Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, insegna Filosofia teoretica, Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. Ha anche insegnato Epistemologia, Sociologia della cultura e Storia dell’estetica. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Altri temi di cui si occupa sono: la mente come dispositivo semantico; la vitalità del pensiero classico greco e romano; le strutture ontologiche delle intelligenze artificiali; la questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Ždanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). Il suo sito web è www.biuso.eu

Recensione a: J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria (The Origins of Totalitarian Democracy, Secker & Warburg, London 1952), tr. it. M.L. Izzo Agnetti, il Mulino, Bologna 1967, pp. 452.

Le concezioni politiche e le condizioni economiche – le idee dominanti e le classi dominanti – nascono e si evolvono insieme. È ingenuo, oltre che errato, far dipendere le mentalità dalla struttura economica come anche il contrario, e cioè subordinare l’economia alla cultura. È il loro mutuo intreccio, insieme allo scambio con numerosi altri fattori, a determinare gli eventi e la loro complessità.

Una scienza delle società umane è quindi possibile, anche se difficile, non perché esista un fattore unico e primario che sia capace di spiegare tutto ma perché l’intrico delle cause è (anche, non sempre) una rete razionale e potenzialmente comprensibile. Anche per questo è agevole seguire la genesi della democrazia totalitaria dalle sue radici più remote fino al presente. Un punto d’avvio c’è ed è sempre rimasto decisivo nella pur variegata vicenda di tale idea. Questa origine si trova nel pensiero politico e pedagogico di Rousseau e nel progetto politico giacobino. Scrive Jacob L. Talmon: «La dittatura giacobina che mirava all’inaugurazione di un regno di virtù, e il progetto babouvista di una società comunista egualitaria […] furono le prime due versioni del messianismo politico moderno» (pp. 341-342).

A fare da fondamento alla politica degli ultimi due secoli sono un’antropologia e una teoria educativa interamente rinnovate e (rispetto al passato) capovolte. Dalla ὕβρις greca al peccato cristiano, dai miti orientali al fatum latino, la realtà della vita umana era sempre stata vista come intrisa di limite, intessuta di dolore, destinata in pochi a una faticosa felicità e nei molti a una pena senza senso, lenita dalle periodiche pause della festa e dalla speranza escatologica in un incerto, enigmatico altrove. Nel Settecento la svolta. Che non furono la disincantata riflessione di Voltaire o il progetto tecnologico degli enciclopedisti ma la contraddittoria, sentimentale, ottimistica antropologia di Jean-Jacques Rousseau. Con l’Emilio e con il Contratto sociale la natura umana diventa una sostanza plasmabile in tutte le forme, indirizzabile a qualunque obiettivo, docile alle riforme più ardite e pronta quindi alla felicità degli dèi. Il doloroso limite che ci costituisce fu da Rousseau ricondotto alla storia; la finitudine di ciò che è biologico – e quindi costituito di un attrito tanto inevitabile quanto necessario – fu definita una colpa sociale, un mero errore politico che i secoli ma non la natura avevano trasformato in un formidabile macigno opposto alla pienezza delle speranze umane.

L’educazione divenne quindi lo strumento onnipotente che avrebbe dovuto sradicare gli istinti di rapina, gli impulsi aggressivi, le tendenze competitive, per far emergere al loro posto, finalmente, l’innocente bontà della natura umana. Un’antropologia e una teoria dell’educazione alle quali verrebbe da porre la domanda che nel recente film di David Fincher il protagonista a un certo punto pone: «A chi crede nella naturale bontà degli uomini vorrei porre una sola domanda: ‘ma di preciso su che cosa ti basi nel fare questa affermazione?’» (The Killer, USA 2023).

Per tale antropologia, in definitiva, l’umano è una conseguenza delle leggi, modificate le quali cambierà ciò che fino ad ora è stato accettato come elemento naturale della specie. Mably era convinto che «niente è impossibile per un legislatore, egli tiene, per così dire, il nostro cuore e il nostro spirito nelle sue mani; può fare degli uomini nuovi» (pp. 372-373). È già tutta qui la pedagogia comportamentista, la riduzione degli umani a macchine smontabili e rimontabili a piacere, dei quali si può fare tutto ciò che si vuole, se vengono adeguatamente educati.

Annullando la separazione della politica dalla morale, ignorando la realistica e quindi disincantata antropologia di Machiavelli e di tanti altri, Rousseau e i giacobini ridussero la complessità del potere a una questione di pura virtù individuale. Gli elementi oggettivi dell’economia vennero ritenuti secondari, gli impulsi antisociali furono giudicati del tutto contingenti e quindi certamente cancellabili: «Se la natura ha creato l’uomo buono, è alla natura che bisogna ricondurlo. Se le istituzioni sociali hanno depravato l’uomo, sono le istituzioni sociali che devono essere riformate» (Robespierre, cit. da Talmon a p. 411).

L’umanità può essere formata di nuovo, essa rinascerà nella cristallina purezza della sua natura. Permeata di morale la politica diventa pertanto l’elemento centrale ed esclusivo della vita. Superando d’un balzo la modernità per tornare a un’identità arcaica, la politica inizia a trasformarsi in religione. L’appartenenza a un partito sostituisce quella alle chiese, conservandone però tutta la carica fideistica, l’anelito alla salvezza. L’immancabile società futura, nella quale l’eguaglianza e la libertà trionferanno, prende il posto della beatitudine dei santi. Si afferma la convinzione di «un progresso continuo verso una soluzione del dramma storico» (341).

Come ha dimostrato anche George Mosse nel suo celebre studio La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815–1933) (trad. di L. De Felice, il Mulino, Bologna 1975), fu la sinistra giacobina a inaugurare un nuovo stile della politica fatto di adesione attiva e incessante delle folle e di ciascuno alla discussione degli affari pubblici, alle imponenti manifestazioni politiche di massa. I passivi, i non entusiasti, gli indifferenti diventano per ciò stesso prima sospetti e poi traditori. Si esiste solo nello stato e come cittadini; è l’adesione al contratto sociale a produrre l’umanità che prima e fuori della dimensione politica non ha alcuno statuto né legittimità. Come tutti i regimi totalitari che da esso impararono, «il giacobinismo non richiedeva l’ubbidienza, esigeva una comunione viva e attiva con il fine assoluto» (p. 116). La volonté générale non è una maggioranza e neppure l’unanimità, che è ancora un concetto laico per quanto autoritario. Essa è un’idea mistica, perfetta per definizione (come il Dio di Anselmo), immanente alla volontà e al popolo. Per il semplice fatto della sua esistenza, il sovrano di Rousseau è sempre quello che dovrebbe essere. Se necessario, la propaganda incessante e l’aperta intimidazione faranno della volontà generale la volontà di tutti.

Nessuna tirannide antica e nessuna monarchia per diritto divino erano mai riuscite a giungere al cuore dell’autorità, a ottenere l’appassionato consenso alla servitù da parte di chi obbedisce. Alla violenza aperta, e quindi intrinsecamente debole, si sostituisce la più nascosta forma di condizionamento: il conformismo verso la maggioranza – reale o presunta –, l’adesione al pensiero di massa. Nazionalsocialismo, stalinismo, mediocrazia e società dello spettacolo sono impliciti – con tutti i loro sviluppi – nell’intuizione di Tocqueville (che giustamente fa da epigrafe al libro di Talmon):

Je pense donc que l’espèce d’oppresion dont les peuples démocratique sont menacés ne ressemblera à rien de ce qui l’a précédée dans le monde; nos contemporaines ne sauraient en trouver l’image dans leurs souvenirs. Je cherche en vain moi-même une expression qui reproduise exactement l’idée que je m’en forme et la renferme; les anciens mots de despotisme et de tyrannie ne conviennent point. La chose est nouvelle; il faut donc tâcher de la définir, puisque je ne peux la nommer (A. De Tocqueville, De la democratie en Amerique, parte 4, cap. VI, Oeuvres complètes, Paris 1864, vol. VII, p. 519).

La schiavitù viene identificata con la sottomissione a un singolo individuo sovrano mentre essere servi dello Stato non annulla la libertà, la quale anzi solo in esso, nell’identica dipendenza dall’ente collettivo che è il popolo, acquista il suo vero significato e obiettivo: l’instaurazione della più rigorosa eguaglianza. La libertà per costoro non è infatti l’assenza di coercizione, la possibilità di scegliere cosa leggere, credere, dire, pensare ma è un insieme di valori eterni e naturali ai quali sottomettersi per così tornare alle vere radici della propria non corrotta umanità. Non la democrazia intesa empiricamente come dialogo, rispetto delle differenze, continuo, faticoso e non garantito miglioramento per prove ed errori, ma la democrazia concepita come necessaria condivisione di una verità salvifica, di valori comuni che nella massa e per la massa vivono.

Senza avanguardie rivoluzionarie non esiste democrazia totalitaria, né giacobinismo, né comunismo. In entrambi i casi, inoltre, è inevitabile una dolorosa fase di transizione che elimini gli ultimi brandelli di corruzione che resistono alla virtù, gli ultimi residui borghesi che resistono alla collettivizzazione. Il Terrore e la dittatura del proletariato sono costitutivi del progetto totalitario. Con essi inizia e in essi anche si risolve. Quella che tali progetti presentano come una semplice fase non potrà infatti mai essere superata perché ciò equivarrebbe alla instaurazione di un meccanismo sociale senza opposizione, di una assoluta e completa assenza di conflitti che soltanto i cadaveri possiedono. L’Utopia realizzata è il cimitero. E nessuno finora è riuscito – nonostante le migliori intenzioni e i più tenaci strumenti – a trasformare la infinitamente variegata molteplicità dell’umano nell’uniformità di un’immensa tomba. «La società e la vita umane non possono mai raggiungere uno stato di riposo» (p. 349) e quindi «la stessa idea di un sistema autonomo dal quale sia stato eliminato ogni male e ogni infelicità è totalitaria» (p. 52). Le comunità umane sono sempre eraclitee.

A resistere all’assoluto conformarsi è stato spesso anche un gruppo di frequente vituperato: gli intellettuali. Questi inguaribili individualisti aristocratici hanno certo molte colpe ma la prima di esse è che qualche volta hanno tradito inchinandosi ai profeti della felicità, oltre che – come accade nel presente – ai padroni dell’informazione.

Gli intellettuali sono invece rimasti fedeli al loro ruolo quando hanno dichiarato la nudità del re e hanno chiamato con il suo nome la barbarie. Ecco quindi che Robespierre attacca l’empietà degli enciclopedisti in nome della fede di Rousseau; Gracco Babeuf definisce un crimine «“la follia micidiale delle distinzioni di valore”, che esige una ricompensa più grande per il talento» (Maurice Dommanget, Pages choisies de Babeuf, Paris, 1935, p. 260). Il disprezzo verso l’intelligenza, verso la tenacia, verso l’impegno e le eccellenze raggiunte, è ciò che pedagogie e didatticismi contemporanei stanno trasformando in un principio educativo e nella pratica scolastica quotidiana a favore dei “disagiati”, dei “fragili”, degli “esclusi” e di tutto l’armamentario del pietismo retorico che si crede progressista.

Si tratta di fatto e semplicemente di un attacco verso l’intelligenza, di un attacco alle libertà che dall’intelligenza scaturiscono. La diversa distribuzione naturale delle intelligenze rappresenta infatti la più costante e formidabile smentita dell’eguaglianza degli umani.

Contro l’ennesimo apparire nella contemporaneità dell’illusione di un’eguaglianza assoluta tra gli umani, la saggezza di Arthur Schopenhauer ribadisce la verità semplice, drammatica ed evidente

secondo cui tutto dipende da come uno è uscito dalle mani della natura […] La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata su caste […] e anche se alla plebe e alla canaglia, che non può tollerare nulla al di sopra di sé, riuscisse di abbattere tutte le altre aristocrazie, essa non potrà far nulla contro di questa (Parerga e Paralipomena, tomo I, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1981, pp. 275-276).

Importante corollario pedagogico che Schopenhauer ne trae è l’altra semplice verità per la quale:

il nostro valore intellettuale, come quello morale, non ci giunge quindi dall’esterno, ma sgorga dalla profondità del nostro proprio essere e nessuna arte educativa pestalozziana può fare di un babbeo nato un uomo pensante. Ciò non avverrà mai: egli è nato babbeo e deve morire babbeo (ivi, p. 647).

Parole dure e nel presente di fatto quasi inascoltabili. Ma parole che mantengono la loro verità e la manterranno ancora e nuovamente quando le ultime propaggini del progetto antropologico e pedagogico roussoviano e behaviorista avranno mostrato sino in fondo il loro errore e saranno, è auspicabile, oltrepassate.

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