struttura temporale interiore ha subito dalla sofferenza generata dalla depressione psicotica; la seconda, a un primo sentire più enigmatica, è una richiesta di senso impossibile da raggiungere nel tempo del patimento, un riconoscere l’insensatezza – che va sviluppandosi dentro le ore del dolore – anche nelle strutture elementari, indispensabili per la sopravvivenza umana. Meglio: le foglie, le case, la carta, le macchine, sono solo significante, contenitore senza contenuto, insieme di lettere che forma una parola in accordo con uno spazio occupato nel reale, ma senza spessore.

Lo spessore, il significato, la profondità che nutre la fondazione emozionale che va sviluppandosi nel rapporto tra soggetto e oggetto nell’ambiente, non c’è. Laddove ci si aspetterebbe un insieme simbolico, si trova un ‘buco’ che a sua volta genera il sentimento tragico dell’infinito come fine senza salvacondotto. La drammaticità delle cose che non sono più se non nella forma in cui vengono credute e normalizzate: raccontate. Dunque per la giovane paziente le foglie non sono più le foglie, ma qualche cosa che viene chiamato con quel nome perché qualcuno lo chiama in quel modo. Si tratta di un processo che non è più nell’ordine della rappresentazione, né della distanza e della riflessione. Tutto sembra capitare e in potenza manipolatoria nei confronti del soggetto, che si sente curvato verso fuori, sensibile ad ogni sbalzo di ogni fibra del fuori.  Nessun senso di colpa, non più una depressione che si organizza su di un simile sentire, come accadeva nella società della disciplina, società del secolo scorso. La depressione oggi si organizza sul senso dell’inadeguatezza: sentirsi inadeguato e incapace di mantenere il ritmo e ‘abitare’ gli standard proposti dalle istituzioni e seguiti dalle collettività.

L’esperienza schizofrenica è segnata da una ricerca entro logiche sconosciute, un movimento per ritrovare una traccia di sollievo alle disperazioni di una tra le condizioni umane più strazianti. La follia è una condizione umana, non esiste tra gli animali. Rientra, per questo motivo, nel regno delle possibilità di esistere in altri modi. Non è qualche cosa di statico, perimetrabile in maniera certa e senza dubbi. Per questo, la soluzione farmacologica, ha senso solo all’interno di una costellazione ampia di soluzioni, senza ordine gerarchico; si tratta di un insieme che accoglie il soggetto da più fronti, nel contesto del dialogo e dell’ascolto. Un contesto, quello appena citato, che non può esaurirsi di fronte allo psichiatra e allo psicologo: è un progetto che riguarda anche la comunità. Per questo la continua richiesta, da Basaglia in poi, di una comunità capace di ascoltare e restare nella comunicazione di esperienze di vita altre, di percezioni di vita altre, è il centro della questione psicopatologica da raggiungere. Tuttavia, in molte delle società occidentali che presentano delle consistenti percentuali di soggetti depressi e schizofrenici, questa visione di accoglienza comunitaria non è ancora stata raggiunta. Le società occidentali, attente alla crescita e al progresso tecnico, basato sui ritmi della produzione e del consumo, evitano di porgere la dovuta attenzione a chi,  in un modo o nell’altro, malato o meno, non riesce ad essere produttivo e ad essere consumatore nelle modalità dettate dalla moda e dalla pubblicità.

Nell’esperienza schizofrenica, come ha osservato approfonditamente Eugene Minkowski nel suo libro sulla schizofrenia[2], il tempo vissuto si dissolve e lo spazio vissuto si dilata; la dilatazione dello spazio vissuto è la causa della ripetizione del passato che curva e si trasporta laddove dovrebbe apparire e farsi sentire l’avvenire. Il tempo della clessidra, il tempo numerico delle ore, segue il suo ritmo, inalterato, mentre il tempo interiore subisce deformazioni, cadute a precipizio, inversioni. Il soggetto subisce una riduzione dell’angolo visuale e una diminuzione della capacità di percepire l’orizzonte nel suo continuo spostamento, nella sua tensione in avanti che non si fa mai tattile. L’orizzonte si chiude anche lateralmente, lasciando una scia lunga e aperta solo per la ripetizione del passato, di ciò che è stato e in questa fase continua a ripetersi.

Troppo spesso, a causa della difficoltà di comprensione del vissuto di soggetti che vivono questa condizione umana, psichiatria e psicologia (ma non solo) hanno voltato le spalle a questi pazienti, relegandoli nella zona di emarginazione per eccellenza, scordando il dolore e la sofferenza che essi provavano e provano, ricordando solo le stravaganze e le bizzarrie e identificandole come sintomi di una dicitura facente parte di un insieme di patologie (ramificazioni che portano all’implosione del senso della patologia, relegando in secondo piano e poi nel nulla il vissuto della persona).

Ascoltare il dolore di un paziente schizofrenico cercando di individuare il segno della malattia riconduce a quella psichiatria, a quella psicologia, che non vede le persone ma le diciture, non le vite ma le liste finite. Certo, la difficoltà di ascoltare un linguaggio che racconta di un mondo altro può far nascere la paura di restare in una comunicazione incomprensibile, nel desiderio immediato di ritornare alla ‘riduzione’ naturalistica della psicopatologia. Ma la strada aperta da una psichiatria comprensiva parla di altro, della possibilità di restare in un dialogo dalle grammatiche sconosciute, oscure ma talvolta produttrici di contenuti creativi e originali. In questo senso Enrico Morselli e Karl Jaspers[3] hanno acceso luci soffuse che segnano tuttora il tragitto di uscita da una psichiatria arcaica, dagli schemi di articolazione gelida e distaccata, e da una psicologia eccessivamente descrittiva.

Nell’esperienza schizofrenica, è il delirio l’elemento più sconvolgente, la frattura dei significati. È utile ricordare quanto sottolineava nei suoi lavori Klaus Conrad[4]: nella schizofrenia, in ogni schizofrenia, l’essere-nel-mondo psicopatologico anticipa lo stato delirante. Quando la Stimmung subisce delle alterazioni, anche il mondo attorno viene percepito nella nuova variazione e con esso la struttura temporale interiore, in stretta connessione con lo spazio vissuto. Nel caso del delirio, va sviluppandosi una fase anticipatoria, una climax che non è ancora delirio ma esperienza sconvolgente denominata Wahnstimmung. Già in questa fase il soggetto patisce una comunicazione che si trasforma, diviene problematica e dai significati sfumati e che seguono linee di tendenza indefinite, inafferrabili. Le frontiere porose tra reale e immaginario evaporano, dischiudendo forme strazianti di ambiguità. ‘Esplodono’ le strutture semantiche, sfuggono verso una dilagante estraneità. Di nuovo: si fratturano e cambiano la semantica, il gesto, la parola, il volto delle persone, conducendo il soggetto verso una angoscia smisurata, già oltre le soglie dell’intersoggettività.

Come afferma Eugenio Borgna nel suo lavoro Come se finisse il mondo, «l’esperienza dello stato d’animo delirante (della Wahnstimmung) sconfina, poi, in quella della fine del mondo. I significati labili ed eterei, inconsistenti e a-tematici, alludono (ora) a un universo che lascia riemergere segni frantumati e indiziari di una catastrofe incombente e imminente»[5]. In questa fase il mondo è un terremoto, il reale si desertifica. Le parole slittano, proprio come le placche sotto la pressione di forze che vengono sprigionate improvvisamente durante il sisma. L’esperienza delirante ‘taglia’ l’integrità della persona, spezza la percezione del mondo attraverso il sistema temporale tripartito, cresce con precisione sempre maggiore la sensazione di imminente fine del mondo.

Stato d’animo delirante, fine del mondo, delirio sono tre momenti che apportano modificazioni nella fondazione emozionale del soggetto e nella organizzazione del discorso. Certo, per comprendere in maniera estesa, e non solamente in termini di alterazioni biologiche, l’esperienza schizofrenica  e nello specifico il vissuto delirante, la fenomenologia riconosce alla metamorfosi del campo dei significati l’essenza per comprendere il dolore del soggetto di fronte allo sconvolgimento in atto. Ancora una volta, con Karl Jaspers ma non solo, si riconosce al delirio un significato che va oltre al sintomo, e che diventa anzitutto esperienza soggettiva che richiede ascolto e immedesimazione, per quanto possibile. Il reale, per lo psicotico, assume nuovi sensi, nuove significazioni. Si tratta di un reale diverso, seguito da un’altra angolatura che non è possibile abitare se non all’interno di quella specifica esperienza di patimento. In questo senso, il delirio non può considerarsi in nessun caso alla stregua di una febbre o una infiammazione; ridurlo a sintomo di una malattia (e una certa psichiatria e psicologia continuano a farlo) significa forcludere le profonde esperienze psichiche che hanno condotto il soggetto verso questo stato patologico.

Il discorso di Martin Heidegger coglie sfumature di senso diverse dalla psichiatria tradizionale: «Follia (Wahnsinn) non vuol dire un pensare che fantastica cose insensate. Wahn deriva dall’antico alto tedesco wana e significa: senza. Il folle pensa (sinnt); anzi pensa come nessun altro: non per con la logica degli altri. Egli ha un altro modo di pensare. Sinnen significa originariamente: viaggiare, tendere a, prendere una direzione» e seguendo la congiunzione etimologica tra follia e viaggio, prosegue affermando che «il dipartito è il folle in quanto è in cammino per qualche altro luogo»[6]. L’immaginario e il fantasmatico si estendono, il linguaggio scansiona il dolore ma senza più lanciare ponti comunicativi interpretabili dall’altro: le simbologie cambiano e rimandano a temi dell’angoscia e della nientificazione.

Tanti sono i vissuti schizofrenici in cui il soggetto si dice nullo, totalmente uno con il creato, estraneo alla forma del due, alla divisione e ai confini fra reale e fantastico. Un mundus fabulosus, come l’ha chiamato e descritto Hemmo Muller-Suur[7]. In questo mondo, le parole, tutte le parole, dimostrano la precarietà dei loro significati: testimoniano la debolezza delle analisi psicologiche di fronte alle improvvise ‘riprogrammazioni’ del lessico, anche e soprattutto quotidiano. Ma non è tutto. Infatti, Hemmo Muller-Suur, attraverso i suoi lavori, ha dimostrato che il mondo vissuto dal soggetto schizofrenico ha agito metamorfizzando sia la parola e il suo utilizzo sia le espressioni figurative; nei disegni si osservano rimandi al mondo dei miti e delle leggende. Le forme di comunicazione simbolica translinguistica, come le forme grafiche mimiche e i disegni appunto, rendono possibile un discorso che, invece, non è più affrontabile verbalmente.

Il contributo della fenomenologia nelle questioni relative al mondo schizofrenico conducono all’esistenza di una gestalt schizofrenica, che come osserva Eugenio Borgna, è ricca di significazione umana. Lo stesso attraverso le parole di Morselli, per chiudere senza concludere questa terza parte dedicata al rapporto tra Dolore e psicopatologia: «la metamorfosi dell’io schizofrenico è ben lungi dall’essere un fenomeno di passivo automatismo regressivo, o una pura conseguenza reattiva psicogena; l’ammalato, pur subendo il peso della dissoluzione e dei fattori psicogeni, vi costruisce una forma di vita, così come l’eschimese costruisce, per proteggersi, l’iglu, la capanna di neve»[8].

Note:

[1] E. Borgna, Il tempo e la vita, Feltrinelli, Milano 2015, p. 173.

[2] E. Minkowski, La schizophrénie: psychopathologie des schizoides et des schizophrènes, Payot, Paris 1927 (trad. it. G.F. Terzian, La schizofrenia. Psicopatologia degli schizoidi e degli schizofrenici, Einaudi, Torino 1998).

[3] K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, Springer, Berlin 1913 (trad. it. R. Priori, Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma 1964).

[4] K. Conrad, Die beginnende Schizophrenie, Thieme, Stuttgart 1966.

[5] E. Borgna, Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Feltrinelli, Milano 1995, p. 65.

[6] M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Verlag Vittorio Klostermann, Frankfurt 1959 (a cura di R. Caracciolo, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973).

[7]H. Muller-Suur, Uber die Wirksamkeit allgemeiner Sinnhorizonte im schizophrenen Symbolerleben, in «Studium generale», 6, Firenze 1953, pp. 356-361.

[8] G. E. Morselli, L’esistenza psicopatologica, a cura di G. Gamma, Minerva Medica, Torino 1975 (1948), pp. 255-268.

Loading