Giorgia Maddalon è laureata in Lingue per l’interpretariato e la traduzione (inglese - spagnolo) all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) con tesi finale su “Hobbes interprete di Tucidide: analisi linguistica della traduzione inglese della Guerra del Peloponneso e la sua eredità nelle Relazioni Internazionali”. Attualmente è iscritta al corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carlo di Roma
Recensione a
Seyla Benhabib, I diritti degli altri
Cortina Raffaello, Milano 2006, pp. 208, €19,80.
Giovanni Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei
Rizzoli, Milano 2000, pp. 122, €11,00.
Dopo la catastrofe umanitaria del ventesimo secolo (dai genocidi dei totalitarismi alle drammatiche conseguenze del lancio della bomba atomica), è chiaro come il riconoscimento dei diritti dell’uomo e il trattamento dei più deboli costituisca la chiave di volta su cui si basa il rapporto tra etica e diritto e, soprattutto, la cartina di tornasole per misurare la democraticità e la civiltà di un organismo sociale. In epoca moderna è con Kant che il primato della morale sulla politica viene teorizzato nella sua opera del 1795 Per la pace perpetua, mentre Leonardo Sciascia, citando Lo straniero di Camus, ricordava come «essere stranieri, nella verità o nella colpa, e insieme nella verità e nella colpa, è un lusso che ci si può permettere quando c’è l’ordinamento di un sistema».[1]
L’identità è quindi sempre stata categoria dinamica che include la differenza e l’alterità in sé; ma in un mondo globale con migrazioni di massa, dove i diritti degli uomini non sono globali, in cui la cittadinanza si è sfilacciata e dove il principio stesso della sovranità nazionale viene posto in discussione, come si fa a tenere insieme i diritti degli “altri” con quello delle democrazie a chiudersi in sé? È Seyla Benhabib, nel suo libro I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, a proporci un esame dei confini della comunità a partire dalle questioni dell’appartenenza.
Cos’è l’identità? E quali sono le criticità che questa pone oggi alla politica? Filo conduttore di tutta la sua opera è il tentativo di articolare una teoria narrativa della cultura dove la relazione io-altri, con un “Noi” che presuppone sempre un “Loro”, diventi l’aspetto fondante dell’individuo e della collettività. Attraverso un dialogo narrativo tra culture e la rivalutazione della relazione tra identità e differenza, l’Autrice ci guida lungo un percorso che aspira, come meta finale, a un modello a metà strada tra multiculturalismo e universalismo.
Lo Statocentrismo – l’idea che lo Stato sia l’unità fondamentale morale e politica – e il conseguente controllo dei confini nazionali risultano, secondo la filosofa americana di origini turche, empiricamente anacronistiche e dovrebbero essere messe in discussione quando si parla di giustizia globale e di immigrazione, quest’ultima concepita nella sua veste di fenomeno sociale calato nel contesto storico delle relazioni internazionali.
Benhabib considera quanto le questioni costituzionali e politiche contemporanee abbiano messo in relazione gli Stati frammentando, però, nelle diverse e molteplici esistenze umane l’istituito della cittadinanza nazionale. A tal proposito, la grande tradizione della filosofia politica appare inadeguata a dare risposte convincenti sulla società globale odierna e, in particolar modo, sulle migrazioni transnazionali facendo emergere il dilemma costitutivo che sta al cuore delle democrazie liberali: quello tra rivendicazioni del diritto sovrano all’autodeterminazione e l’adesione ai principi universali dei diritti umani. Quando si afferma la moralità politica dei diritti umani, si dichiara nello stesso momento che esistono cose che gli Stati non possono fare per nessuna ragione. I diritti umani rappresentano un limite all’esercizio della sovranità e una precondizione della democrazia che si può esercitare fino a quando non viola la democrazia stessa.
Se il diritto internazionale ha indubbiamente fatto passi in avanti in contesti in cui il diritto degli individui è arrivato a prevalere su quello degli Stati riconoscendo comune a tutti l’eguale dignità di essere uomo, tuttavia è sui diritti degli immigrati che permane tuttora un ambiguo silenzio. Basti pensare che nella Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 – che si eleva a modello comune a tutti i membri della famiglia umana – non viene però postulato nessun obbligo universale di ospitalità da parte degli Stati né di concessione di cittadinanza o diritto di asilo.
La teoria dell’etica del discorso fornisce la base teorica su cui Benhabib costruisce le proprie analisi partendo dalla premessa fondamentale per cui «a essere validi sono soltanto quelle norme e quegli ordinamenti istituzionali normativi che possano essere accettati da tutti gli interessati in particolari situazioni argomentative detti discorsi» (p.10) e che, quindi, presentano come fondamentali prerequisiti il rispetto morale universale e la reciprocità egualitaria. Dal punto di vista dell’etica del discorso, che nell’ambito di collettività limitate aspira ad ambizioni universalistiche, le regole dell’appartenenza politica incidono significativamente su chi non appartiene alla comunità (gli outsider) presupponendo che i soggetti esclusi dalla cittadinanza non possano intervenire come attori coinvolti nella deliberazione delle norme di esclusione e d’inclusione.
Nei cinque capitoli che costituiscono il volume si è accompagnati nel percorso di lettura e approfondimento attraverso un incessante dialogo teorico e confronto critico con Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt, Il diritto dei popoli di John Rawls – la cui teoria della giustizia internazionale incentrata sulla nozione di popolo sembra essere incapace di garantire tutela giuridica agli individui, non più entità circoscritte e collettività omogenee, ma veri organismi viventi in perenne mutazione – fino a risalire a Kant. A quest’ultimo, in particolare, viene riconosciuto il merito di aver distinto il “diritto di ospitalità” dal “diritto di visita” il cui status, però, pur essendo in grado di garantire l’attribuzione di diritti a chi assume temporaneamente la residenza di un dato territorio, resta per Benhabib ambiguo e privo di un’effettività giuridica non basandosi su un potere coercitivo esistente.
Il problema è quello di capire lo status dei diritti umani all’interno di una teoria discorsiva dell’etica quale Benhabib difende e, quindi, la conseguente distinzione tra diritti umani e diritti naturali. Questi ultimi hanno il problema della fallacia naturalistica: il vizio di ragionamento e il passaggio non giustificato dalla descrizione della realtà alla prescrizione. I diritti umani devono avere una fondazione post-metafisica e, per essere accettati universalmente, basarsi su una condivisione comune, piuttosto che sulla natura umana.
La giustificazione post-metafisica del principio universale del diritto si differenzierebbe da quella kantiana nei termini seguenti: mentre i diritti umani dal punto di vista di Kant sono derivati chiedendosi quello che ciascuno possa desiderare come legge universale (quella kantiana è una pratica monologica), invece, per Benhabib la sua giustificazione post-metafisica è discorsiva in quanto «i diritti umani rappresentano delle condizioni per l’esercizio dell’autonomia personale» (p. 106). Nel tener presente la tensione tra le aspirazioni universalistiche dei diritti umani e le specificità storiche, sociali e culturali delle comunità politiche, se ne deve negoziare l’interdipendenza riaffermando l’universale nei contesti concreti.
Veniamo così introdotti nella parte più empirica del testo dedicata alle trasformazioni attuali della cittadinanza e ai suggerimenti offerti dal paradigma europeo. Passando in rassegna gli aspetti teorici più importanti della nuova cittadinanza europea, l’intento di Benhabib è quello di coniugare la teoria politica normativa con la sociologia dello Stato e delle istituzioni per poi giungere a una teoria democratica tale da poter fare delle condizioni di accesso più estensive e aperte il fondamento di una futura cittadinanza. Partendo dal modello idealtipico di cittadinanza nel moderno Stato-nazione delineato da Max Weber e costituito da unità di residenza, soggezione amministrativa, partecipazione democratica e appartenenza culturale, si arriva a individuare le tre componenti della pratica e dell’istituzione della cittadinanza: condivisione di un’identità collettiva condivisa, privilegi dell’appartenenza politica e diritti e rivendicazioni sociali.
Perché l’Unione Europea, si chiede l’Autrice, causerebbe frammentazione nel discorso dei diritti e della cittadinanza? Il problema è che «viene a mancare quel modello unitario che combinava la residenza prolungata su un territorio con un’identità nazionale condivisa, l’esercizio dei diritti politici e la soggezione a una comune unità amministrativa» (p. 117). Ora, data la premessa per cui le istituzioni accettabili sono il risultato di pratiche argomentative in cui tutti abbiano la stessa dignità e siano capaci di portare avanti delle argomentazioni, come riesce l’etica del discorso a concepire l’identità collettiva in relazione alle questioni migratorie? È l’aspetto universalistico di tale etica e la moralità politica dei diritti umani ad avvicinare il lettore a uno spirito di apertura nei confronti degli altri senza percepire le identità collettive come qualcosa di stabile e immodificabile.
Pari diritti nella diversità: così si potrebbe sintetizzare la concezione di federalismo cosmopolitico elaborata da Benhabib, concezione che ha come obiettivo il raggiungimento di una giustizia globale. Dal momento che nessun essere umano è illegale e non è pensabile una condizione di estraneità permanente, è necessario, allora, un rafforzamento dei diritti dei rifugiati e degli immigrati, purché vengano rispettati i principi di autogoverno democratico di ogni popolo, la volontà, cioè, di chi è destinato ad accogliere i nuovi arrivati. Si parla appunto di confini porosi, più che aperti, per non ignorare le esigenze della comunità di accoglienza, ma al tempo stesso, muoversi verso una condizione di maggiore fluidità nei principi di inclusione.
Se il riconoscimento delle differenze non significa invalidare un sistema normativo nel quale si innesta lo statuto della cittadinanza, ci si può imbattere allora nel rischio che si verifichi una cittadinanza “multipla” in cui gli individui siano anche cittadini cosmopoliti, o nell’appiattimento delle diversità sociali? Come conciliare i due aspetti? Con Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Giovanni Sartori affronta il fenomeno dell’immigrazione, tanto più problematico quanto più il tema del pluralismo e del multiculturalismo risulta oggi di grande attualità. Quello di Sartori è un libro di teoria della buona società fondata sulla tolleranza e sul consenso e che ha come codice genetico il pluralismo. È quest’ultimo che «decifra meglio di ogni altro concetto le credenze di valore e i meccanismi che hanno storicamente prodotto la società libera e la città liberale» (p. 17), ma essendo concetto alquanto complesso per servire da filo esplicativo in un contesto di democrazia liberale fondata sulla concordia discors, si serve della tolleranza come valore cui legarsi intrinsecamente, seppur con differenze di fondo. «La tolleranza rispetta valori altrui, mentre il pluralismo afferma un valore proprio. Perché il pluralismo afferma che la diversità e il dissenso sono valori che arricchiscono l’individuo e anche la sua città politica» (p.19), osserva l’Autore.
Un consenso arricchito e alimentato da dissenso può emergere, però, soltanto quando la società pluralistica consente il passaggio dalla fazione al partito politico: è solo con il pluralismo che diventa concepibile il dividersi “buono” e considerare i partiti come parti di un intero, poiché «fuori dal pluralismo il partire, il dividersi e parteggiare, è cattivo, è essere parte contro l’intero, a danno dell’intero, e cioè fazione» (p. 24). Sartori è attento nel denunciare però l’impoverimento del concetto e dell’estensione semantica del termine pluralismo che perde la sua credenza di valore e finisce, soprattutto negli anni Cinquanta, per essere sminuito a «parola librata al vento che suona bene ma che significa poco» (p. 26). Pluralismo non è essere plurali, e per non cadere nella trappola del semplicismo intellettuale il libro ci accompagna lungo un percorso di analisi che, distinguendo il pluralismo come credenza, il pluralismo sociale e il pluralismo politico, ci conduce all’interno di una società pluralistica che ammette e rispetta la diversità, i corpi intermedi, le associazioni. Un tessuto sociale aperto all’associazionismo che, però, deve contemplare atteggiamenti tolleranti, associazioni volontarie e multiple. Si tratta quindi di ripartire la società lungo cleavages intersecanti e incrociati tra di loro.
È propria della natura umana la ricerca costante di appartenenza e identificazione in organismi nei quali potersi riconoscere: anzitutto in comunità concrete di vicinato, ma anche in estese comunità simboliche. Ciò che allora deve essere difesa in quanto infrastruttura primordiale che assurge a vero identificatore è la comunità. E l’unico modo di intenderla, dice Sartori, è «mantenere la distinzione tra noi e loro […] l’alterità è il necessario complemento dell’identità: siamo chi siamo, e come siamo, in funzione di chi o come non siamo […] un “noi” che non è circoscritto da un “loro” nemmeno si costituisce» (pp. 43-44).
Sartori non crede alla diffusa apertura cosmopolitica e nel rapporto pluralismo-comunità ritrova il nocciolo della questione: in quale misura, si domanda, il pluralismo slarga e diversifica la nozione di comunità? Può una società pluralistica accogliere immigranti che rifiutano i principi del vivere democratico occidentale e con una visione del mondo di tipo teocratico? Insomma, può il pluralismo accettare la propria frantumazione? No, è la risposta di Sartori. Esiste un punto oltre il quale il pluralismo non può andare: il principio di reciprocità nel quale «il beneficato (chi entra) ricambia il beneficamente (chi accoglie), riconoscendosi in debito» (p. 50). Pluralismo è quindi vivere insieme in differenza e con differenze.
Sartori rileva, infatti, che il multiculturalismo, cui è dedicata la seconda parte del libro, non è necessariamente antitetico rispetto al pluralismo, a meno che esso non venga interpretato come antipluralistico, figlio dell’incrocio tra le teorie foucaultiane e quelle dei neo-marxisti inglesi e negante, quindi, il pluralismo a tutto campo «sia per la sua intolleranza, sia perché rifiuta il riconoscimento reciproco, sia perché fa prevalere la separazione sull’integrazione» (p. 58). E pluribus unum è formula che compendia l’operare del pluralismo, mentre e pluribus disiunctio andrebbe a compendiare i frutti di un multiculturalismo cattivo.
Giungendo al tema centrale dello scritto, ossia l’immigrazione e i conseguenti scenari di diversità linguistiche, religiose, etniche e di costume, emerge chiaramente che una politica d’immigrazione che fa di ogni erba un fascio, incapace di distinguere tra le varie estraneità, è una politica destinata a fallire. La banale verità è allora che l’integrazione avviene tra integrabili e che la cittadinanza concessa a individui non integrabili porta solo a disintegrazione. Ed è in questo senso che Sartori vede tracciarsi la situazione più a rischio proprio in Italia e Francia per la loro politica eccessivamente “aperta”.
Nelle conclusioni l’Autore mette infine in risalto come gli effetti della politica multiculturalista siano fondati sul prevalere del concetto di eguaglianza rispetto a quello di libertà. Il problema identitario sembra capovolgersi quando viene trasferito dal Nord America all’Europa. Se negli Stati Uniti e in Canada si tratta di riconoscere l’identità di minoranze interne, in Europa, invece, il problema è invece quello di salvare l’identità dello Stato-nazione da una minaccia culturale esterna derivante dall’arrivo in casa di culture profondamente estranee.
Ecco che allora nel dibattito contemporaneo sulle migrazioni mondiali ritorna in auge il dilemma etico-politico che scaturisce dal contrapporsi fra un’etica dell’ospitalità e un’etica della sicurezza. Risulta evidente, quindi, quanto l’obiettivo di una convivenza pacifica tra popoli diversi sulla base dei contenuti universali dei diritti umani e la funzione della filosofia morale in grado di consegnare alla società umana la fiducia intellettuale nel valore dei suoi ideali sia oggigiorno indispensabile.
Da un lato, Benhabib crede nel rispetto universale verso l’altro come perno per una sempre maggiore comprensione reciproca, nonostante da un punto di vista psicoanalitico e culturale ciò sia molto difficile perché le narrative dell’alterità ci rendono difensivi. Questo sfortunatamente sembra essere l’attuale scenario globale che vede, a volte, la mancanza di una base chiara di diritti umani e la continua lotta alla loro interpretazione. Dall’altro, oltre trent’anni fa Sartori scriveva: «sento il mio tempo come un tempo di divario crescente tra la buona società che cerchiamo e i modi e i mezzi per conseguirla».[2] Più tutti i nostri mondi di vita si incontrano, e meno siamo capaci di comprenderci tra di noi. È forse così perché abbiamo creato un mondo sempre più complicato che riusciamo sempre meno a capire a controllare?
[1] L. Sciascia, A ciascuno il suo, Einaudi, Torino 1966, p. 69.
[2] G. Sartori, Undercomprehension, in Government and Opposition, n. 4, 1989, p. 391 (trad. It. Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano p. 114.