Luca Baldassarre (1989) è docente di Filosofia e Storia nei licei. Laureato in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Firenze con una tesi su Theodor W. Adorno, ha successivamente svolto attività di ricerca sulla Teoria critica della Scuola di Francoforte, con particolare interesse verso le varie declinazioni della critica dell’industria culturale. Fra le sue pubblicazioni: La Scuola di Francoforte. Una introduzione (Editrice Clinamen, Firenze 20213); Gli scrittori neri della borghesia. Theodor Adorno e il finale di partita (Clinamen, 2016); Gli uomini del cortocircuito. Per una critica dell’infantilismo ipermoderno (Clinamen, 2017).

È scoppiata, puntuale, la polemica sui compiti a casa. «’Sti ragazzi e ragazzini tornano da scuola con troppi compiti!» – si dice. Il casus belli è di un paio di settimane fa: una donna prende in mano lo smartphone, riprende prima il figlio e poi se stessa, inveendo contro maestre e maestri e accusandoli di assegnare troppi compiti per casa. Il video viene pubblicato sui social. Il linguaggio è scurrile e sguaiato. Lo sfogo diventa, come di consueto, virale. Apriti cielo! «Abbasso i compiti a casa!» – risuona la lunga eco di protesta. Se la ferrea logica dello sciame virtuale vuole che la fiamma dell’indignazione si propaghi in maniera esponenziale, ad essa si adeguano anche le testate giornalistiche tradizionali, ormai del tutto succubi di quello sciame, anche quando apertamente lo contestano.

Era metà marzo e, a fine mese, l’allarme non sembra rientrare. Anzi: si moltiplicano gli articoli che danno rilievo ad una questione la cui rilevanza deriva esclusivamente dal clamore virale. Immediato, il 16 marzo, è arrivato il commento dell’immancabile Massimo Gramellini, che nella sua rubrica sul “Corriere della Sera” lamenta la maleducazione della madre, pur dichiarandosi favorevole nel merito: i compiti a casa sono troppi, perfino Platone diceva che è importante fare una sana attività fisica, però le buone maniere, signora mia…

«Scuola, compiti a casa: in Italia se ne fanno il doppio rispetto ad altri Paesi europei» – titola “la Repubblica” il 27 marzo scorso, mettendo in risalto nel sommario dell’articolo online come in Italia, in quarta elementare, i compiti a casa ammontino a 3,3 volte i compiti assegnati ai coetanei francesi e a 2 volte quelli dati ai coetanei finlandesi e spagnoli; il sito «Orizzontescuola» riprende lo spunto de “la Repubblica”, affidandosi agli stessi dati forniti dal TIMSS 2019 (Trends in International Mathematics and Science Study), agenzia di monitoraggio dell’efficacia educativa in matematica e scienze nella classe quarta della scuola primaria e nella classe terza della scuola secondaria di primo grado. Agli stessi dati fa riferimento, lo stesso giorno, “il Giornale”, con un articolo intitolato I compiti a casa sono troppi? Ecco che cosa dice la statistica TIMSS 2019, la divinità à la page dell’ultimo mese.

Arriva il 28 marzo e il prof. influencer Enrico Galiano, senza riportare alcuna fonte, stima che in Italia si danno più compiti che nel resto d’Europa e – visto che siamo tutti scienziati fatti in casa – i compiti ammonterebbero ad un totale di 8.7 ore settimanali in media. A quale ordine e grado si riferisce? La domanda è destinata a rimanere disattesa. Eppure, nel suo breve commento online, Galiano cerca di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, sostenendo che i compiti a casa vanno bene, ma solo se dati nella giusta misura e a chi ha un supporto familiare. “Giusta” misura? Prima si protesta per le 8.7 ore medie settimanali e poi si invoca vagamente la “giusta” misura? A quanto ammonta? Quanto viene al chilo?

Ora, non so dove siano disponibili questi dati; non so nemmeno quale sia il criterio in base al quale vengano ricavati, quale sia il campione di ricerca, quale il metodo. Ma, francamente, mettersi a fare i conti sul presunto orario dedicato allo studio casalingo medio non solo mi pare una pacchianata, ma mi sembra esser parte del problema.

Il livello di preparazione degli studenti cala visibilmente; la punteggiatura va a ramengo; la matematica non se la passa granché meglio. Come si crede di affrontare la questione? Semplice: si inventano storie sui compiti a casa, arrivando a fare la media del livello di studio individuale obbligatorio, a quantificare l’incalcolabile, a ponderare le intelligenze in base a criteri ridicoli e del tutto estranei all’oggetto in questione. Il declino dell’università in Italia ha avuto inizio quando abbiamo cominciato a “pesare” gli esami, calcolandone il numero di pagine da studiare (sic!), il numero presunto di ore da dedicarci (sic!), il numero di crediti corrispondente (arisic!). E adesso vorremmo estendere questo modello nefasto anche alle scuole?

Il problema alla base della polemica non sono i compiti a casa: il problema è lo studio. Lo studio oggi è ritenuto un peso, una zavorra da cui è bene liberarsi il più presto possibile. Indubbiamente l’attività fisica è «indispensabile per forgiare i corpi e i caratteri, che [Platone] considerava importanti quanto i cervelli», come scrive Gramellini. È però indispensabile proprio in virtù del fatto che tanto il corpo quanto la mente devono essere allenati: occorrono passione, rigore e disciplina, ovvero, ancora una volta: studio. Studium, nel senso etimologico del termine: “cura”, “dedizione”, “applicazione”, “desiderio”, “passione”. Non cogliendo la natura intima dello studio, la passione che lo sostiene, si aspira oggi ad abolirlo, come un fardello inutile.

«E non date ‘sti compiti a casa, che i ragazzi si devono divertire!». D’altronde, se l’ideologia oggi dominante prevede che ci si diverta proprio a scuola (non nel senso della trasmissione del sapere come passione del sapere, non nel senso, appunto, dello studium, ma come diffusione di modelli che nulla hanno a che fare con la cultura e che viceversa la trasformano in orpello funzionale a meccanismi di mero intrattenimento), perché imporre lo studio a casa?

Se la strada intrapresa dalla nuova pedagogia va nella direzione della superfluità del ruolo del docente, della massiccia tecnologizzazione di mezzi e contenuti culturali, della gamification; se, in altre parole, la scuola rincorre oggi le pretese infantili di quella società che essa invece avrebbe il dovere morale di elevare, esigere il riconoscimento dell’importanza dei compiti a casa non è forse destinato a diventare una richiesta obsoleta?

L’argomento non fa una grinza, mentre noi scivoliamo sempre più in basso.

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