Claudio Capo (1995) è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXIX ciclo) presso l’Università “Guglielmo Marconi” di Roma e laureando in Scienze Filosofiche presso l’Università Roma Tre. Si è laureato nel 2022 in Antropologia culturale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Le sue ricerche si focalizzano sul socialismo rivoluzionario italiano della prima metà del Novecento. I suoi interessi principali concernono l’analisi storico-filosofica delle forme spirituali, culturali e sociali dalla modernità alla contemporaneità. Ha pubblicato diversi contributi presso il mensile di attualità metapolitiche «Diorama Letterario».
Recensione a
A. Craven, Storia populista degli USA. Da Jefferson a Bryan
Oaks Editrice, Milano 2021, pp. 184, € 18.00.
Dare una definizione di democrazia che sia esaustiva, e non contraddittoria, non è mai cosa semplice. Nel corso della storia molti modelli di governo hanno arrogato a sé l’esclusiva definitoria. Tuttavia, quando si parla di democrazia occidentale, appare chiaro il volto Mammona. Nonostante il sistema democratico moderno sia improntato sulla falsariga statunitense, è sorprendente come gli americani non siano mai stati in grado di dare una definizione sufficiente di “democrazia”. Questa, infatti, negli Stati Uniti è sentita come un tratto del tutto naturale del popolo americano e sfugge a qualsiasi tipo di problematizzazione. Storia populista degli USA di Avery Craven non si accontenta del dato di fatto e vuole ripercorrere la genesi e lo sviluppo della democrazia a stelle e strisce.
I sistemi di pensiero di stampo liberale e democratico dei vari Locke, Mill e Rousseau trovarono il loro sbocco ideologico nella nascente democrazia americana. Individualismo e liberalismo, capitalismo e progresso, predestinazione e opportunismo rappresentano le coppie di riferimento indispensabili per orientarsi con maestria nell’orizzonte assiologico yankee. La cultura di un’Europa in dissesto politico e filosofico, esportandosi nel Nuovo Mondo, determina la nascita di quell’Occidente dal nomos marittimo (Cfr. C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002) tanto caro a laici e progressisti.
Il populismo, secondo Craven mai veramente ben organizzato, tentò di porre un baluardo contro le derive plutocratiche che si generarono dall’inasprimento delle coppie fondanti. Tuttavia, come vedremo di seguito, non fece altro che consolidare il modello liberale dando un’esile illusione circa la possibilità di un suo riposizionamento etico. Un’inossidabile fede nei diritti “naturali” dell’uomo, legandosi ad un cinico atteggiamento predatorio, sviluppò le energie necessarie per mettere in moto la ruota degli eventi che portarono alla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Questa venne a rappresentare la stella polare degli illuministi dell’Ottocento. La ricerca incondizionata di un progressivo miglioramento delle condizioni di vita si cristallizzò nelle forme di esistenza che ancora oggi possiamo ravvisare nell’American way of life. Il sintomo prodromico dell’Occidente iniziava a manifestarsi a piè veloce.
L’idea di una legge morale universale incarnata nei principi della Costituzione, l’opinione che Dio s’interessasse in maniera particolare all’ordine sociale americano e la dottrina della predestinazione ereditata dal calvinismo inaugurarono una nuova fase della Civilisation illuminista. Dapprima la frontiera, poi la nazione e il continente, un giorno tutto il mondo: apparvero chiare fin da subito le mire espansionistiche del sistema americano. Dietro il pretesto di porre fine a tutte le grandi narrazioni della storia, i pensatori liberali nascondevano il più grande tributo all’ideologia: l’omologazione. Un cittadino che non obbedisse a tali principi non era un “buon americano”. Un che non si ispirasse a tali imperativi categorici doveva essere rieducato al vangelo del progresso e della democrazia.
Tuttavia, nel corso del tempo, si vennero a formare delle classi sociali sempre più esclusive che crearono una serie di condizioni atte a favorire la concentrazione del capitale economico e politico nelle mani di pochi individui. A questo processo di accumulo delle ricchezze si accompagnò, inevitabilmente, un progressivo aumento della povertà e dello sfruttamento. La storia degli Stati Uniti è segnata ancora prima di svilupparsi appieno e, ancora oggi, nonostante tutto, il paradigma non solo tiene botta, ma accresce in misura esponenziale. Un troppo accentuato individualismo, scrive Craven, poteva portare – e portò – allo sfruttamento sia dell’uomo che delle ricchezze e facilitare l’affermazione dei tiranni, il progresso venne troppo spesso confuso con cambiamento di qualsiasi genere e presto divenne una scusa per giustificare sfruttamento e ingiustizie.
I rapporti di forza che sostennero la democrazia americana furono regolati esclusivamente da una questione di utile e profitto. La formazione di una spietata “aristocrazia del denaro” in grado di guidare le scelte politiche dei governi fu dovuta al consolidamento delle dinamiche endogene. Le logiche di un’industrializzazione sempre più spietata e la crescente impersonalità del sistema mercantile trovarono nella democrazia un valido alleato per drenare le ricchezze della nazione verso un numero sempre minore di mani. Tuttavia, il processo di “plutocratizzazione” della società non si sviluppò senza contrasti. In difesa dei contadini e degli operai si levò la voce di Thomas Jefferson il quale affermava che solo un “ritorno ai sani principi” (sic!) dei primi colonizzatori poteva salvare la democrazia americana dalla distruzione che incombeva su di essa per la troppa bramosia di ricchezza e potere (cfr. p. 26). Fortemente segnato dal pensiero illuminista, fautore di uno Stato laico e liberale, instancabile sostenitore dell’egualitarismo, Jefferson fece sua la convinzione che lo scopo della la vita del singolo fosse la ricerca della felicità materiale, quello dello Stato, invece, di assicurare e accrescere le opportunità dell’individuo. Tradotto in termini pratici, questo tipo di felicità si misurava in alberi tagliati, acri di terra arata, selvaggina uccisa e nella quantità di cose che ciascuno riusciva ad accumulare.
In altre parole, l’uomo misurava la propria felicità in proporzione al numero di ricchezze che riusciva a raccogliere. La filosofia, le scienze, l’arte e la società erano tutte indirizzate verso il consolidamento di tale obiettivo. Jefferson, in maniera molto controversa, tentava di curare i mali che affliggevano una società corrotta con le stesse alchimie che ne avevano permesso lo sviluppo. La democrazia americana non fu un baluardo, ma un acceleratore del culto del successo la cui mancata realizzazione era subìta come colpa ed espiata con il biasimo altrui. La società democratica occidentale rappresentò, e rappresenta tutt’ora, il catalizzatore di egoismo e tracotanza.
L’americano medio era incline a misurare tutti i progressi in termini di sviluppi industriali ed economici. Quella del capitalista industriale era l’impareggiabile figura del self made man che aveva realizzato il sogno americano. Pari a questa esaltazione per il capitalista vi era il disprezzo per tutti coloro che gli erano indifferenti. L’uomo che non si uniformava alla regola era un anello debole della catena, la cui rottura danneggiava tutti. Ne risultò che gli uomini s’incamminarono verso un sistema di vita comune, assumendo una certa uniformità riguardo alle capacità, alle abitudini e ai punti di vista.
Contro tutto questo il movimento populista rappresentò una chimera, un’illusione che non seppe apportare nessun cambiamento significativo di rotta. La fede genuina nella possibilità di sterzare la democrazia in maniera tale da favorire una maggiore giustizia sociale impattava bruscamente contro lo stampo culturale che i padri fondatori impressero alla nazione. Craven conclude affermando che, prima di difendere la democrazia americana, si sarebbe dovuta definire contro gli uomini potenti che non avevano nessun desiderio né per la libertà né per l’eguaglianza o per qualsiasi altra cosa non fosse il raggiungimento dei propri fini egoistici (cfr. p. 162). Purtroppo non possiamo seguire Craven lungo questo sentiero, la definizione della democrazia statunitense trova eco nella sua storia, lungi perciò da una sua difesa. Per gli americani rinunciare alle logiche mercantili equivarrebbe rinnegare sé stessi. Il sistema liberal-capitalista è indissociabile dagli Stati Uniti. Se con la distruzione di Cartagine il mondo antico beneficiò dell’ascesa di Roma pur mantenendo differenziate le identità, immaginiamo i benefici che i popoli di tutti il mondo potrebbero trarre da un corrispettivo contemporaneo. Delenda America?