Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell'interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Nel 2022 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la classe di concorso A019 (Filosofia e Storia). Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, l’ermeneutica letteraria e i paganesimi antichi. Ha pubblicato saggi e articoli per riviste di filosofia, letteratura e fotografia. Con la cura del volume Psyché. L’anima ha contribuito alla collana del «Corriere della Sera» dedicate a Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà  (a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, 2022/2023). È redattore della rivista culturale online «Il Pequod».

Recensione a: T. Montanari, I vinti. Il corpo nella storia dell’arte, Solferino, Milano 2022, pp. 112, € 12,00.

L’importanza di questo libretto di Tomaso Montanari non sta, ovviamente, nella pretesa critica, bensì nel punto di vista. Attraverso diciassette, brevi affacci sulla storia dell’arte italiana, Montanari offre un possibile indirizzo di ricerca o, per meglio dire, una riflessione sul riscatto di ciò che, con Nietzsche, siamo in tutto e per tutto, ovvero corpo. All’intuizione del grande studioso l’autore associa il tratto più originale di questa breve sinossi, che si propone come un invito prospettico, evidente già dal titolo ma che si precisa nell’epigrafe («Ai vinti, ai disertori, ai ribelli di questo nostro tempo») e poi lungo tutte le pagine.

È dunque una prospettiva concettuale che abbiamo in oggetto, raccontare la storia dell’arte come la narrazione che l’umano compie di sé in relazione al sacro, al potere, al dominio e alla redenzione. Con protagonisti i corpi, che l’arte pone nella visibilità in alcune sue particolari manifestazioni scelte ad hoc da Montanari: i corpi dei vinti, degli umili, dei sofferenti e degli oppressi.

Se dovessi quindi suggerire qual è il pregiudizio filosofico ed ermeneutico che muove e struttura questa riflessione direi che è ovviamente la gnoseologia storica di Walter Benjamin, più precisamente del Benjamin delle Thesen über den Begriff der Geschichte, in cui (siamo nella settima) il filosofo berlinese pone la risoluzione del problema della redenzione della storia in termini primariamente narrativi, nel punto di vista da cui si sceglie di guardare alla vicenda storica, criticando fortemente la Einfühlung degli storiografi come principio del racconto dei vincitori con l’intento di cambiare l’angolo visuale, di messa a fuoco, trattando di coloro che la storia ha sempre ignorato. Si redime la storia, sostiene Benjamin, se si sceglie di raccontarla da un altro punto di vista, quello della gente che soffre e che viene perseguitata, torturata e uccisa.

Questo indirizzo del volume è evidentissimo sin dall’attacco giottesco su San Francesco: «La storia dell’arte, come la vedremo in queste pagine, non è la storia dei vincitori che conosciamo. Non è la storia del potere. Non è la storia di chi ha in mano la storia. Una volta tanto, vorrei guardare la nostra storia dell’arte dalla parte dei corpi vinti, dei corpi prigionieri, dei corpi sconfitti» (pp. 15-16). Montanari racconta allora la storia di artisti che proprio nel corpo hanno intravisto il medium più alto della traducibilità del fatto artistico, fortemente convinti che «non c’è storia di uomini e donne che non siano traducibili in storie di corpi» (p. 21). Da Pisano a Michelangelo, che fu l’artista del corpo par excellence, passando per Masaccio, Montanari con brevi ma significativi flash tratta della fatica corporea, anche nella massima aspirazione all’azione che si possa mai nutrire, quella del Cristo di Donatello nel Pulpito della Resurrezione di San Lorenzo a Firenze: «Morire e risorgere, una fatica terribile. È il corpo che ha fatto tutto questo, non è l’anima. Tutta la sofferenza del mondo: e ora non ha nemmeno la forza di sbendarsi. Prima, deve riprendere fiato con un piede appoggiato al suo sarcofago. Chiunque, vedendo questo corpo fragile, umanissimo, può credere che la resurrezione lo riguardi personalmente. Quella carne stanca è la nostra carne stanca, quell’affanno è il nostro affanno. Nulla di bello riesce senza fatica al mondo, lo sappiamo: ebbene, nemmeno la resurrezione» (pp. 45-46). Corpi afflitti a cui anche la resurrezione costerà fatica, così come nel Buonarroti, nei suoi Prigioni, a proposito dei quali Montanari afferma: «Sono corpi sconfitti, sono corpi prigionieri, letteralmente, ma sono anche l’espressione più grandiosa del fatto che un essere corpo non è un limite, ma un traguardo, nella visione cristiana. Quella visione per cui la nostra carne mortale risorgerà» (pp. 51-52).

Si passa allora per il Caravaggio nero di Malta e dei dipinti siciliani, con particolare attenzione alla Decollazione del Battista, in cui l’autore vede esprimersi uno dei pensieri dominanti del Merisi: il rapporto, che sarà del Foucault di Sorvegliare e punire, tra i corpi e il potere, tra la vita e il dominio, tra la libertà di chi la vuole a ogni costo e di chi vuole sopprimerla. Un rapporto «terribile» (p. 82), interrogato dall’ultimo Caravaggio in modo ossessivo.

Tuttavia, l’identità politica di questo testo emerge nella tematizzazione dei corpi del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, un quadro iconico, che citando i grandi maestri del passato (si pensi al Raffaello vaticano) pone nella visibilità di cui l’arte è garante e protettrice i corpi adesso luminosi degli emarginati, che nel simbolo di una lotta continua camminano (forse alla luce del proverbiale Sole dell’avvenire) per ottenere uno spazio storico. Tutto il senso prospettico del libro di Montanari, con cui invita a guardare l’arte, i corpi e in fondo la vita nella storia, si riassume in una notazione a commento di quest’opera: «È un radicale ribaltamento della storia, un’inversione di senso che fa perno sui corpi: sulla loro gloria, sulla loro cancellazione» (p. 101). Una storia di artisti che tramite i corpi degli ultimi, ponendoli nel visibile dell’arte, raffigura l’umanità in modo universale.

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