Luca Baldassarre (1989) è docente di Filosofia e Storia nei licei. Laureato in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi su Theodor W. Adorno, ha successivamente svolto attività di ricerca sulla Teoria critica della Scuola di Francoforte, con particolare interesse verso le varie declinazioni della critica dell’industria culturale. Fra le sue pubblicazioni: La Scuola di Francoforte. Una introduzione (Editrice Clinamen, Firenze 20213); Gli scrittori neri della borghesia. Theodor Adorno e il finale di partita (Clinamen, 2016); Gli uomini del cortocircuito. Per una critica dell’infantilismo ipermoderno (Clinamen, 2017).

Poche settimane fa, il Garante della Privacy ha provvisoriamente fermato la nuova epidemia che stava diffondendosi velocissimamente: la smania di smanettare con ChatGPT. Cosa indichi questa sigla è ormai cosa nota a tutti: è un chatbot, vale a dire un software progettato al fine di poter svolgere una conversazione con un essere umano, un modello di linguaggio, basato su tecniche di apprendimento automatico, che rende possibile l’interazione linguistica fra l’uomo e la macchina. Detto altrimenti, questo software consente a tutti noi di conversare con un computer, la cui complessità è tale che esso riesce a simulare, con potenzialità che diverranno via via crescenti, quella conversazione, discussione, dibattito, litigio o scambio amichevole che siamo abituati a sostenere coi nostri amici o coi nostri colleghi, a casa o sul posto di lavoro.

I motivi che hanno spinto l’Autorità ad avviare un’azione di sospensione contro OpenAi, l’azienda che ha sviluppato, appunto, ChatGPT, sono, com’è ovvio, motivi di privacy, ovvero il mancato rispetto della normativa europea sulla protezione dei dati personali: difficoltà – queste – che proprio in questi giorni sono state superate dall’azienda, eseguendo le richieste prescritte dal Garante, nel tentativo di mettere la toppa a dinamiche che ormai, nell’epoca della ipertecnologizzazione, caratterizzano la trasformazione del privato da luogo di privatezza in luogo di privazione.

Lo sviluppo e la continua crescita delle potenzialità di questa nuova tecnologia comportano però interrogativi di altra natura: la capacità sconfinata di memorizzazione e di calcolo della macchina – che, con quel piglio a metà fra incoscienza e stupidità, ci ostiniamo a chiamare intelligenza artificiale, allo stesso modo con cui iniziammo a qualificare come intelligenti le bombe – ha già raggiunto traguardi tali che essa può rispondere con facilità alle richieste di produrre testi scritti di elevata complessità e, perfino, di simulare (e dissimulare) un’ampia gamma di emozioni e di atteggiamenti apparentemente umani (sotto questo rispetto, rinvio al profetico Her, film diretto da Spike Jonze ormai dieci anni fa).

La questione si pone con particolare urgenza in ambito educativo, tanto che altrove sono stati presi provvedimenti in merito. È quanto è avvenuto, ad esempio, a New York, dove il dipartimento dell’istruzione ha vietato il chatbot nelle scuole pubbliche della città: la possibilità di produrre compiti scritti delegandone le funzioni alla macchina è – quale scoperta! – deleterio sia a fini formativi, sia nello sviluppo di conoscenze. In sostanza, gli studenti disimparano a studiare e a produrre conoscenza, relegandosi nell’angolo passivo di dipendenti dall’efficienza del calcolatore automatico.

Se perfino nella capitale finanziaria mondiale sono arrivati a comprenderlo, il provincialismo tipicamente italiano ci porta invece a guardare ogni novità tecnologica come una rivelazione messianica, come il segnale della imminente realizzazione del cielo in terra. Paradossale, nonché grottesco, risulta il fatto che, proprio nel momento in cui il progetto pedagogico dell’Unione Europea, recepito dall’Italia, fonda la retorica della nuova educazione sul ruolo attivo del discente, sulla sua funzione di produttore di conoscenza, i pericoli della spersonalizzazione della conoscenza stessa e della riduzione del discente a mero operatore di una macchina vengono marginalizzati a favore dell’esaltazione del nuovo Vangelo dell’Intelligenza Artificiale.

Non si può altresì negare che voci discordanti si siano comunque levate. L’ipotesi di demandare alla macchina compiti peculiarmente umani, come la produzione di un testo, ha destato dubbi fondati: rinunciare alla scrittura implica la rinuncia al pensiero. Assai meno scalpore ha suscitato, invece, una tendenza che sta prendendo sempre più piede nell’ilarità o nell’indifferenza dei più: mi riferisco a quei software di AI capaci di generare immagini a partire da input testuali (particolarmente in voga è il software progettato dal laboratorio di ricerca Midjourney). In sostanza, è possibile dare in pasto al calcolatore la prima terzina della Divina Commedia e quello vomiterà, bell’e pronta, una scena della selva oscura, come se fosse un Gustave Doré qualsiasi. Il trend progredisce in sordina e, al momento, l’ennesima novità della AI riscuote successo particolarmente sulle piattaforme social, nella sua forma apparentemente ludica. Pian piano, però, comincia a diffondersi a macchia d’olio: iniziano, infatti, a venir promossi corsi di formazione e aggiornamento della professione docente volti ad insegnare ad insegnare (in quel processo ad infinitum tanto in voga oggi: insegnare ad insegnare ad insegnare ad insegnare) mediante queste nuove tecnologie, al fine dichiarato, come al solito, di potenziare la didattica e di stimolare la creatività, l’analisi del testo, il pensiero critico, le competenze trasversali e l’universo-mondo.

Una volta, quando l’educazione era roba sporca, brutta e cattiva e si insegnava ad imparare, ai bambini si facevano leggere libri accompagnati da immagini, per aiutarli nel percorso di formazione. Le immagini erano insomma supporto per la comprensione del testo scritto. Una formazione degna di questo nome va, infatti, dall’immagine al concetto: è questo il progresso, la cultura e formazione dell’individuo, centro nevralgico della modernità.

Oggi succede il contrario: visto che si suppone che i concetti siano roba dell’altro secolo (ché mica i giovani possono sprecare tempo a imparare e capire: questa è roba troppo difficile!), allora li si mette nel frullatore per creare immagini.

Gli affreschi nelle chiese erano una volta surrogati di conoscenza per la massa analfabeta dei credenti: tra le loro funzioni, c’era sicuramente anche quella di supplire all’ignoranza di coloro i quali – i più – non sapevano leggere. Tale era l’obiettivo tanto della cosiddetta Biblia pauperum nell’alveo della tradizione cattolica, quanto dell’iconografia protestante. Oggi siamo tornati più o meno a quella condizione, con la differenza che, sostituendo Giotto e Cranach con l’intelligenza artificiale, non siamo più analfabeti di fatto: siamo analfabeti per scelta. Ovvero: una volta l’analfabetismo era una sventura, oggi è una colpa.

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