Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

La cantica dell’Inferno è stata paragonata nella sua struttura esteriore a un immenso penitenziario e i gironi e le bolge ai singoli “bracci” di questa casa circondariale, con spazi appositi riservati ai detenuti più pericolosi o a quelli condannati per i crimini di particolare efferatezza. Questo ardito accostamento fa sorgere uno spontaneo rinvio alle concezioni di giustizia criminale e alle modalità di esecuzione della pena nelle realtà sociali coeve al Poeta. Ma l’accostamento non sembra del tutto pertinente perché la fantasia e l’immaginazione  poetica evitano di ricalcare le tristezze estremamente prosaiche delle carceri medievali e la lettura dell’Inferno ci fa sì percepire il tenebrore e la sofferenza di quei luoghi, la presenza dei demoni aguzzini e la residuale umanità di molti di quegli ospiti ma poco o nulla aggiunge sull’angustia delle celle di detenzione. Anzi: i dannati sembrano a loro modo liberi di vagare entro il proprio girone; soffrono e scontano la pena, spesso subiscono la perfidia dei carnefici ma, insomma, strumenti realistici di tormento giudiziario e di tortura, catene, corde, cavalletti, o nauseabonde soffocanti gattabuie non arricchiscono più di tanto l’esteriore Inferno, «città dolente» più che prigione, e d’altronde nel basso medioevo alla detenzione per periodi prolungati si preferivano punizioni d’altra natura (corporali, pecuniarie etc).

Ricca di suggestione e di stimolo culturale e giuridico, semmai, è la pena infernale. Quale la funzione che il Poeta attribuisce alla pena? Una pena di immaginazione poetica paragonabile alle pene giudiziarie del diritto criminale medievale, non tanto nei contenuti specifici e nelle modalità attuative quanto, appunto, nella funzione, nello scopo e nella ratio. In più punti dell’Inferno Dante didascalicamente argomenta e rammostra oppure fa dichiarare ai suoi personaggi l’aurea regola del contrappasso. Per esempio nel XXVIII canto (vv. 130-142)  Bertram dal Bornio, reo di aver aizzato il figlio del re d’Inghilterra Enrico II a ribellarsi al padre, ossia reo di complicità in un parricidio,   porta con sé il suo capo mozzato «dal suo principio ch’è in questo troncone»: ossia, colpevole di aver metaforicamente decapitato la l’auctoritas regale insieme con la patria potestas, adesso sconta sulla propria persona la decapitazione e rivolgendosi al Poeta esclama: «Così s’osserva in me lo contrappasso». Crudezza di una pena vendicativa e che infligge al dannato lo stesso supplizio che lui inflisse (o aizzò a infliggere) ad altri: occhio per occhio, dente per dente (o in questo caso testa per testa).  Nel medesimo XXVIII canto i seminatori di discordie e gli scismatici, che in vita separarono e scissero il corpo sociale e la comunità dei credenti, subiscono ora su se stessi il supplizio della scissione. Emblematico il caso di Maometto, il principe degli scismatici, condannato a perpetuo squartamento («rotto dal mento infin dove si trulla»). Qui come altrove emerge una concezione arcaica e vendicativa della pena, decisamente medievale (d’un medioevo giuridico più consono ai secoli precedenti l’anno mille che all’Italia dell’età comunale), tale da giustificare, almeno in questo caso e riprendendo il titolo di un celebre libro di Edoardo Sanguineti, l’etichetta di “Dante reazionario”.

Tuttavia in Dante il contrappasso va sfumato con aspetti di  retribuzionismo della pena: il reo deve essere “retribuito”, cioè ripagato della medesima mercede che inflisse alle sue vittime. Ma “retribuzione”, se davvero tale, impone proporzione, ossia garanzia di limiti. Il reo nell’Inferno paga il fio, ma non oltre il grado di efferatezza di cui si è macchiato. Una pena sproporzionata diventa pena ingiusta. Si pensi a Ciacco nel sesto canto: «tutte queste [anime di dannati] a simil pena stanno per simil colpa», o ai dannati immersi nel Flegetonte non tutti alla stessa misura ma chi fino al polpaccio, chi al bacino, chi alle ciglia, ma insomma sempre in proporzione alla gravità della colpa commessa. La pena retributiva dantesca, esaminata da questa angolazione, si colora a modo suo di garantismo (proporzione), limite e misura. Semmai la pena di sottofondo, e a ben guardare la più grave, che infligge egualitariamente tutti i dannati e senza attenzione di proporzioni con le colpe commesse, è la separazione eterna da Dio.

Una decina di anni fa un autorevole studioso ed esegeta nordamericano di Dante, Justin Steinberg, ha innovativamente approfondito il tema (già ampiamente esplorato da oltre un secolo di studi)  delle concezioni giuridiche presenti o rintracciabili nelle tre cantiche e nelle altre opere del grande fiorentino[1]. Lo studioso si è occupato specificamente anche della pena del contrappasso[2] ed è pervenuto a conclusioni originali, in contrasto con la consolidata tradizione di studi che vede Dante rigidamente ancorato alle concezioni tradizionali, di matrice veterotestamentaria, del contrappasso.

Il dato letterale («Così s’osserva in me lo contrapasso») non esprimerebbe alcuna adesione del Poeta per questo concetto di pena; anzi, Dante amplifica volutamente in Bertram dal Bornio e in Maometto l’enormità di un contrappasso che fa strame della “classica” retribuzione (già presente nella filosofia aristotelica) e dei suoi corollari di proporzionalità, garanzia e certezza del limite. Dante, uomo calato nelle miseria delle lotte di fazione, aveva ben presente la rapida degenerazione che stavano assumendo le forme di punizione corporali applicate dai Comuni (o meglio: dalla fazione dominante) nei confronti dei partigiani delle fazioni avverse e sconfitte. Dante stesso ne sapeva qualcosa per aver sperimentato su di sé non solo l’esilio ma anche l’ignominia di essere condannato come “barattiere”.

Nel corso delle battaglie politiche si ricorreva con sempre maggior frequenza alle accuse di enormitas: l’avversario era incriminato perché colpevole di reati straordinari nella loro gravità, efferatezza, lesione del sentire comune. Crimini che quindi andavano repressi e puniti con pene adeguate alla enormitas del reato. Da qui il rapido incrudelirsi dei sistemi punitivi specificamente riservati agli avversari di fazione e lo smarrimento di ogni misura, moderazione, proporzione (e quindi retribuzione) nel sistema delle pene. A fronte di tale orrore Dante avrebbe voluto sottolineare, con l’enormitas del contrappasso esposto della cantica, il suo raccapriccio, la sua presa di distanza dalla inflizione di pene non più sorrette da scopi retributivi.

Le argomentazioni di Steinberg possono non convincere del tutto ma meritano di essere riprese e approfondite. Sarebbe senz’altro antistorico e fuori contesto trasformare Dante in un antesignano dell’illuminismo giuridico e del garantismo né in lui si trova traccia – al di fuori della dimensione religiosa della purgazione – di una funzione rieducativa (di emenda, diremmo con linguaggio d’oggi) del condannato affidata alla pena. Vero è semmai, a nostro avviso, l’ancoraggio di Dante alla retribuzione della pena, nel solco della consolidata tradizione cristiano-agostiniana, dove però questo ancoraggio si traduce in una attenta sensibilità alla proporzionalità della punizione, tale da garantire il più possibile una simmetria tra l’azione del reo e la reazione dell’offeso o del magistrato esecutore delle leggi. E proprio questo principio di retribuzione e proporzionalità rischiava di smarrirsi nella incandescente tensione delle lotte politiche comunali nelle quali Dante soccombette e subì il destino di vittima illustre.

Come ammoniva un secolo fa Benedetto Croce, ogni critica dantesca “allotria” (cioè non incentrata sulla poesia ma su altri aspetti: teologico, politico, filosofico, e dunque anche giuridico) va maneggiata con prudenza (e, se del caso, con diffidenza) e confinata in ruoli ancillari rispetto al momento di indagine propriamente artistico-poetico. Dante – gli studiosi sono concordi – fu anche giurista, certo non di professione ma imbevuto di ampie nozioni e cognizioni giuridiche e scrisse opere di schietta struttura filosofico-giuridica (il De Monarchia). Tuttavia egli fu essenzialmente Poeta. Ma proprio perché Poeta calato nella vita, è inevitabile che quel lato della sua cultura, sapienza e sensibilità propriamente giuridiche non riaffiorino di tanto in tanto tra le gemme della sua poesia e assuma esso stesso, pur restando lato e concetto giuridico, bellezza e suggestione poetica. La concezione della pena, incarnata in indimenticabili personaggi dell’Inferno, ne offre un esempio.     

NOTE

[1] Justin Steinberg, Dante and the Limits of the Law, University of Chicago Press, Chicago 2013 (trad. it.: Dante e i confini del diritto, Viella, Roma 2016).

[2] Soprattutto nell’articolo Dante’s Justice? A Reappraisal of the Contrappasso, in «L’Alighieri», LV, 2014, n. 44, pp. 59-74

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