Enrico Palma (1995) è dottore di ricerca in Scienze dell'interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Nel 2022 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la classe di concorso A019 (Filosofia e Storia). Le sue aree di ricerca sono la filosofia teoretica, l’ermeneutica letteraria e i paganesimi antichi. Ha pubblicato saggi e articoli per riviste di filosofia, letteratura e fotografia. Con la cura del volume Psyché. L’anima ha contribuito alla collana del «Corriere della Sera» dedicate a Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà  (a cura di M. Centanni e P.B. Cipolla, 2022/2023). È redattore della rivista culturale online «Il Pequod».

Recensione a: E.M. Cioran, Finestra sul nulla (Fereastrā spre nimic, Gallimard, Paris 2019), trad. it. di C. Fantechi, Adelphi, Milano 2022, pp. 234, € 14,00.

Questo volume raccoglie frammenti e annotazioni sparse scritti da Cioran con tutta probabilità negli anni compresi tra il 1943 e il 1945. Forse, come suggerisce il curatore Nicolas Cavaillès, si può stabilire con più precisione il 1944. In ogni caso, benché in forma germinale, Finestra sul nulla condensa al suo interno, nella sua solita fattispecie di scrittura tagliente, acuta e lancinante, i temi caldi della riflessione cioraniana: la caduta, il nulla, la noia, la malinconia, il male del mondo e dell’essere, la necessità di pensare il tempo che si è. Il lettore appassionato del filosofo franco-rumeno troverà quindi molti luoghi acquisiti e a lui già ben noti. Tuttavia, alcune espressioni, per il modo in cui sono formulate e la maggiore chiarezza rispetto alle altre opere più conosciute e già inserite nel dibattito da decenni, meritano di essere riportate e discusse. La bellezza dei libri di Cioran sta anche nella possibilità concessa al lettore di trovare un suo percorso, di immedesimarsi in pensieri che si agitavano dentro di lui privi della parola che il filosofo offre, farsi sorprendere, tramortire, persino sconvolgere, essendo il confronto con questo pensatore un’esperienza di verità tra le più alte che si possano mai fare in filosofia.

In questa «prosa solidificata chiamata esistenza» (p. 33), è il tempo l’elemento metafisico di maggiore interesse nel quale possiamo imbatterci, il tempo che si fa parola e che rapprende sulla pagina: parole che corrispondono alle sensazioni, quasi sempre per Cioran di dolore e noia, a cui la scrittura dà una forma di liberazione ed espressione, di esternazione dal sé e di oggettivazione, in grazia della quale il soggettivo giungendo all’alterità diventa comprensibile. Tempo che è svanire, ma che, citando Cioran, è accumulazione negativa, farsi sempre più nulla, tenersi lontani dall’essere rovinando nella vita. L’esistenza che dura nella temporalità vivente è mantenere il nulla, con tutto quello che ne comporta in termini di malessere esistenziale.

Con una formulazione dal notevole peso metafisico Cioran articola questo concetto:

Il tempo moltiplica l’esistenza secondo un principio che la erode. Il suo ruolo nell’essere è paragonabile a quello dell’amore nell’individuo. Ciò che non è pura esistenza o nulla è equivoco; il tempo, in primo luogo, eterno equivoco da cui emanano i volti del mondo, e tutto ciò che è incapace di mantenere la forma primordiale. Gli istanti aggiungono all’essere una sottrazione di essere. Il tempo è un arricchimento negativo dell’esistenza» (p. 39).

Il tempo, come divenire in cui l’esistenza è immersa e che la mantiene nell’essere, ha al suo interno la causa della propria rovina, del disfacimento dell’ente vivente che ha la morte inscritta dentro di sé, un magnetismo di opposti che si richiamano: il nulla oltre la vita la richiamerà a sé inglobandola nuovamente nell’origine. Allo stesso modo dell’amore, che tiene integrato l’individuo slanciandolo verso l’altro a cui il suo sentimento è rivolto, il tempo trattiene le cose a sé e tuttavia le rovina nel divenire che disgrega e dissolve, e che nei termini umani si chiama invecchiamento, disfacimento, morte. Il tempo fa manifestare gli enti nell’essere secondo le loro forme proprie («i volti del mondo»), enti tuttavia incapaci di mostrare la loro forma originaria, la Urform, poiché farlo pienamente vorrebbe dire mostrare il nulla e quindi non essere. Il tempo che avanza, istante per istante, da un punto di vista ontologico è per Cioran rendere sempre attuale la separazione del vivente dal tutto originario, dalla materia da cui è emerso, talché, con una straordinaria formulazione, tempo è quello che accumula nell’esistenza negatività, il cui contrario, ciò che è positivo, sarebbe il ritorno al nulla, alla materia da cui si proviene.

Questa separazione, questo scarto, sono letti metafisicamente da Cioran con la più estrema positività che sia possibile concettualizzare, la luce: «Tra noi e le cose si frappone la luce» (p. 46), tra noi, i viventi che esistendo si arricchiscono di negativo, e le cose, la materia inerte, la materia inorganica, ciò che ha sì una forma ma che è inconsapevole di esserlo, e che quindi non sa della separazione dolorosa e saputa in cui i viventi incorrono essendoci. Ciò che si frappone, la membrana che ci separa, è il nulla, è la luce: superare la barriera che separa dal nulla determinerebbe la dissoluzione, giungere alla dimensione materiale della cosa, alla ricomposizione. Infatti, come aggiunge Cioran con uno dei suoi appunti più densi: «La materia geme per essere liberata. L’essere umano si salverà solo insieme a lei» (p. 69). Non si tratta di una liberazione dalla materia, auspicare un processo di affrancamento, come in certe culture antiche, del principio spirituale dalla corporeità, bensì, più radicalmente, di liberare la materia del nostro essere nella sua totalità, affinché la materia che siamo possa liberarsi della vita per rappacificarsi nell’inorganico, spezzando così la forma che lega dolorosamente all’esistenza. L’umano si salverà, a condizione di liberare la materia. Una condizione che se può raggiungersi pienamente soltanto con la morte, può però essere praticata in vita, avvicinata idealmente con la trasformazione intellettuale che il pensiero, se autentico, fa ottenere.

Per Cioran, questa è benedizione. E lo spiega con parole molto riconoscibili del suo lessico: «È nel rifiuto della benedizione del non essere che risiede l’origine della nostra lotta contro il mondo e contro noi stessi. L’esistenza è una caduta fuori da questa grazia» (p. 71). Il non essere, la visione del nulla che la vita sarebbe se non ci fosse, è la grazia dalla quale siamo caduti, la visione della massima serenità e della pienezza, una benedizione che però rifiutiamo nell’ostinazione di ritenere che essa sia invece la vita: un rifiuto in cui, dice Cioran, consiste tutto il disagio dell’esistenza. Per questa ragione consegue che «la metafisica è un processo» (p. 74), un processo appunto di oltrepassamento dei corpi, un esercizio mentale, l’attività principale del pensiero, come si diceva, che superando la fisica dei viventi arriva alla materia in quanto tale. Un compito esistenziale rispetto al quale non se ne può concepire uno migliore, più nobile e degno, un obiettivo a cui votare l’esistenza, il tempo che siamo come durata consapevole del mondo, il cui sigillo viene apposto da Cioran con una formidabile definizione della filosofia come il pensare tutto questo: «La filosofia non significa altro: tempo che si sa» (p. 86), essere «un eroe del Tempo» (p. 87). La vita umana è tempo consapevole di sé, ma diviene vita filosofica quando consapevole delle dinamiche del mondo, del nulla e dell’essere, del processo metafisico di ricongiungimento intellettuale con il Tutto.

Essere eroi del Tempo significa anche rappacificarsi con Esso, con quel cascame di giorni che continuando a durare arricchisce la vita di nulla; sicché il sonno, l’anticipazione rigenerante della morte che si sperimenta in vita per permettere alla vita stessa di acquisire quotidianamente l’energia per il suo slancio nella durata, diviene una figura della salvezza, l’immagine finale della prospettiva filosofica giunta a realizzazione. «La sete di un eterno sopore è il sogno finale dell’eroe. Fortunatamente per la vita non si può concepirlo prima dell’atto. Gli occhi si chiudono nell’incoscienza della notte solo per dimenticare il Tempo. Il mattino li riapre. Finché la morte ci guarisce da tutti i mattini» (p. 96).

La guarigione definitiva dall’essere e dal tempo si otterrà soltanto quando il sonno prevarrà e i mattini cesseranno di essere preludi di negazioni:

Ogni giornata è una giornata incompiuta che si aggiunge al deficit del tempo. Il suo andare avanti è di una gratuità demente: una estenuazione assurda. Quando il tempo stesso non può più compiersi, a quale senso potrebbe innalzarsi il nostro brandello di ragioni d’essere? (p. 185).

Ritorna l’arricchimento del negativo, l’estenuazione dell’incompiutezza radicale che è la vita, la sua assurdità di principio, a cui però, benché non risolutivo, si può fornire un rimedio, al più un diversivo, con la filosofia, con il sapere, la scrittura che solidifica l’esistenza e la libera nella parola comprendente. Rasserena, permettendo di accettare tutta la gravità di un’affermazione come questa: «Il male non dipende dal tempo, è nel tempo. Ogni giorno rivela un nuovo volto dell’Incurabile; ma quest’ultimo li sovrasta tutti, servendosene come specchi della sua eterna Non-guarigione» (p. 185).

La soluzione definitiva sarà la tenebra, ciò che per noi è l’inospitale e il terrificante ma che in realtà è la vera luce, inversione di cui è responsabile il raggiro che è la vita, la quale per conservarsi ribalta le cose e copre il mondo di menzogna, una frazione di sapere bugiardo; anche questa, dopotutto, parte del nostro castigo:

L’uomo rappresenta una crisi nel sonno del mondo. Svegliandosi, egli ha scosso tutto, compresa l’incoscienza delle cose. Ora sembra desta l’intera natura, che rivolge delle esortazioni al riposo, alle quali egli può rispondere solo con la compassione. Il sonno è la legge dell’universo; noi l’abbiamo infranta. Il castigo lo conosciamo, e non ne possiamo più… (p. 194).

È il sapere intollerabile di avere la morte cucita addosso, che prima o poi non ci saremo, che la fine sarà inevitabile. Redimere questa condizione è fare amicizia con il finire, benedire il nulla che verrà, provare gioia per questo pensiero.

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