Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.

1. La vita e l’opera di Dōgen

L’importanza di Dōgen (1200-1253) nella storia filosofico-religiosa del Giappone è spropositata. Egli, unanimemente, è riconosciuto come il fondatore del ramo Sōtō della tradizione Zen, la quale radicalizza l’indipendenza del buddhismo dalle scritture presentandosi come un insegnamento che «punta diretta-mente al cuore dell’uomo per vedere la natura essenziale e cogliere la natura di Buddha», secondo i versi di Bodhidharma (V-VI secolo), primo patriarca del Chan. All’interno di siffatto orizzonte spirituale, la scuola Sōtō Shū inaugurata da Dōgen pone al centro l’unità di pratica e risveglio. Questa unità richiama l’importanza decisiva che riveste la pratica della scrittura, e dunque l’uso della lingua. Un’importanza testimoniata dall’ampia mole di scritti che ha lasciato in eredità. Questo aspetto, insieme a molti altri, inquadra la sua figura di riformista religioso all’interno dello Zen, per il quale l’illuminazione è una folgorazione improvvisa che non abbisogna della mediazione linguistica e che si costituisce come il fine della pratica meditativa e non come la sostanza di ogni suo momento.

Dōgen, dunque, si distingue degli altri riformatori buddhisti dell’epoca Kamakura per la capacità straordinaria di unire la sensibilità religiosa a un accentuato vigore teoretico. Nel monaco, filosofo e poeta giapponese si invera uno dei principi vitali della tradizione buddhista: l’unità inscindibile di teoria e prassi. La ragione è una ragione esistenziale, capace, cioè, di incarnarsi, di giungere a una verità che non si scolpisce soltanto nel cielo intelligibile dei concetti, ma che si incarna, facendosi respiro, postura, corpo vivo.

Secondo la tradizione, Dōgen, rimasto orfano, si recò all’età di dodici anni in un monastero Tendai situato sul monte Hiei. Deluso dalla dottrina Tendai, egli incontrò Myōzen, il maestro che diede nuovo corso alla sua vita. Myōzen era uno dei principali esponenti della scuola Zen importata dalla Cina secondo il lignaggio Linji (in giapponese Rinzai) dal suo maestro Myōan Eisai. Dōgen, sotto l’ala protettiva del maestro Myōzen, nel 1223 si recò in Cina. Qui, dopo la morte del maestro, divenne allievo di Rujing, esponente della trazione Caodong (in giapponese Sōtō). Sotto la guida di Rujing, Dōgen riuscì a illuminarsi, realizzando l’abbandono di corpo-mente (shinjin). Rujing confermò l’autenticità del risveglio occorso a Dōgen, il quale, appresa la notizia, fece ritorno in Giappone nel 1227.

Il pensiero di Dōgen si condensa nella sua opera fondamentale: lo Shōbōgenzō (letteralmente “il tesoro dell’occhio del vero Dharma”). Nella versione più lunga è composta da 95 capitoli di lunghezza variabile. Presumibilmente, fu composta dallo stesso Dōgen o trascritta dai suoi discepoli tra il 1251 e il 1253. L’opera si segnala per il suo grande spessore speculativo, al punto che i filosofi della scuola di Kyōto – Nishitani Keiji, Tanabe Hajime, Ueda Shizuteru – hanno visto nel monaco il capostipite della moderna filosofia giapponese. In questa prospettiva, come nota Kasulis, bisogna dire che lo Shōbōgenzō è il primo testo filosofico scritto in giapponese. L’abbandono della lingua cinese, la lingua del Chan da cui lo Zen discende, in favore di quella nipponica, è un elemento di grande rilevanza su cui vale la pena soffermarsi. Infatti, una delle peculiarità del pensiero di Dōgen, che lo rendono un autore estremamente attuale, nonostante la distanza geografica e temporale, è l’utilizzo creativo della lingua giapponese al fine di creare nuovi concetti e, dunque, nuove esperienze filosofiche. L’uso creativo della lingua, la propensione al neologismo, l’arditezza concettuale, unita all’impronta poetica, sono questi i tratti distintivi che rendono Dōgen un pensatore di un’attualità disarmante.

2.1. Genjōkōan. La realtà senza io

Il monaco giapponese nel Genjō kōan, il primo capitolo dello Shōbōgenzō, un testo piuttosto breve destinato al laico Yokoshu del Kyushu, afferma che «Apprendere il buddhismo è apprendere se stessi; apprendere se stessi è dimenticare se stessi; dimenticare se stessi è essere risvegliati alla realtà». Il buddhismo non è una dottrina alla quale conformarsi esteriormente, ma un’esperienza di risveglio (satori 悟) alla nudità dell’essere, depurato dalle incrostazioni soggettive di un io sostanziale, il quale, ergendosi come soggetto, fa del reale un oggetto determinato fra gli altri. Apprendere sé stessi, allora, è apprendere l’illusorietà della propria centralità, cogliendo il sé nell’abbandono dell’io, ossia scorgendolo come vuoto, intimamente attraversato da una trama di relazioni. Lo stesso Eckhart, in straordinaria consonanza col maestro giapponese, sostiene che per cominciare da se stessi bisogna abbandonare se stessi, poiché chi abbandona se stesso «abbandona tutte le cose». Per conoscere l’unità di anima e Dio, il Grund di sé, del reale, occorre deporre la propria coscienza egoica. Ugualmente, Dōgen esorta il lettore ad elevarsi alla comprensione della radicale insonstanzialità dell’ego, affinché emerga l’unità di vuoto e forma. A partire dall’io, «esistono “illusione/risveglio”, la pratica, la nascita, la morte, tutti i Buddha e le persone comuni». Ovvero, finché ci si attacca alla propria coscienza egoica, la realtà sarà sempre filtrata dalla lente deformante del dualismo. Infatti, non bisogna assolutamente confondere il dito che indica la luna (le categorie che danno forma alla nostra esperienza e orientamento al nostro agire) con la luna stessa (il reale concreto così com’è). Anche illusione e risveglio sono soltanto nomi, indici, incapaci di esprimere l’ineffabilità dell’essere. Ma quando si comprende l’inconsistenza dell’io, allora i fenomeni appaiono così come sono e i dualismi fra illusione e risveglio, nascita e morte, Buddha e persone ordinarie, scompaiono. Questi termini appaiono irrelati a una mente offuscata dall’attaccamento a se stessa. Quando la mente invece è quieta, priva di attaccamento, distaccata, allora si comprende che non esiste un’illusione separata, contrapposta alla realtà del risveglio, ma la realtà, in sé, è la compresenza di illusione e risveglioillusione/risveglio.

L’intrinseca relazionalità del reale, la sua non-dualità, si comprende bene soffermandosi sul passo successivo: «Tuttavia, pur essendo così come ho detto sopra, i fiori cadono proprio quando per affetto vorremmo trattenerli e le erbacce crescono proprio quando ci danno fastidio». Ossia, nonostante la verità si situi oltre ogni dualismo, consista nel trascendimento radicale di ogni appiglio della ragione, non possiamo fare a meno della nostra umanità. Accettare questa impossibilità (l’impossibilità di un distacco totale) è autentico distacco; abbandonarsi alla compresenza di sapienza e ignoranza, di distacco e attaccamento, significa oltrepassare il finito permanendo nel finito stesso. Vivere un satori, come suggerisce il verbo da cui il termine discende (satoru, che vuol dire comprendere molto profondamente) significa allora risvegliarsi alla profondità, mai pienamente attingibile dal nostro raziocinio, del reale. Tale risveglio, però, non è la rivelazione di un altro mondo, ma di un mondo altro. Esso è possibile a ogni istante perché è questo stesso istante colto nella sua assoluta gratuità: è l’infondatezza dell’essere depurata dal velo caliginoso dell’egoità. Illuminarsi significa lasciar-cadere (dasturaku) il corpo-mente (shinjin), l’io colto nell’unità dei suoi componenti fondamentali. Ma il lasciar-cadere (dasturaku), al pari del distacco eckhartiano, non è una prestazione della volontà che, caparbiamente, si oppone a sé stessa. Rifiutare l’io credendo ancora alla sua auto-sussistenza è solo un modo per rafforzarlo, poiché il rifiuto è ancora atto dell’io. Il lasciar-cadere è un’azione del tutto spontanea che cade al di là dell’affermazione e della negazione, così come il dimenticare non è un atto di negazione dell’io: se lo fosse, non sarebbe dimenticare, in quanto subentrerebbe la coscienza di ciò che si dimentica. Infatti, «quando i Buddha sono davvero dei Buddha, non si rendono necessariamente conto di esserlo».

Il trascendimento radicale è trascendimento dello stesso trascendere. Il lasciar-cadere è lo scioglimento di ogni legame, l’incontro con la realtà dell’illuminazione, la quale non è aldiquà il mondo raccolto nelle maglie del nostro impianto categoriale né un supposto aldilà il che renderebbe l’illuminazione ancora un ente (un termine di attaccamento), seppur un ente ultramondano ma è il limite, ossia l’alterità del reale nei confronti del niente. Questo mistero che ammanta ogni cosa, e che riguarda la sporgenza stupefacente del reale senza la presa appropriativa dell’io, nella tradizione buddhista prende il nome di vacuità (śūnyatā in sanscrito, kū in giapponese).Anche vacuità, come insegna Nāgārjuna, è solo un nome, che non bisogna ipostatizzare, per designare un’esperienza che trascende ogni nome. L’esperienza della vacuità, infatti, non va confusa con l’esperienza, propria del nichilismo, del nihil negativum. La vacuità non indica il niente di senso e di valore, ma l’intrinseca relazionalità di ogni fenomeno, il fatto che «ogni dharma è privo di sé». Il vuoto, dunque, non è la negazione assoluta dell’essere, ma il vuoto d’essenza di ogni fenomeno fisico e mentale. Alla luce del vuoto, anche il dolore perde la sua assolutezza. Questa sapienza che libera gli occhi dello spirito dall’ottundimento generato dall’attaccamento alla permanenza dell’io, per Dōgen è ciò che, ad ogni passo, sostanzia l’esercizio della meditazione e della parola filosofico-poetica. Uno degli apporti più originali che il maestro giapponese ha fornito alla tradizione buddhista concerne difatti l’idea, sulla quale Uchiyama si sofferma lungamente nel suo saggio, di una identità assoluta tra pratica – meditazione seduta, scrittura etc. – e illuminazione. Per poter esprimere questo intreccio indissolubile, Dōgen è costretto a utilizzare un neologismo: shushō ichinyo. Shu (修) significa pratica e shō (証) significa realizzazione, risveglio etc. Ichinyo (如), invece, rimanda ai concetti di unità e uguaglianza. Il maestro giapponese sfrutta le possibilità insite nella propria lingua madre per forgiare un concetto, espresso in un composto linguistico, che suggerisca la continuità radicale fra la lo shikantaza lo star seduti immobili, in silenzio, svuotando se stessi di ogni finalità esteriore e l’illuminazione. Le lingue occidentali, per rendere l’unità originaria che il composto giapponese indica, debbono ricorrere artificiosamente all’utilizzo della barra obliqua. In questa prospettiva, si può dire che la lingua-pensiero giapponese, come la pratica meditativa, è espressione della realtà dell’illuminazione.

Fare zazen, recitare un mantra, o leggere un sutra, non sono azioni strumentali in vista di un fine, l’illuminazione, ma sono, in ogni istante del loro dispiegarsi, illuminazione nella sua pienezza. Meditazione e risveglio appaiono come termini irrelati solo a partire dall’io: è l’io che separa il percorso che mena alla verità dalla verità stessa. La verità non è meta, risultato da possedere una volta per tutte, ma via, dō (). Fare zazen, come afferma Uchiyama che commenta Dōgen, significa sedersi al cospetto della profondità della vita. Sentire e sapere, col proprio corpo-mente, in ogni respiro e in ogni pensiero il mistero dell’essere. Pratica/illuminazione, infatti, è autentica illuminazione quando accade spontaneamente, sgorgando dal cuore stesso della vita.

2.2 Fukan zazengi. Pensare il nonpensiero

Il superamento del pensiero oggettivo non può ridursi alla mera negazione del pensare e dunque del linguaggio, ma va inteso come un ampliamento delle possibilità insite nel pensiero e nella parola. Questa tensione tra pensiero e ciò che lo oltrepassa è bene espressa da Dōgen nel Fukan zazengi, un’opera nella quale il maestro giapponese condensai principi fondamentali del suo insegnamento: «Fate pensiero il non-pensiero. Il non-pensiero! Come pensarlo? Con il senza-pensiero». Dōgen esorta il lettore a superare il dualismo di pensiero (shiryō ) e di non-pensiero (fushiryō 不思). Il pensiero (shiryō ) è il pensiero rivolto agli enti, alla loro organizzazione categoriale: è un pensiero che afferma o nega, guidato dal principio di non-contraddizione. Il non-pensiero (fushiryō ), linguisticamente ottenuto dall’utilizzo del prefisso fu , indica la negazione di una condizione mentale, l’acquietamento del turbinio che generalmente agita la coscienza. Il senza-pensiero (hishiryō ) è quel pensiero che ha trasceso la dualità di affermazione e negazione. Il prefisso hi , infatti, non indica la negazione di uno stato mentale, ma ciò che oltrepassa interamente il dominio della speculazione razionale, trascendendo sia il pensiero logico-discorsivo (shiryō ), il quale rimane avvinghiato ai concetti che produce e con i quali organizza l’esperienza del mondo, sia la quiete mentale del non-pensiero. Il senza-pensiero (hishiryō 非思 ) è il pensiero che non ha oggetto, che ha dismesso la sua volontà appropriativa, riconoscendo la trascendenza di una verità che non può circoscrivere, ma dalla quale è circoscritto, perché da sempre la sua radice originaria. Risvegliarsi significa risalire al di qua della scissione fra io e mondo, in cui ogni cosa appare nella sua semplice presenzialità. Il senza-pensiero (hishiryō ) è un pensiero kenotico, che scopre la sua ricchezza nella debolezza del suo dire; un pensiero che, ustionato dalla verità, si fa estatico, comprendendo che c’è essere non perché c’è pensiero, ma c’è pensiero perché c’è essere. In questo senso, si può dire che il pensare si risolve in un non-poter-pensare che è più che pensare, perché non ha più niente da afferrare, ma si ritrova fuori di sé, assorbito totalmente dalla realtà dell’illuminazione, oltre la contrapposizione tra possibile e necessario, tra bene e male. Tali discriminazioni, infatti, si ritrovano inglobate dalla vacuità che pretenderebbero di catturare logicamente. Tale pensiero, dunque, è un pensiero privo di attaccamento, che, rinunciando alla sua naturale inclinazione prensile, si fa luogo in cui il reale si dice, si mostra, venendo alla luce.

Fra il reale così com’è, privo del filtro egoico che lo deforma, e il linguaggio v’è un intreccio indissolubile. Nel Il sūtra di montagne e acque chiarisce in modo icastico la natura di questa relazione non-duale: «Che peccato! Essi non sanno che il pensiero è parole e frasi, e non sanno neppure che parole e frasi liberano dal pensiero». Ne è viva testimonianza il sinogramma , il quale vuol dire sia “via, illuminazione” sia “espressione verbale”. La combinazione dei due caratteri non solo suggerisce l’idea, che abbiamo visto costituire il perno teorico-pratico della spiritualità di Dōgen, secondo la quale l’illuminazione non è qualcosa che si afferra alla fine di un cammino di ascesi, ma è questo cammino nel suo essere transito; altresì indica il rapporto che intreccia il linguaggio, la parola, alla vita. La vita non è risolvibile nella mediazione linguistico-concettuale. Al contempo, non è costretta a restare muta, nell’immediatezza spontanea del suo perpetuo donarsi. La vita è il desiderio di incarnarsi in una parola e la parola è nostalgia di quel fondo vitale da cui essa nasce. La Via «pervade ogni cosa»: è ogni cosa. Praticare zazen (questo è il cuore pulsante del Fukan zazengi) è essere, ad ogni momento, incarnazione vivente della Via.

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