Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Dante medievale o già moderno? Oppure nella sua classicità, inattuale e quindi imperituro? Domande poste infinite volte da schiere di studiosi negli ultimi tre secoli e che non trovano né forse mai troveranno riposte definitive. Ogni epoca sulla base di cangianti esigenze rivive un proprio Dante ritagliato su misura e magari mette in ombre altri “ritagli” del grande Poeta.

Proviamo dunque anche noi a ritagliare un Dante specifico, un Dante focalizzato non sulla Commedia ma sulla sua opera più teorica, dottrinaria e argomentativa dedicata all’Impero: il De Monarchia. E lo facciamo, brevemente e cursoriamente, in rapporto a due interpreti autorevolissimi del Dante “gius-pubblicista”, anch’essi assurti ormai al rango di Autori classici del XX secolo: Hans Kelsen[1] e Ernst Kantorowicz[2] . Ci limiteremo in questa sede a qualche spunto sui due concetti-chiave potenzialmente intrìsi di grande modernità: il federalismo imperiale e la regalità quale figura della sovranità giuridica.

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Che alcuni passaggi del De Monarchia contengano elementi di proto-federalismo ed enunciazioni ancora acerbe ma già nell’essenziale esaustive del principio di sussidiarietà è opinione di molti illustri storici del diritto[3]. Il passo fondamentale del De monarchia in cui Dante esprimerebbe il principio federalistico si trova nel primo libro, cap. XIV: l’imperatore governa il genere umano «ma ciò non deve significare che le più minute decisioni di qualunque municipio possano provenire direttamente solo da lui […]; i popoli, i regni e le città hanno in sé caratteristiche peculiari che è opportuno siano regolate da leggi differenziate»[4]. L’imperatore fissa la regola teorica valida universalmente ma spetta agli enti particolari reinterpretarla e adattarla alle proprie peculiarità: norme pratiche diverse regolano popoli e situazioni diverse nel rispetto del caso concreto, ma sempre in vista del conseguimento del fine ultimo della norma universale posta dall’imperatore, cioè la pace nella giustizia. È una idea molto federalista quella di ricondurre a un dominio sopraordinato delle molteplicità ma nello scrupoloso mantenimento di tali molteplicità. La potestà imperiale riconosce agli aggregati sociali minori (dal Regno di Francia al più piccolo tra i vici) il diritto a reggersi (regere) e governarsi da sé e a legiferare in conformità alle esigenze particolari e locali. E non solo: l’imperatore si fa strumento di pace e giustizia tra le molteplici aggregazioni sociali perché a lui, quale giudice terzo e superiore, spetta dirimere le controversie e i conflitti tra le varie componenti dell’Impero. Egli è figura di quella che oggi chiameremmo alta corte internazionale di giustizia, universalmente riconosciuta.

Eppure Kelsen non cede al fascino di un Dante federalista europeo ante litteram. Anzi: l’imperatore si pone rispetto ai regni, principato, repubbliche e città come una autorità piuttosto centralista. Dante stesso, al di là delle nobili e suggestive enunciazioni di princìpi, non si interroga adeguatamente sui limiti delle competenze imperiali rispetto agli enti territoriali inferiori e resta nel vago (scrive Kelsen: da nessun passo del De Monarchia «si può trarre una suddivisione di competenze giuridicamente precisa tra Stato universale e consociazioni particolari»[5]). Ma a tale obiezione è agevole rispondere che Dante non ha mai preteso di scrivere una sorta di trattato di “diritto costituzionale” con specificazioni, in termini di precise norme di diritto positivo, di limiti, competenze, e rapporti tra organi dello Stato. Non si può pretendere da un autore medievale (per di più filosofo e poeta e non giurista di professione) la chiarezza concettuale e terminologica di un costituzionalista del XX secolo. Resta vero che Dante ha enunciato un principio di composizione federale dei rapporti tra “Stato centrale” (l’imperatore) e gli aggregati sociali e territoriali minori. Semmai, un punto critico che depotenzia non poco il “federalismo imperiale” dantesco risiede nel potere giurisdizionale dell’imperatore perché è vero che a lui spetta la risoluzione pacifica delle controversie tra Regni, repubbliche, Comuni etc., ma al contempo l’imperatore mantiene un rapporto diretto con i sudditi dell’Impero universale, coi singoli uomini che al sommo monarca, dispensatore di giustizia, possono ricorrere contro i soprusi di altri singoli uomini o dei Regni e dei comuni. Non senza forza di persuasione Kelsen sottolinea che l’Imperatore dantesco non è sussidiario perché egli, come scrive lo stesso Dante, «tutela gli uomini anteriormente e immediatamente rispetto agli altri Prìncipi; […] la funzione tutelatrice [di questi ultimi] discende da quella suprema del Monarca»[6]. Da qui si evince che l’Impero non sgorga dalla consociatio o federazione di regni, popoli e città; sono semmai gli aggregati minori a discendere dall’imperatore quali mere articolazioni locali, come le Provinciae dell’Impero romano augusteo. Dante, qui, è un medievale che guarda all’evo antico. Un reazionario.    

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Ma allora dove possiamo individuare la vera cifra di modernità nel Dante politico? Davvero Dante anticipa idee di una nuova epoca? Kelsen rispondeva affermativamente, scorgendo nello Stato imperiale delineato nelle fitte pagine del De Monarchia non già, come si è visto, una federazione di regni, repubbliche e popoli bensì «la più perfetta e autosufficiente consociazione» (p. 169) al cui vertice si colloca un Imperatore depositario ultimo della sovranità. Un Imperatore che però – proprio in virtù della serrata argomentazione dantesca nutrita di aristotelismo e razionalismo – perde la sua connotazione umana e si trasforma in concetto logico-razionale, in pura idea giuridica: la Norma fondamentale.

Nella realtà medievale il Rex (e quanto di più l’Imperatore) si collocava al culmine della realtà statuale, ma restava pur sempre un uomo, e proprio perché uomo si attribuiva massima importanza alla sua educazione e preparazione alla regalità. Le dottrine giuspubblicistiche si annidavano con frequenza negli “Specchi”, opere pedagogiche ed educative destinate ai Principi, a conferma dell’inestricabile groviglio tra regalità e persona. Una regalità antropocentrica, secondo la celebre teoria sviluppata da Ernst Kantorowicz, nella quale l’uomo andava colto nella sua duplice e indivisibile dimensione, corporea e spirituale. E quindi esistevano un momento di regalità materiale, da leggere e interpretare alla lettera, cioè in aderenza ai dati più estrinseci e linearmente razionali delle teorie giuridico-politiche, e un momento di regalità spirituale, da leggere e interpretare allegoricamente e figurativamente,  un momento più sfumato dove facevano ingresso l’estetica e il fascino della liturgia regale, la poesia delle laudes regiae, la spiritualità del culto regale e i costanti richiami allegorici ai passi scritturistici. L’imperatore elevato (o ridotto) ad astratta e asettica Norma fondamentale, culmine della piramide giuridica, leggibile e interpretabile alla lettera secondo un’ermeneutica logico-razionale, è senza dubbio una idea estranea al medioevo e che sa molto di modernità. Ma è davvero una idea presente in Dante, come ritiene Kelsen? Non sembra.

Dante, uomo del medioevo, vive e traduce la sua arte poetica nella costante compresenza di corpo e spirito, interpretazione letterale e interpretazione allegorico-figurale (con l’aggiunta delle interpretazioni anagogica e morale). La sua poesia, dissezionata dalla trasparente luce della coerenza logico-formale, evaporerebbe. Mutilata della penombra dell’allegoria e della forza primigenia delle estasi visionarie scadrebbe a mera versificazione. Questo è ovvio anche per Kelsen. Ma anche il Dante pensatore politico, l’autore del De Monarchia, non resta irretito nella trame delle argomentazioni logiche e politico-giuridiche perché lascia pur sempre l’uomo al cuore della regalità: l’uomo-imperatore, certamente, ma insomma uomo che si pone in relazione con Dio e che in questa relazione possiede una dignitas di portata universale, umanistica e insieme cristiana, che si riverbera sull’altissimo ufficio di Imperatore Sacro e Romano e che da questo centro irradia la sua luce di allegoria, di estetica, di poesia sull’intera consociazione di popoli, regni, repubbliche e città dell’Europa medievale.

L’idea di regalità del De Monarchia deve molto alle serrate argomentazioni in punto di pura logica e di concetti giuridico-politici (e qui Kelsen coglie nel segno). Ma questo momento di forte razionalità subisce le interferenze delle visioni artistico-poetiche e allegoriche di cui Dante era imbevuto e che sapeva sublimare in arte, persino nel suo trattato politico.  Lo notava già il Kantorowicz, cogliendo meglio e più in profondità di Kelsen lo spirito riposto, la cifra autentica e inattuale (e quindi davvero classica)  del De Monarchia[7].      

NOTE

[1] Hans Kelsen, Lo Stato in Dante. Una teologia politica per l’Impero, Milano-Udine 2021 (ediz. originale: Die Staatslehre des Dante Alighieri, Wien 1905).

[2] Ovvio riferimento alla sezione del libro dedicata a Dante in Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità della teologia politica medievale, Torino 1989 (ediz. originale:  The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology, Princeton, 1957).

[3] Ne citiamo per la sua esemplarità uno solo: Antonio Padoa Schioppa, Italia e Europa nella storia del diritto, Bologna 2003, pp. 118 e ss; dello stesso Autore anche il recentissimo Diritto medievale. Sei studi (in particolare l’ultimo capitolo: Ancora su Dante e l’idea di impero), Fondazione CISAM, Spoleto 2024.

[4] De Monarchia, I, XIV, 4 (citiamo dall’edizione a cura di Maurizio Pizzica, introduzione di Giorgio Petrocchi, Milano 1988, pp. 200-201).

[5] Kelsen, op. cit., p. 166.

[6] De Monarchia, 1, XI, 15-16, p. 188. Data la sua importanza, riportiamo l’originale latino dell’intero passo: «principibus aliis appropinquant per Monarcham et non e converso; et sic per prius et inmediate Monarche inest cura dominibus, aliis autem principibus per Monarcham, eo quodcura ipsorum a cura illa suprema descendit».

[7] Un recente e bel contributo di Paolo Heritier (La “regalità antropocentrica”. Elementi per una lettura estetico giuridica del de monarchia, in AA.VV. Dante. Filosofia e poesia della giustizia. Dalla Monarchia alla Commedia, Milano-Udine 2021, pp. 27-43) affronta il tema dell’idea di regalità in  Dante a partire dalle esemplari interpretazioni del Kantorowicz ma con riferimenti puntuali anche al Kelsen e all’estetica giuridica di Pierre Legendre. Correttamente l’Autore riporta la tesi del Kantorowicz secondo cui la regalità antropocentrica segna con Dante la separazione tra christianitas e humanitas («Kantorowicz legge il complesso sistema dantesco indicando come esso secolarizzava l’ideale della chiesa universale, sostituendo l’idea di umanità a quella di cristianità», p. 42). Però non la analizza criticamente. Ma il punto controverso sta proprio qui. Non sembra del tutto convincente l’attribuzione a Dante di questa “sostituzione di idee” a discapito della cristianità: l’ufficio imperiale dopo l’Incarnazione e nella pienezza dei tempi non è scindibile da una regalità d’origine divina specificamente cristiana. Esso è cristianizzato, come cristiano consacrato e sacro nella sua stessa persona è l’imperatore. L’universalità dell’Impero nell’era cristiana è connessa all’universalità della nuova fede. Come la Chiesa, anche l’Impero supera stirpi e nazioni e parla all’uomo universale, ma per trasformarlo in senso cristiano. In più, in quanto realtà teologica e politica l’Impero romano medievale idealmente esercita la sovranità su tutto l’Orbe, anche sui pagani e gli islamici, col dovere però di convertirli, cioè con la missione di cristianizzare le società ancora poste al di fuori della res publica christiana. Insomma, la dignità universale dell’optimus homo, quando costui ricopre l’ufficio imperiale, non sembra separabile dall’idea di cristianità. Lo diverrà dopo Dante, e nonostante Dante.         

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