Dino Cofrancesco (Arce, 1942) è Professore emerito di Storia delle Dottrine Politiche dell’Università di Genova. Ha diretto il Centro per la Filosofia Italiana e il Centro internazionale di Studi Italiani dell’Università di Genova. È nel Comitato Scientifico o Direttivo delle riviste ‘Nuova Storia Contemporanea’, ‘Il Pensiero Politico’, ‘Libro Aperto’, ’Quaderni di scienza politica’, ’Civitas et Humanitas’. Ha collaborato al ‘Corriere della Sera’, al ’Foglio’, a ’Libero’, al ‘Riformista’, al ‘Dubbio’. Ha scritto saggi sul liberalismo, sullo stato nazionale, sulla destra radicale.
L’illuminismo nelle sue varie declinazioni – anglo-scozzese, francese, tedesca, italiana, nordamericana – ha rappresentato il punto d’approdo di un faticoso processo di emancipazione dello spirito umano dai vincoli della Tradizione iniziato nelle grandi Università medievali con le loro dispute tra realisti e nominalisti e proseguito nel Rinascimento e nel secolo della scienza nuova di Descartes, Galileo etc.
A caratterizzarlo sono state la fede nella ragione —di cui sono stati dotati tutti gli abitanti della terra — e la rivendicazione di una libertà intellettuale che non avrebbe più consentito al dogma di interferire nello studio della natura e nella ricerca disinteressata della verità.
E tuttavia almeno a una componente dei Lumi — soprattutto in Francia — si deve, altresì, una caratteristica della civiltà moderna che, almeno sui tempi lunghi, non sarebbe stata funzionale al consolidamento del modello politico liberaldemocratico. Mi riferisco alla ― più o meno consapevole ― diffidenza nei confronti di quel ‘pluralismo dei valori’ che contrassegnava l’ancien régime e che resta, in qualche modo, a fondamento della ‘società aperta’. Se il razionalismo universalista fa giustizia di tutti i ‘pregiudizi’, quanti ne sono portatori possono tutt’al più essere tollerati, in attesa che la loro genìa si estingua biologicamente o che rinunci ai vecchi abiti e costumi, per collaborare al trionfo del progresso.
Si trova qui la genesi lontana dell’ingegneria sociale: la verità è una — nella morale come nella scienza, come nella politica. Scienza contro superstizione, diritto contro privilegio, morale naturale contro pregiudizio tribale, libertà contro dispotismo: ormai gli uomini adulti dovevano scegliere da che parte stare, con la consapevolezza che da una parte stavano i Valori e dall’altra le subdole arti di Satana. Veniva così rimossa una volta per tutte la saggezza degli Antichi che sapevano bene come la tragedia del vivere non sta nella lotta tra il bene e il male, ma tra ragioni incompatibili: il conflitto insanabile tra Antigone e Creonte, tra Cesare e Pompeo, tra Ottaviano e Marco Antonio.
È una saggezza che giunge fino a Shakespeare e dalla quale fu profondamente segnato il nostro Benedetto Croce, forse l’ultimo dei moralisti classici. In Antonio e Cleopatra (1607) il più grande drammaturgo del mondo moderno (non amato et pour cause da Voltaire), così reagiva alla morte del nemico Antonio:
Oh Antonio! Io t’ho inseguito fin qui… ma siamo noi stessi i fabbri dei nostri danni. Conveniva o ch’io fossi mostrato a’ tuoi sguardi in uno stato di degradazione, o che spettatore divenissi della miseria tua. Abitare insieme non potevamo in un medesimo mondo. Mi sia concesso però di versar lagrime di sangue sulla fatalità dei nostri destini; concesso mi sia di gemere per te, fratello, mio collega in tutte le imprese, mio compagno all’imperio, mio amico, e commilitone nei primi ordini di battaglia; per te, braccio destro di Cesare, cuore da cui il mio traeva il suo ardire e i suoi nobili sentimenti. Ah le inconciliabili nostre stelle dovevano dunque così dividere le nostre eguali fortune per condurci a tal misero fine?.
Con la Rivoluzione francese — che della stagione delle Lumières può considerarsi l’esito non scontato ma neppure inintelligibile ― questo linguaggio non avrebbe avuto più senso ma con il vecchio modo di sentire si sarebbe chiuso un intero capitolo della storia del genere umano: quello in cui i valori e gli interessi stavano tutti sullo stesso piano, non disponendosi su un scala ascensionale in un “mondo pieno di dei”, sicché il loro conflitto poteva essere risolto solo con il confronto politico (e con la conta dei voti dei cittadini pleno jure, nei rari casi in cui esisteva una qualche forma di democrazia) o con la prova di forza militare (la guerra vista come la politica con altri mezzi).
La falce giacobina avrebbe tagliato tutta la gramigna dei pregiudizi antichi — dovuti al dominio aristocratico e clericale ― e nel ‘mondo nuovo’ la libertà, il rispetto, la dignità sarebbe stati appannaggio solo dei citoyens responsabili, educati al culto della Dea Ragione.
Era un’antropologia politica sconvolgente e rivoluzionaria che fu subito colta dal conservatore liberale Edmund Burke nelle sue Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia (1790):
in questo secolo illuminato […] noi Inglesi siamo generalmente uomini legati ai sentimenti più naturali, uomini che invece di disfarsi di tutti i vecchi pregiudizi preferiscono coltivarli e persino, a nostra maggiore vergogna, aggiungerò che li coltiviamo proprio in quanto pregiudizi, tanto più cari quanto più lunga e più remota ne è stata l’esistenza. E ci guardiamo bene dal permettere ad esseri umani di vivere e agire sulla sola scorta dei lumi della propria individuale razionalità, perché sospettiamo che tale scorta sia assai limitata in ogni individuo e che pertanto sia meglio per ciascuno avvalersi del patrimonio generale di esperienza accumulato, dai popoli nel corso di lunghi secoli. Sicché molti dei nostri filosofi preferiscono impiegare la loro sagacità nella scoperta della latente saggezza riposta in molti di quei vecchi principi piuttosto che nella loro irrimediabile distruzione.
Se trovano in essi un qualche elemento di saggezza, come quasi sempre avviene, preferiscono continuare nel pregiudizio che pur racchiude in sé un elemento di razionalità, piuttosto che spogliare il nudo elemento razionale di qualsivoglia veste di pregiudizio, giustamente ritenendo che ogni pregiudizio, con la ragione in esso racchiusa, costituisca un movente forte abbastanza per attuare il principio razionale insito in esso mentre racchiude in sé un elemento affettivo tale da garantirne la permanenza nei cuori umani. Il pregiudizio è di facile applicazione nei casi di estremo pericolo; immerge la mente in uno stabile fluire di ragione e virtù che condiziona immediatamente le risoluzioni umane evitando all’individuo momenti di penosa indecisione e di irresolubile scetticismo. Il pregiudizio fa un’abitudine della virtù dell’individuo, che altrimenti potrebbe esercitarsi solo saltuariamente. Infine è attraverso il pregiudizio che il dovere diviene parte della nostra natura.
Se riflettiamo sugli istituti della mente del XXI secolo, la filosofia di Burke è quanto di più lontano si possa immaginare dalla filosofia che ispira l’universalismo etico (laico e cattolico), il politically correct, il pacifismo arcobaleno, le lotte di riconoscimento del gender, etc. Oggi il pregiudizio è il sostantivo al quale si accompagnano gli aggettivi più esecrabili, che suscitano spettri ben peggiori di quelli evocati nelle pitture nere di Goya: il pregiudizio razziale, il pregiudizio maschilista, il pregiudizio nazionalista, il pregiudizio antisemita, il pregiudizio religioso, il pregiudizio occidentalista, etc.
A scanso di fraintendimenti, è innegabile che molti pregiudizi siano umilianti per le loro vittime e che si debba all’Illuminismo la loro denuncia — anche se talora soltanto col passare degli anni: Voltaire era razzista e antisemita, ma tali pregiudizi, oggettivamente, mal si conciliavano con la sua più autentica filosofia — e una legislazione civile che li rendeva irriti e nulli. Esempio classico, l’emancipazione degli ebrei, non a caso simbolo dello Stato moderno risorgimentale che abbatte le porte del ghetto di Roma (e anni dopo vedrà sorgere sulle rive del Tevere la grande sinagoga). E tuttavia una serie di considerazioni rendono problematica l’accettazione senza riserve dell’eredità dei Lumi. Ne elenco qualcuna:
- il fatto che il pozzo nero dei pregiudizi sia senza fondo sicché ogni giorno spuntano gruppi sociali perseguitati da difendere, associazioni che se ne fanno carico, tribuni che sulla loro denuncia fondano le loro carriere politiche sicché continuamente si invocano leggi nuove, non ritenendosi le vecchie efficaci e sufficientemente punitive;
- la tendenza ad affidare la decisione su chi buttare nel pozzo nero dei pregiudizi non al ‘popolo sovrano’ (reso immaturo da secoli di ‘educazione sbagliata’) ma ai suoi rappresentanti e, se questi non si mostrano all’altezza del loro ruolo istituzionale, ai giudici, non più rigidi applicatori delle leggi fatte dal Parlamento, ma custodi di Diritti che vanno riconosciuti e fatti valere anche in mancanza di decisioni prese dal Legislativo;
- lo zelo ideologico elevato a valore supremo: la ‘virtù’, sempre all’ordine del giorno, consiste non solo nell’attenersi, personalmente, ai dictamina rectae rationis, nei rapporti politici, sociali, familiari etc.― ma altresì a vegliare sia sul prossimo quando di quei dictaminanon sembra tener conto, sia su noi stessi giacché, per fare un esempio, razzisti non sono soltanto agli altri, ma possiamo esserlo anche noi, senza che ce ne accorgiamo;
- l’idea che l’abito faccia il monaco e che, pertanto, come le divise fanno i soldati così le leggi fanno i costumi. Da una società da secoli ‘male educata’ non ci si può aspettare nessun progresso civile, occorre pertanto che siano gli ’illuminati’ a pianificare i comportamenti che, col tempo, da coatti diverranno spontanei.
Viviamo in una società ‘pluralista’ in cui ci si ripete ossessivamente che dobbiamo rispettare tutte le opinioni, tutte le visioni del mondo, tutte le credenze religiose, ma quando poi si va al dunque ci si accorge che non tutto ciò che sentiamo e pensiamo ha diritto al rispetto e che l’eguaglianza vale solo per chi se la merita.
C’è un’interpretazione ufficiale del fascismo, per esempio, incorporata nel credo democratico e repubblicano, che non tollera alcuna deviazione ― del tipo, “il fascismo fu una dittatura con qualche tentazione totalitaria ma ha fatto anche qualcosa di positivo” — e che fa pensare alla ‘legge dei sospetti’, varata nel periodo terroristico della Grande Révolution. Si può ritenere, altro esempio, che la sola famiglia naturale sia quella formata da un uomo e da una donna, ma non è lecito dirlo in una aula scolastica e, in ogni caso, qualora si approvasse la legge che impone sulla carta di identità la dizione Genitore Uno/Genitore Due, si sarebbe costretti a rassegnarsi a ciò che, per una mentalità tradizionale, costituisce un’aberrazione.
Gli uomini, come sono ora, mostrano troppi difetti, troppi pregiudizi, troppi preconcetti: bisogna rieducarli, liberarli dalle scorie depositate nei loro animi dalla storia e dalla tradizione, renderli tutti eguali. Può esserci un vero pluralismo se si parte da questa idea? Il simbolo di Giovanna d’Arco può davvero essere oggetto di ossequio accanto a quello dell’Albero della Federazione, come sentiva Charles De Gaulle, portatore di una idée de la France che abbracciava tutte le sue componenti storiche, sicché all’intervistatore che gli chiese conto della sua benevolenza verso il Pcf, rispose: “anche loro sono parte della Francia”?
In realtà, l’ideale vero dell’Illuminismo nella sua versione francese è l’eguaglianza che esclude decisamente la diversità che contrassegna, invece, il pluralismo e vede nella stessa libertà una minaccia allorché la dialettica degli interessi e dei valori crea disuguaglianze. Ciò che, nella Democrazia in America del 1835, Tocqueville scriveva delle società democratiche era, in definitiva, il portato dell’89.
Non è che i popoli, il cui assetto è democratico, siano portati necessariamente a disprezzare la libertà; anzi hanno per essa un amore istintivo. Ma la libertà non è l’oggetto principale e continuo del loro desiderio; ciò che amano d’un amore eterno è l’eguaglianza. Essi si slanciano verso la libertà con rapidi impulsi e sforzi improvvisi, ma, se falliscono lo scopo, finiscono per rassegnarsi. Nulla, però, potrebbe soddisfarli senza l’eguaglianza, e preferirebbero morire piuttosto che perderla.
La libertà (e prima ancora la tolleranza) è apprezzata non come fine, come bene in sé ma come mezzo per contribuire alla realizzazione delle ‘magnifiche sorti e progressive’: la libertà deve porsi al servizio dell’emancipazione sociale, non della dignità individuale. È bello essere liberi perché solo così si possono conseguire i beni più alti che attendono l’umanità adulta: se la libertà non viene usata per questo scopo è un dono inutile, anzi nocivo, e allora è meglio essere sottomessi ai portatori del Bene e del Vero che ‘ragionare con la propria testa’ e agire di conseguenza.
Sennonché, checché ne pensino filosofi come Norberto Bobbio, che fanno dell’egualitarismo l’essenza della democrazia (e per questo vengono citati ed esaltati da veterocomunisti come Luciano Canfora), nel concetto stesso di eguaglianza, estesa a tutte le dimensioni dell’essere e dell’agire, si nasconde il germe totalitario. Anche per chi non ne condivida il palese conservatorismo, il saggio di Ryszard Legutko, The Demon in Democracy. Totlitarian Temptations in free societies (2016) contiene una illuminante pagina – sull’Ideology – alla quale è difficile controbattere:
Egualitarismo e dispotismo non si escludono a vicenda, ma di solito camminano mano nella mano. A un certo punto, l’eguaglianza richiede il dispotismo giacché, al fine di rendere tutti i membri della società eguali e a mantenerli tali per un lungo periodo di tempo, è necessario mettere in piedi istituzioni di controllo con un potere eccezionale in modo da renderle in grado di neutralizzare ogni minaccia potenziale all’eguaglianza in ogni settore sociale e in ogni aspetto della vita umana; per parafrasare le note parole di uno dei personaggi di Dostoevskij: “cominciamo dall’eguaglianza assoluta e finiamo con l’assoluto dispotismo”. Alcuni lo chiamano il paradosso dell’eguaglianza: quanto più si viola il principio dell’eguaglianza, tanto più si è in condizione di farla regnare nel mondo.
Sono analisi fatte da tempo immemorabile: che divinità come Pluralismo ed Eguaglianza siano conciliabili solo nell’empireo buonista è scontato per i professionisti del lavoro intellettuale allergici a ogni tipo di retorica. Forse, però, non si è messa in luce, come si sarebbe dovuto, la ragione ‘esistenziale’ per cui la nostra società rende continuamente, ossessivamente, omaggio all’eguaglianza. Questa ragione sta nel fatto che, in un mondo in cui tutti i valori vengono passati al setaccio della Ragione, quelli che superano la prova si ritrovano, per così dire, privi di compagnia :solo pochi li sentono e li vivono realmente, gli altri li avvertono come estranei e lontani dal loro vissuto, e tuttavia, per quieto vivere, non si esimono da un ossequio apparente.
D’altra parte, la martellante propaganda ideologica, che li fa sentire in colpa per aver adorato “dèi falsi e bugiardi”, li svuota progressivamente dei loro ricordi, fa perdere ad essi ogni aura di tenerezza e di nostalgia. Non hanno più certezze e l’unica sicurezza deriva ormai dal mainstream culturale: l’essere onde di un fiume che si muove nella stessa direzione. “Non ci credo, ma se tutti fanno così…”.
Il Moloch dell’egualitarismo è inesorabile: i cuori debbono battere all’unisono per le stesse idealità, le menti segnare il vero come gli orologi svizzeri che spaccano il secondo. Le humanities, che un tempo miravano a far conoscere la ‘realtà effettuale’, oggi hanno la funzione (pedagogica) di prefigurare, con esempi accuratamente presi dalla vita quotidiana, la realtà come dovrebbe essere, una volta liberata dalla violenza, dal razzismo, dal fascismo, dal fondamentalismo, etc. I regimi totalitari e/o autoritari portavano sullo schermo eroi positivi perché fossero d’esempio ai tiepidi, a quanti non avevano ancora interiorizzato i valori rivoluzionari; la società egualitaria porta sullo schermo i ‘cattivi’, i violenti, i sessisti, i razzisti perché siano esempi del lavoro di ‘ripulitura sociale’ che c’è ancora da fare. In tv, al cinema, a teatro, persino negli spettacoli sportivi e canori, l’ambizione di tutti è ‘lanciare un messaggio’ e, al contempo, mettere in guardia dalle opere che potrebbero essere ‘controproducenti’.
In fondo, anche tra le minoranze etniche vi sono persone poco raccomandabili ma non mi è mai capitato di vederne una protagonista di un film o di una commedia teatrale. Un regista può anche raccontare una storia in cui qualche afroamericano risulti un individuo diciamo così poco raccomandabile, ma, in questo caso, di tratta di persona nata in un quartiere povero, vittima della società bianca (e dei suoi poliziotti), costretta a drogarsi e a spacciare. Le ‘storie’ debbono essere esemplari e gli attori stare da una sola delle due parti della lavagna: o di qua con i cittadini redenti e responsabili o di là con gli altri. È difficile imbattersi in un’opera d’arte che dia il senso della complessità di quell’atomo opaco del male che è il nostro mondo o dei chiaroscuri diffusi nella lunghissima retta che sta tra il polo bianco e quello nero. I messaggi debbono essere tutti ‘edificanti’ e se il diavolo non appare brutto come è imposto di dipingerlo, ci si espone all’accusa di tradire gli ideali democratici, di ’pugnalare’ la Costituzione.
Purtroppo, quando si parla della ‘dittatura del politicamente corretto’ in genere la si presenta come una malattia morale che ha colpito l’Occidente in questi ‘anni di transizione’. In realtà è un morbo che viene da lontano: da quell’Illuminismo che, da una parte, ci ha emancipato dalla Superstizione – basta vedere il bellissimo film di Milos Forman del 2006, L’ultimo Inquisitore, per rendersene conto –, dall’altra, ci ha voluto liberare da tutti i nostri pregiudizi, misconoscendo la lezione di Edmund Burke e soprattutto ignorando che la persona umana non è un armadio in cui sono custoditi oggetti di valore (i’valori’ appunto) assieme a inutili e ammuffite cianfrusaglie, sicché compito del ‘philosophe’, divenuto uomo di Stato, è quello di custodire i primi e gettare le altre nell’immondezzaio. In noi vizi e virtù, difetti e pregi, impulsi naturali e controlli razionali convivono confusamente e spesso le qualità positive ricevono la vita da quelle negative e quelle negative, per converso, possono ulteriormente depravarsi con l’aiuto delle prime (‘corruptio optimi pessima’). Può persino capitare che parole che, lì per lì, fanno pensare a un pregiudizio razziale vengano dette ironicamente proprio per trasformare un proiettile vero in un proiettile a salve.
Se ci si pensa bene, tutto l’ambiente sociale in cui viviamo è pieno di pregiudizi. Terroni sono gli abitanti del Sud, polentoni quelli del nord; i piemontesi sono ‘falsi e cortesi’, i liguri avari, i siciliani tutti mafiosi, i napoletani tutti camorristi (solo l’Abruzzo è forte e gentile’, ma è l’eccezione che conferma la regola). Se si dovessero prendere alla lettera tutto ciò che esce dalla nostra bocca, non si finirebbe più di denunciare quanti deragliano dai binari della virtù repubblicana.
La vittima maggiore di quel politicamente corretto, le cui radici illuministiche sono innegabili (se tutti gli uomini sono uguali, tutti hanno diritto al rispetto e alla dignità sicché non sono consentite espressioni che li ‘diversifichino’ dagli altri né sono perdonabili azioni, sia pure commesse dai grandi attori della storia universale, che li abbiano degradati a esseri inferiori), è la comicità. Può esistere, infatti, una comicità senza ‘cattiveria’, senza presa per i fondelli, senza ammiccamento a pregiudizi e luoghi comuni? I difetti umani – ad es., la balbuzie o lo zoppicare – non sono risorse atte a suscitare il riso degli spettatori? La vita è piena di luoghi comuni, a prenderli sul serio, assai poco esaltanti.
La servetta sullo schermo che parla veneto o ciociaro può non gratificare (specie se non sono spiritose) le donne di Treviso o di Frosinone, ma fanno ridere proprio perché uno se le aspetta provenienti da quelle regioni. Dovremmo passare la nostra vita a correggere canzoni come ‘Caravan petrol’(1958) dell’indimenticabile Renato Carosone sostituendo l’offensivo “Allah Allah Allah ma chi tha ffatto fa” con il neutrale “Pascià, pascià, pascià..”? Dovremmo rimuovere le esilaranti scenette di vita campestre di Un, due, tre (1954-1959), dove Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi interpretano gli ottusi delle varie regioni italiane – come il fabbricante di bugnon delle valli dolomitiche?
Un’ultima considerazione che riguarda i ‘costumi’. I pregiudizi razziali si superano – o al contrario si consolidano giorno per giorno – nella vita e nelle pratiche quotidiane. Il bravo ‘uomo di Marrakesch’ che nel negozio sotto casa vende la frutta, se fa bene il suo lavoro, è affabile e gentile con i clienti, non sarà mai visto – o comunque trattato – come diverso e tanto meno come razzialmente ‘inferiore’. Nello ‘scambio sociale’ non intervengono gli imperativi buonisti ma, appunto, i vissuti e le esperienze concrete. Nello straordinario film di Clint Eastwood, Gran Torino (2008), il protagonista, il veterano di guerra Walt Kowalski, lotta con successo contro i pregiudizi che albergano nel suo animo grazie alle vicende in cui si trova, suo malgrado, coinvolto. Le leggi che puniscono il razzismo o le lezioni della Columbia University sul multiculturalismo sono cose per lui lontane, appartenenti a un universo ‘intellettuale’ che non è il suo. È nella quotidianità che mette radici la considerazione dell’“altro” come eguale a noi, dotato degli stessi diritti e degno dello stesso rispetto che esigiamo per noi. Non solo le leggi antirazziste (o antifasciste) non ci rendono ‘migliori’ ma potrebbero attivare un’insofferenza tale da renderci peggiori. Una società democratica e pluralista (posto che si riesca ad averla) non tollera l’“eterodirezione”, i catechismi repubblicani, i riti coatti e non sentiti. Ci impegniamo a ‘fare i buoni’ ma lasciateci, almeno in parte, i nostri difetti e non infierite, più di tanto, sui nostri pregiudizi.
[articolo originariamente apparso su “HuffPost.it” il 16 settembre 2021]