Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

Il tempo del dolore è costituito da continui movimenti di ritorno verso catene di pensiero che ripetono contenuti angoscianti, legati alla carne lancinata. Sono contenuti che, seppur in maniera soffusa, rimarranno come ombre nel pensiero del soggetto addolorato. Per questo, anche quando il tempo del dolore lascia spazio a un nuovo tempo, i pensieri che hanno costituito il vissuto difficile rimangono nel passato immediato o nella massa del dimenticato – come hanno osservato i fenomenologi, tra cui Eugene Minkowski, esiste una coscienza dell’inconscio ed è per questo che i ricordi legati ad eventi tragici della vita possono ritornare a coscienza; certo, con una frequenza, intensità e chiarezza diverse[1], dettate dalla durata di “soggiorno” nella massa del dimenticato.

Immagini non sempre fulgide ritornano da diverse profondità interiori; si tratta, metaforicamente, di un ritorno sul ciglio dell’abisso, per scrutare quello che è stato e non è più; in questo senso Emily Dickinson, in un passaggio della sua poesia L’abitudine dell’anima, può dire:

[…] e chi torna sul ciglio di un abisso
col pensiero assottiglia il ramoscello
sbocciato di traverso sulla roccia,
che lo trattenne dal precipitare.[2].

 Ogni soggetto rivive il tempo del dolore secondo le proprie inclinazioni, i propri vissuti, ed è per questo che non può esistere un tempo della sofferenza unico per tutti, ma varie forme diverse di tempi della sofferenza.

Il dolore avvicina il pensiero della morte che, temuta e spesso rimossa, in questa condizione tende a riaffiorare attraverso le immagini, le amplificazioni sensoriali, le esagerazioni nel versante del controllo. Certo, il pensiero della morte non può persistere e investire totalmente la vita del soggetto addolorato, condurlo alla perenne rassegnazione e inerzia dentro il buio delle catene umbratili del pensiero di fine; rimane un pensiero che ha una sua dignità e ragione d’essere, tanto quanto gli altri pensieri, quelli accolti nel tacito e personale consenso. Questo pensiero di fine, non si lascia imbrigliare né tanto meno seppellire in eterno nella massa del dimenticato. Porta con sé immagini e simboli la cui traduzione non è sempre possibile e immediata. Si tratta di contenuti che fanno parte della stessa condizione umana, per questo desiderare la loro assenza non rientra nella sfera del praticabile. Dinnanzi al dolore e ai contenuti di morte, la via esegetica (l’esegesi del sé) ristabilisce a poco a poco il fluire del tempo vissuto, riaccorda il tempo della clessidra con il tempo interiore, dischiudendo parti della fondazione emozionale rimaste a lungo nello sfondo; così l’attesa e la speranza, lo slancio vitale e etico, l’introspezione e l’estropezione, ritornano a fornire significati.

Riaprire il tempo alla sua condizione tripartita consente la sopportazione e l’elaborazione della perdita vertiginosa del senso, dello straniamento che continuamente fa confluire l’attenzione al punto addolorato o alla sequela di punti pensanti che recano dolore, come nel caso di alcune schizofrenie e depressioni endogene – i lavori di De Clèrambault, Minkowski, Minkowska, Straus, Gebsattel spiegano approfonditamente il rapporto tra struttura temporale e malattia mentale.

«Il dolore fa entrare il tempo e lo spazio nel corpo» e «il tempo e il dolore si intrecciano l’uno nell’altro […] Il dolore ci inchioda al tempo, ma l’accettazione del dolore ci trasporta al termine del tempo, nell’eternità»[3], sosteneva Simone Weil. Il soggetto addolorato viene così colpito nella struttura temporale e spaziale che il suo corpo ha sviluppato, in rapporto al mondo, al divenire-ambiente, e ne cerca il rimedio in due direzioni: nelle tecnologie del sé e nelle tecniche elaborate nella società del tempo in cui vive. Dato il rapporto stretto tra condizione umana odierna, ambiente tecnologico, iperdensificazione delle società e conseguente contrazione del tempo al presente, si ritiene ora indispensabile precisare in che modo continua a svilupparsi il legame tra dolore e tecnica. Questa ultima è evidentemente esercizio della ragione, l’estensione nel fuori di una procedura elaborata dall’interno. Le procedure servono a prevedere e questo, dai greci sino ad oggi, viene inteso in funzione di un rimedio, nel caso di questo scritto rimedio al dolore. I meccanismi della previsione elaborati da una certa cultura di una certa società, nel caso specifico quella occidentale, i cui effetti e “tramonti” tuttora vengono vissuti, hanno contribuito alla formazione della nozione di causalità; nozione che, nel caso dell’Occidente (luogo in cui si è formata e sviluppata nei secoli), ha come scopo primario la difesa dall’angoscia generata dall’imprevedibile. L’effetto non rimane isolato, senza narrazione e durata, perché dal momento della formazione della causalità, ogni effetto ha la sua causa e ogni pena la sua colpa. Su questo sfondo verranno a formarsi la prima serie di tecniche dell’ambiente medico, con la scuola di Ippocrate, a Kos.

L’accompagnamento del dolore e delle sue “costellazioni” nell’ordine della previsione, del rigore e dell’anticipazione, ha svolto un ruolo centrale nella conoscenza del corpo e dei limiti ad esso legati. Tuttavia, con l’entrata dell’essere umano nella seconda soglia di mutazione tecnologica (a più campi, sociale, sanitario, educativo, amministrativo, e seppure a macchia di leopardo comunque a livello planetario), persiste la logica della previsione nell’osservazione e comprensione del dolore ma ad essa va ad aggiungersi la perdita del senso di tale vissuto; di più: non solo la perdita del senso, del significato e quindi della narrazione di questo vissuto difficile, ma la mancanza generalizzata della ricerca soggettiva dei significati fulgidi e oscuri del dolore. Un atteggiamento evidentemente massificato. Solo in quanto portatore di un senso, l’evento, può farsi storia. In questo senso, il dolore diviene storia da raccontare, necessità di narrazione e di dare una organizzazione (legare, nel lessico freudiano) a quanto si sta vivendo e patendo. Dare voce alla carne che patisce significa nondimeno riaprire la propria persona al tempo e di conseguenza alla direzione. Si ritiene utile sottolineare come molte delle psicopatologie odierne mantengono il soggetto in una contrazione al presente, e quindi nella curvatura verso l’io della direzione esistenziale. Questa curvatura monologica trasporta l’uomo fuori dalla storia, fuori dalla natura, lo relega alla dimensione del funzionario d’apparato, buono appunto per funzionare. Espulso il tempo per il patimento, espulso quindi ciò che fuoriesce dalla positività, si dischiude la via del funzionamento e della progressione manuale del tempo.

Questo ultimo concetto, in psichiatria fenomenologica, sta ad indicare la perdita di una propulsione all’avvenire durante il tempo soggettivo: fuori dal luogo di lavoro, dove il soggetto produce entro un tempo organizzato non da sé ma dall’ambiente-lavoro, il medesimo soggetto si ritrova in una temporalità che non fa più storia, che lo obbliga a gestire il tempo chiuso nella sua individualità. Accade nelle società dove la connettibilità ha raggiunto livelli senza precedenti; ma la connessione che avviene nel mondo virtuale è ben diversa dalla connessione reale, fatta di visioni, impegni, afflati e progettazioni.

Una società senza dolore, che non considera tale vissuto degno di rimanere punto cardine della vita dell’essere umano, evidentemente è una società che progredirà sviluppando potenti diversivi per fare fronte alla mancanza, al buco generato dall’aver espulso parte della vita sentimentale dei soggetti. Trovare un buco al posto della costellazione del dolore – pur continuando a percepire la verità del dolore che segna la carne, ma senza più essere capaci di traslare grammaticalmente il vissuto – apre la vita a diverse situazioni: la violenza per la violenza, motivata dall’incapacità di sopportare e di avere degli strumenti adeguati per la sopportazione della verità che si fa carne e strazia il soggetto; la traslazione per intossicamento, e cioè il tentativo malato di annebbiare il proprio sentire[4]; la traslazione per dipendenza tecnologica, che rientra nelle tecniche post-moderne di narcosi artificiale. Sono solo tre degli esempi di azione non concertata e non coordinata per dare risposta a un vissuto.

La narrazione, verbale e artistica, rimane la via fondamentale per sopportare, raccontare, comprendere il patimento. L’insensatezza del dolore, nell’età della tecnica, non nasce da linee di forza e tendenza che ostacolano il vivere umano, l’insensatezza va sviluppandosi con il crescere della disponibilità dei prodotti umani; la moltiplicazione di tali prodotti, in tutti i campi, sviluppa una massa anonima che satura la vita, saturazione che colpisce anche e soprattutto lo spazio che fungeva da spazio di raccoglimento, momento di ri-flessione sull’esistenza stessa, sulla propulsione in avanti del vivere. Ancora: tale insensatezza può essere percepita solo in quelle vite che hanno mantenuto un rapporto con lo spazio di ri-flessione; in assenza di un simile spazio, con i momenti di raccoglimento che in esso si creano, gli uomini non possono ragionare e concepire la mancanza di senso, per cui l’epoca odierna apparirà del tutto normale e priva di variazioni sostanziali. Chi, oggi, denuncia la mancanza di senso e la sensazione di smarrimento, viene invitato a recuperare la serenità attraverso una cura. In altri termini, ad essere invitati alla guarigione non sono coloro che fanno Uno con l’apparato, espellendo l’altro in sé, ma chi si rende conto dell’insostenibilità di tale ritmo e ne esprime il proprio appello contrario.

Chi ha colto con lucidità l’evaporazione su più fronti del senso e dunque dello spessore della vita, a tali soggetti, viene suggerita la cura religiosa o psicoanalitica, farmacologica o psicofarmacologica. Queste quattro realtà, in maniera non diretta, forzano il rientro del soggetto in una condizione definita di normalità, che in uno scenario simile significa il rientro nella condizione di chi svolge le funzioni ed è capace di prestare un servizio professionale secondo le leggi del contratto lavorativo. Non c’è spazio per accogliere il dolore, che sia fisico o mentale, nella sua dichiarazione di verità nella grammatica del soggetto addolorato. E se tale dichiarazione viene accolta, troppo spesso si cerca di raggiungere, il più brevemente possibile, la conversione del dolore in positività; la positività è l’anticamera della prestazione, unica necessità in una società performativa che non può concedersi il rovescio. Che cosa rende impossibile il tempo del rovescio, del negativo? Il fatto che, l’inversione dell’ambiente di vita delle società occidentali da ambiente naturale a ambiente tecnologico, dove la natura diventa il suo enclave, ha significato l’inversione del rapporto politica-economia: la politica subordinata all’economia e non il contrario come avveniva fino alla metà del secolo scorso (che, certo, non era immune da differenti complicazioni).

In un libro del 1999, La società dell’incertezza, Zygmunt Bauman scriveva: «Non importa ciò che facciamo, a condizione di essere in grado di farlo»[5]: è lo slogan della nuova società attiva e sana da trent’anni, che raccoglie il testimone dalla società della disciplina, diventando società della produttività e prestazionalità. Ancora Bauman: «La morte costituiva “lo scandalo della modernità”, perché era destinata a rimanere l0epitome e l’archetipo dei limiti delle potenzialità umane; la sfida finale al sogno moderno di trascendere tutti i limiti e di elevare le possibilità umane alla massima potenza»[6], perché, ancora una volta, il rapporto tra umano e apparato macchinico è un rapporto mimetico: l’umano apprende e incorpora il precetto di progressivo incremento della potenza della macchina, e lo traduce in comportamento di produzione e adeguatezza. Il dolore viene così a delinearsi come fenomeno di insufficienza e inadeguatezza.

L’urgenza di costruire un mondo in armonia si è dimostrata essere la causa principale della segregazione, maltrattamento, incomprensione – in materia sanitaria, educativa, sociale – di milioni di soggetti addolorati e momentaneamente impossibilitati a produrre e consumare gli standard consigliati da moda e pubblicità. L’attenzione al corpo si è trasformata in analisi continua e a oltranza delle minime variazioni che accadono in esso; una preoccupazione assoluta, condotta con occhi da miniaturista. Quando le variazioni e le sensazioni non rientrano negli standard immaginativi profusi dai media, la preoccupazione si trasforma in coazione all’aggiustamento. Destinati a rivedersi, ricostruirsi, riassemblarsi, milioni di soggetti diventano individui chiusi nella propria stanza degli specchi, in un continuo scrutare se stessi fino all’annullamento identitario, per lasciare spazio, ancora una volta, allo standard in sé. Una violenza latente che trova nel miniaturismo corporeo il modello operativo per rendersi manifesta. Un modello, evidentemente, destinato a fallire. La coazione all’aggiustamento, radunando in sé una serie di procedure di controllo delle sensazioni e delle forme del proprio corpo, chiama a sé tutta l’attenzione di cui è capace il soggetto, lasciando solo minimi residui alla distribuzione dell’attenzione verso altre mete. In questo senso, il soggetto ne esce privo di forze, avendole spese tutte nel trasformare il corpo stesso in un compito. Questa trasformazione può condurre all’interpretazione dell’al di fuori come il luogo del turbamento; l’eccesso del controllo, il corpo come opera mai terminata, sempre soggetta a revisione, sono le cifre narcisistiche di un modo di vivere che complica l’adesione al principio di realtà. Secondo questo modo di procedere va assumendo maggiore forza la linea di tendenza che conduce l’Io ad allontanarsi da tutto ciò che è potenziale nemico e fonte di dispiacere; un Io-piacere, in grado di respingere ogni nemico, ogni germe che vuole portare novità; l’Io-piacere respinge il mondo esterno, alzando la parete di confine, contrapponendosi a «un estraneo e minaccioso “al di fuori”»[7].

Certo, le costruzioni ausiliarie, come è già stato detto, sono necessarie affinché il soggetto possa sopportare la vita e i suoi tempi. I soddisfacimenti sostitutivi, per utilizzare ancora una volta il lessico psicoanalitico, fanno parte della maniera operativa dell’umano, nel confronto con l’ambiente e con il divenire-ambiente che occupa. Gli uomini desiderano la felicità, vogliono rimanere felici. Ma questo desiderio ha due mete, una positiva e una negativa: «mira da un lato all’assenza del dolore e del dispiacere, dall’altro all’accoglimento di sentimenti intensi di piacere. […] l’attività degli uomini si sviluppa in due direzioni, secondo che cerchi di attuare – in misura prevalente o addirittura esclusiva – l’una o l’altra meta»[8]. Secondo Freud, la felicità, a una prima indagine di superficie, sarebbe improvvisa, compressa ed episodica. In definitiva, un sentimento di modesto benessere. Così considerata, la felicità, sarebbe un sentimento molto più difficile da provare del suo rovescio, dell’infelicità. Questa ultima attraverso le sue sofferenze, minaccia la specie umana almeno da tre direzioni: dal corpo, dal mondo esterno e dalle relazioni.

Sono svariati i modi di ricerca della felicità, ma alle soglie del terzo decennio del XXI secolo, tale ricerca, sembra avere sempre a che fare con l’espulsione del dolore e forse, più specificatamente, del patimento. Nondimeno, oltre all’espulsione appena sottolineata, esiste la grave tendenza ad abbandonare ogni senso di prudenza. Infatti, troppo spesso e non solo negli adolescenti, la ricerca del bene coincide con la perdita del senso della misura. Sono felicità di facciata, parziali e con una scadenza; ben si amalgamano al fare usa-getta delle società occidentali, che fanno dello scarto una abitudine consolidata in tutti i campi. Si usano, si gettano e si accumulano scarti non solo di oggetti, anche di tendenze comportamentali e di simulacri identitari.

Note:

[1]E. Minkowski, Il tempo vissuto…, cit., pp. 141-160.

[2]E. Dickinson, Tutte le poesie (trad. it. S. Raffo, M. Bacigalupo, N. Campana, M. Guidacci, Mondadori, Milano 1994, J957, 1864 / F917, 1865).

[3] S. Weil, Cahiers, Plon, Paris 1970 (posthume), (a cura di G. Gaeta, Quaderni. Volume terzo, Adelphi, Milano 1982, p. 211).

[4] Cfr. in materia di attuazione dei diversivi moderni, S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Wien 1930 (trad. it. E. Ganni, Il disagio nella civiltà, Einaudi, Torino, 2010).

[5]Z . Bauman, La società dell’incertezza (trad. it. R. Marchisio e S.L. Neirotti, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 129-130).

[6] Ivi, p. 133.

[7] S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Wien 1930 (trad. it. C. Musatti, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 202).

[8] Ivi, p. 211.

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