Antonio Cioffi è titolare della cattedra di Didattica dell’arte, docente di Sociologia dell’arte e dei nuovi media presso l’Accademia di Belle Arti Brera (Milano), dove ha ideato il Biennio di Didattica multimediale; docente a contratto presso l’Università di Verona; è stato Visiting Scholar presso la Brown University di Rhode Island e coordinatore di diversi progetti finanziati dalla Commissione Europea.

In the elder days of Art,
  Builders wrought with greatest care
Each minute and unseen part;
  For the Gods see everywhere[1].

Hans Adolf Bühler, autoritratto in Nachtigallenlied – Präludio (H-Moll) [“La canzone dell’usignolo – Prelu-dio (Si minore)”], 1917/18, incisione, cm 48×37,5 (foglio).

Henry Wadsworth Longfellow

A pochi giorni dal Solstizio d’inverno del 2010, la versione online della testata tedesca «Badische-Zeitung» riportava la notizia secondo la quale nella cittadina di Steinen in Germania, nel pittoresco distretto di Friburgo in Brisgovia, nello stato federato di Baden-Württemberg, la giunta comunale stava discutendo di una delicata vicenda, una di quelle querelle che testimoniano lo spesso contraddittorio procedere della storiografia ufficiale lungo percorsi critici sempre in precario equilibrio fra ragione e sentimento, fra politica e propaganda; in definitiva fra Storia e Mito. Da parte del gruppo indipendente progressista “Gemeinschaft für ein lebenswertes Dorf” (“comunità per un paese sostenibile”), nella persona del portavoce Stefan Mohr, è stata avanzata la richiesta ufficiale, da sottoporre al voto della giunta, di revocare la cittadinanza onoraria concessa nel 1936 ad Hans Adolf Bühler, pittore, nato appunto a Steinen il 4 giugno del 1877 ed al quale la cittadina aveva successivamente dedicato anche una strada, la Hans-Adolf-Bühler-Straße, che avrebbe dovuto essere, secondo la petizione, conseguentemente rinominata⁠.

Hans Adolf Bühler è stato un artista che si è perfettamente inserito nella tradizione tedesca völkisch neo-romantica e simbolista del suo tempo. Abilissimo disegnatore, la sua pittura risolveva soggetti figurativi ispirati alla mitologia classica e nordica, con una vena fortemente visionaria: sulle figure aleggia una sorta di delicata, quasi muliebre, atmosfera magica, che non scade mai nella sfacciata messinscena simbolista ma piuttosto tratteggia — con soavità e discrezione — suggestioni sottilmente esoteriche. Il suo segno è talvolta quasi calligrafico, privo tuttavia dei tormentati arabeschi che hanno caratterizzato talvolta l’art nuveau, alla quale il nostro pare talora inaspettatamente ricollegarsi. Una certa secchezza d’insieme conferisce alle sue composizioni una stabilità di sapore neoclassico, mentre un inquieto senso di incombenza — quasi di predestinazione — permea l’insieme, unificato, nei toni bassi, più che dalla drammaticità da una sorta di profonda meditazione. Nei paesaggi, soggetto che Bühler considera più mitologico che naturalistico, un carattere contemplativo sorprende una Natura intesa come onirica ierofania.

Il suo vivo interesse per le scienze ermetiche quali la magia e l’alchimia — in particolare quella spagirica — è testimoniato d’altronde dai numerosi disegni e dipinti che sembra abbiano come soggetto le diverse fasi di una sorta di trasmutazione interiore; così come dai ritratti ideali di coloro che evidentemente considerava grandi maestri del passato, come Paracelso o Jakob Bhome. È da questi che desumeva una visione olistica del mondo, concepito come universo regolato dalla corrispondenza magica — fondata sulle leggi dell’analogia — fra macrocosmo e microcosmo.

Hans Adolf Bühler, Jakob Böhme / Pfingstnacht / Bildnis des Mystikers Böhme (1575-1624) [“Jakob Böhme / Notte di Pentecoste / Ritratto del mistico Böhme (1575-1624)”], 1919/20, tempera su Eternit, cm 78,5×54,5.

Spirituale è in definitiva l’aggettivo che più si addice alla sua pittura, che è stata censurata forse proprio anche per questo dalla memoria storica successiva, la quale ha privilegiato, del Novecento, la celebrazione delle ideologiche dissoluzioni formali o — al limite — delle inoffensive eco di quella che, in altri tempi, fu conosciuta come arte a contenuto religioso. Significativo, a questo proposito, il fatto che solo per verificare le poche note di chi scrive (le quali pur non essendo esaustive riescono forse comunque a suggerire l’idea di trovarsi di fronte ad un artista di un certo calibro) ci si scontra inevitabilmente con la grande difficoltà a reperire fonti bibliografiche, fotografiche o d’archivio sull’artista; fonti che, oltre ad essere scarsissime⁠, sono disponibili solo in tedesco, non essendo stato scritto o tradotto praticamente nulla, su di lui o la sua opera, in altre lingue. E anche la rete, in casi come questo, non è praticamente d’aiuto[2].

Lo si sarà intuito, il motivo di questo vuoto, così come della petizione per la revoca della cittadinanza onoraria ricevuta dall’artista nel suo paese natio, risiede nel cosiddetto processo di denazificazione a cui è stata sottoposta la cultura e la società tedesca dopo il ’45, processo sostenuto dai vincitori della seconda guerra mondiale ed attuato dalla stessa Germania. Hans Adolf Bühler, come si può facilmente constatare facendo una breve ricerca in rete, è stato — dice Wikipedia — un “pittore tedesco rappresentante attivo della politica culturale nazionalsocialista”. E il marchio è indelebile[3].

Tavola in Hans Adolf Bühler, Das innere Gesetz der Farbe. Eine künstlerische Farbenlehre (“La legge interna del colore. Una teoria artistica”), Berlin-Grunewald / Leipzig 1930.

Allievo del pittore realista Hans Thoma e docente di pittura all’Accademia d’arte di Karlsruhe, Hans Adolf Bühler fu autore — fra l’altro — di una complessa ed affascinante teoria esoterica del colore, pubblicata intorno al 1930 in un libro dal titolo La legge interna del colore. Una teoria artistica[4]. Riferendosi apertamente alla teoria sull’armonia dei colori sviluppata dal chimico — e massone — Wilhelm Ostwald[5] e reinterpretandola alla luce di una sensibilità neoplatonica in parte rapportabile allo stesso Goethe (la teoria sul colore del quale aveva incontrato in gioventù) Bühler illustra nel suo saggio, pensato anche e soprattutto come supporto alla propria attività didattica, una corrispondenza di carattere “ermetico” fra i colori e le qualità — caldo, secco, freddo ed umido — dei quattro elementi della fisica antica (fuoco, aria, acqua e terra); si tratta degli elementi che troviamo in Esiodo, quegli stessi che Empedocle chiamava “radici” del mondo e della materia[6] e che così tanta importanza hanno avuto nella tradizione alchemica ed astrologica occidentale. Tale corrispondenza viene poi messa in relazione con le quattro stagioni e con i dodici segni dello zodiaco, ognuno associato — in rapporto di transizione — con due colori di una tavola cromatica complessiva di 24 tonalità, ottenute applicando ai tre colori primari (il giallo, il rosso e il blu) otto gradazioni acromatiche (i grigi) del bianco e del nero[7].

Insomma un artista in qualche modo in sintonia con una concezione esoterica e tradizionalista di “arte sacra”, così come autori quali Ananda Kentish Coomaraswamy, Frithjof Schuon o Titus Burckhardt ci hanno descritto nelle loro opere. Secondo tale concezione estetica, l’arte sarebbe innanzitutto, ad un livello inferiore e da parte dell’“artigiano”, il “far bene ciò che deve essere fatto” (il farlo, appunto, “a regola d’arte”)[8], mentre, ad un livello superiore, essa consisterebbe nella capacità, da parte dell’“artista”, di lasciar trasparire nella “bellezza” dell’opera — quasi per risonanza simpatica — la “verità” dell’idea[9]. Tale verità coinciderebbe con un archetipo che, rivelato apparentemente attraverso l’opera dell’artefice ma inconsapevolmente evocato dall’intera comunità (sovviene la teoria della ricezione di Jauss ma anche il concetto magico di “eggregore” del quale parla Eliphas Levi), si manifesta in qualche misura in modo spontaneo; questo spiegherebbe altresì l’anonimato degli autori, caratteristico dell’arte tradizionale orientale ma anche occidentale, almeno fino al Rinascimento[10].

La damnatio memoriae che ha colpito l’artista di cui ci stiamo occupando, è dovuta essenzialmente all’attività culturale da lui svolta proprio in ambito artistico, avendo egli ricoperto anche diversi incarichi ufficiali: convinto ed attivo oppositore del modernismo, Bühler organizzò tra l’altro, come direttore della Galleria d’arte di Karlsruher, una delle prime Schreckenskammern, le “camere degli orrori (dell’arte)”, mostre in cui venivano esibite opere d’arte moderna nella demonizzante luce di ludibrio e di condanna che successivamente caratterizzò le esposizioni itineranti della cosiddetta Entartete Kunst. Inoltre non gli fu perdonato di aver licenziato, quale direttore dell’Accademia e per i medesimi motivi, numerosi colleghi di tendenza avanguardista[11].

Die Heimkehr (“Ritorno a casa”), 1936, tempera su Eternit, cm 119,5×150.

L’opera più emblematica di Hans Adolf Bühler, certamente la più nota, è datata 1936; con il titolo “Il ritorno a casa” (Die Heimkehr) essa fu ospitata nell’edizione del 1940 della “Grande mostra dell’arte tedesca” di Monaco (Große Deutsche Kunstausstellung), la quarta delle otto esposizioni annuali che avevano lo scopo di rappresentare paradigmaticamente il “nuovo corso” dell’arte germanica a fronte delle “degenerazioni” espresse dalle avanguardie del tempo. Il dipinto, grazie alla drammatica intensità del soggetto e la fortuna che pare abbia riscosso presso le truppe impegnate sul campo di battaglia[12], ha avuto una grandissima diffusione ed è effettivamente estremamente significativo. Esso è in grado da solo di sintetizzare in maniera compiuta la maggior parte degli aspetti espressivi, formali e tematici di un’arte riconducibile — secondo l’impianto analitico proposto da A. Dugin — all’ideologia estetica fascista ed ai suoi soggetti principali[13], che in questo caso prendono la forma della natura, del sangue e della trascendenza del valore.

L’immagine coglie e raffigura il momento penoso del “ritorno a casa”, dopo la battaglia, di un soldato esausto; egli indossa una divisa della prima guerra mondiale e viene amorevolmente accolto sulle ginocchia di un’angelica figura femminile, vestita di bianco. Essa rappresenterebbe, secondo l’interpretazione più comune, l’allegoria stessa della madre patria, la quale, misericordiosa, consola lo sconforto dell’esercito sconfitto. Il riferimento immediato è evidentemente al rovinoso esito — per la Germania — della prima guerra mondiale, al riscatto del quale si appellò il nazionalsocialismo fin dalle sue origini. Ma ad uno sguardo più attento, ecco che la figura femminile, proprio per le sue caratteristiche simboliche e formali, assume l’aspetto ed il significato velato della stessa “grande consolatrice” — la morte — il cui grembo, secondo la più originaria ed universale tradizione mitologica connessa all’archetipo della Grande Madre, è contemporaneamente utero e sepolcro, luogo — terreno — di nascita e di morte, passaggio a doppio senso fra questo e l’altro mondo. E in conformità con una altrettanto arcaica concezione della fine e del destino, ciò che conta è come, si muore: il soldato che cade in battaglia rinasce, già per questo, a vita superiore[14]. E tale “morte seguita da resurrezione” esprime anche — e forse soprattutto — un valore simbolico, se non addirittura, viste le ascendenze esoteriche dell’artista di Steinen, iniziatico[15].

L’impianto figurativo del dipinto è quello consueto di Bühler, quasi da rappresentazione religiosa, sospeso in un’atmosfera mistica di sapore simbolista. Composta ed intensa, l’immagine sembra nascondere però un’allusione formale che va oltre l’allegoria e che sembra adombrare un ancor più profondo valore simbolico. La ieratica figura femminile, presenta tutte le caratteristiche archetipiche di analoghe figure simboliche dell’arte antica, si pensi per esempio alla principessa del “San Giorgio e il drago” di Paolo Uccello: una figura di donna altera ma misericordiosa, regale e caratterizzata da un nobile distacco che non le impedisce, tuttavia, di esprimere profonda passione e struggente partecipazione. Una figura di fatto assimilabile all’“archetipo psicologico” che C. G. Jung ha definito Anima, che rappresenterebbe dell’inconscio, secondo lo studioso svizzero, l’aspetto divino. Esso è riconducibile all’elemento sottile che consentirebbe all’iniziato — nell’ermetismo — di realizzare ciò che gli alchimisti chiamavano “nozze chimiche”, immagine simbolica di una sopraggiunta condizione di totalità e completezza, analoga a quella figurazione ontologica dello Spirito che il platonismo chiamava androgino primordiale.

Ma se fin qui siamo ancora nell’ambito della rappresentazione e del racconto, l’opera possiede, a nostro vedere, un ulteriore livello di significato, che proprio dal punto di vista formale — e non meramente contenutistico — sembra configurarsi come accidentale esempio di ciò che gli autori tradizionalisti dianzi citati hanno definito “arte sacra”: un’arte che, «poiché c’è un’analogia rigorosa tra la forma e lo spirito» — per usare le parole di Titus Burckhardt[16] — «(…) si basa sul simbolismo inerente alle forme» e di conseguenza produce un’immagine la cui bellezza è tale, come abbiamo già sottolineato, perché lascia affiorare l’idea che vi sta dietro, rendendo trasparenti le invisibili leggi che la reggono.

La struttura simbolica dello yin-yang presente nel Die Heimkehr.

Osservato nell’insieme, il Die Heimkehr rivela infatti una struttura segreta, non abbastanza evidente da risultare invasiva ma tuttavia sufficientemente delineata perché ne sia suggerita la presenza. Tale invisibile struttura, che molto verosimilmente si configura come la chiave d’accesso al significato profondo dell’allegoria della composizione e che sembra condurre direttamente ad un suo carattere squisitamente “esoterico”, consiste di fatto nella doppia spirale della tradizione taoista. Ancor oggi molto diffusa nella cultura estremo-orientale, attraverso il simbolo ideografico noto come yin-yang, tale spirale è tracciata nel dipinto dalle due figure che si incastrano l’una nell’altra e nella polarizzazione cromatica dello sfondo. Questo simbolo esprime fra l’altro, con la sua forma, l’equilibrio dinamico caratterizzante il rapporto reciproco che intercorre fra le polarità cosmiche, le quali, nella compagine umana, assumono tradizionalmente l’aspetto dell’uomo e della donna. Ancor più propriamente, per quanto concerne la funzione narrativa che le due figure svolgono in quest’opera, segnatamente in relazione al loro rapporto reciproco, sovviene una tradizione taoista secondo la quale, data l’attribuzione del carattere di ”attività” e di “passività” rispettivamente al principio maschile ed a quello femminile, dal punto di vista interiore tale rapporto viene invertito: l’uomo è considerato infatti essere attivo “fuori” ma passivo “dentro” e, viceversa, la donna passiva “fuori” ed attiva “dentro”; relazione espressa, d’altronde, dalla stessa configurazione grafica del simbolo dello yin-yang, che è suddiviso in due metà di colore opposto ognuna delle quali presenta, al proprio interno, la traccia cromatica dell’altra[17].

In diverse occasioni Bühler manifestò d’altronde un esplicito interesse per le tradizioni estremo-orientali, consentendoci di inscrivere in parte la sua opera nel contesto generale dell’attenzione che il regime nazionalsocialista rivolse a quelle, allora lontane, civiltà. D’altra parte, la spedizione in Tibet di Ernst Schäfer, avvenuta nel contesto del progetto Ahnenerbe volto alla ricerca delle “origini ancestrali” della razza, risale appunto al 1938.

Riassumendo e per concludere, ci troviamo di fronte ad un’opera nella quale il soggetto politico (la razza), che con le sue molteplici declinazioni sta alla base dell’ideologia fascista, si esprime appieno. Innanzitutto, nella romantica narrazione di superficie: il soldato, in quanto custode del sangue e del suolo, che a questa terra — la figura femminile — ritorna, seppur nella tragedia di un “destino” non finalisticamente vittorioso ma idealisticamente valoriale — eroico — e che perciò merita misericordia e materna consolazione, annunciatrice a sua volta di una sorta di religiosa redenzione[18]. Poi nella compagine stilistica, che opta per un realismo simboleggiante attenzione alla vita, rivolto alla natura biologica e non psicologica, espresso non attraverso un registro naturalistico e sensoriale ma, piuttosto, ordinatamente classicista. Si viene in questo modo a formulare una sorta di composizione “mandalica”, che configura una specie di “pietà” secolare, delineata nel segno di un mito inteso — ancora — come tradizione. Infine nella dimensione più profondamente simbolica (e non più simbolista), attraverso l’evocazione formale, che è radice della struttura compositiva, di quella doppia spirale che è contemporaneamente archetipo cosmologico (il maschile ed il femminile, la famiglia intesa come stirpe e concatenazione del sangue) e icona metafisica del rapporto che intercorre fra la vita e la morte; essendo innanzitutto lo yin-yang — come abbiamo detto — un simbolo dinamico della manifestazione universale.

Un dipinto che celebra, nel racconto e nel “doppio” della sua struttura segreta, ciò che l’uomo è dalla nascita in relazione alla comunità e non ciò che egli diventa in relazione a se stesso, tema tipico — quest’ultimo — della poetica delle avanguardie artistiche contemporanee a Bühler e ostracizzate dal nazionalsocialismo. In questo, Die Heimkehr richiama in parte l’arte sostenuta dalla rivoluzione bolscevica, secondo la quale però, a differenza di ciò che accade qui, la contrapposizione “natura” versus “cultura” si risolve attraverso una chiara, ideologica, propensione politica per quest’ultima.

Hans Adolf Bühler, Mutter Erde (“Madre Terra”), 1922, tempera su Eternit, cm 68×58.

Note bibliografiche:

[1] “Ai tempi antichi dell’arte, / i costruttori cesellavano con la massima cura / ogni particolare minuto ed invisibile; / perché gli dèi vedono dappertutto.” Versi tratti da “The Builders”, in The Seaside and the Fireside, Boston 1850.

[2] Le poche pubblicazioni facilmente reperibili su Bühler sono per lo più d’epoca, mai ristampate e disponibili esclusivamente sul mercato antiquario, come nel caso di Hermann Eris Busse, Hans Adolf Bühler, Verlag C. F. Müller, Karlsruhe 1931. Solo di recente tale lacuna si è in parte colmata con l’importante monografia, frutto di una tesi di dottorato, di Christina Soltani, Leben und Werk des Malers Hans Adolf Bühler (1877-1951), VDG, Weimar 2016, corredata da un ampio catalogo ragionato delle opere dell’artista.

[3] Anche in Italia abbiamo di recente assistito ad analoghe e discutibili vicissitudini, in relazione a quella parte del patrimonio artistico nazionale che è riconducibile al ventennio fascista. È sufficiente visitare la stazione Centrale di Milano per rendersi conto, osservando gli scempi architettonici e le numerose censure politiche di cui è stata oggetto nel corso degli anni, del fatto che i gruppi fondamentalisti islamici non sono evidentemente gli unici, a mostrare avversione e mancanza di rispetto per vestigia culturali non allineate alle proprie — più o meno liberali — idee politiche. Interessanti considerazioni estetiche e culturali potrebbero essere condotte sulla storia di questo straordinario edificio, inaugurato nel 1931 su progetto del 1911 dovuto all’architetto Ulisse Stacchini e che, secondo una notizia non confermata riportata da Aldo Rossi in un’intervista pubblicata nel 1999 (Aldo Rossi, Cecilia Bolognesi, Luoghi urbani, UNICOPLI, Milano), si dice essere stato definito da Frank Lloyd Wright come “la stazione più bella del mondo”; ci piace pensare che attraverso il mito — chiamato forse dai nostri contemporanei “leggenda metropolitana” o più di recente “fake news” — parlino talvolta, come nella vox populi degli antichi, gli Dèi.

[4] Hans Adolf Bühler, Das innere Gesetz der Farbe. Eine künstlerische Farbenlehre, Horen Verlag, Berlin-Grunewald 1930 / Paul List Verlag, Leipzig 1930

[5] W. Ostwald, Die Farbenlehre, Verlag Unesma G.m.b.H., Leipzig 1917. Ostwald fu Gran maestro della Gran Loggia tedesca “Zur Aufgehenden Sonne” (“Al Sol levante”), come riporta Giordano Gamberini in Mille volti di massoni, Erasmo, Roma 1975.

[6] Cfr. Giovanni Cerri, L’ideologia dei quattro elementi da Omero ai presocratici, «AION», 1998, 20, pp.5-58.

[7] Sovviene — anche in vista di ciò che si dirà più oltre circa la presenza ravvisabile nell’opera di questo autore di elementi riconducibili alla tradizione estremo-orientale — l’“ottuplice sentiero” della pratica buddhista.

[8] «Assumiamo per scontata la concezione storicamente normale e religiosamente ortodossa per la quale, come l’etica è “il giusto modo di agire”, così “l’arte è il giusto modo di fare tutto ciò che richiede di essere fatto” o, semplicemente, il “saper fare”»; A. K. Coomaraswamy, Come interpretare un’opera d’arte, Rusconi, Milano 1977.

[9] «Il simbolismo tradizionale non è mai privo di bellezza: secondo la visione spirituale del mondo, la bellezza di una cosa non è altro che la trasparenza dei suoi involucri esistenziali. La vera arte è bella perché è vera». Titus Burckhardt, Principi e metodi dell’Arte Sacra, Arkeios, Roma 2004.

[10] «L’arte sacra ignora in larga misura l’intenzione estetica; la bellezza deriva innanzitutto dalla verità spirituale, dunque dall’esattezza del simbolismo e dall’utilità per il culto e la contemplazione, e solo successivamente dagli imponderabili dell’intuizione personale»; Frithjof Schuon, Caste e razze seguito da Principi e criteri dell’arte universale, SE, Milano 1994.

[11] «L’apice della vita artistica tedesca è sempre stato raggiunto in periodi in cui i profondi desideri del popolo hanno trovato la propria espressione artistica. Il Geist tedesco s’innalzò […] come una fiammata gigantesca durante gli ultimi centocinquant’anni in tutti i campi, per estinguersi quasi completamente all’inizio di questo secolo […]. Da allora l’arte ufficialmente riconosciuta è divenuta questione di giochi di vuote forme, o di rappresentazione di un mondo distorto, popolato da aborti e da cretini. L’arte diffusa dalle accademie e dai musei menava arrogantemente la sua esistenza al di sopra della gente comune, che non la capiva. Era cosa per una selezionata minoranza – gli intellettuali dell’arte, e il mercato dell’arte. L’arte non aveva valore, solo un prezzo. Non era più una deità amica, risanatrice e benedicente. Era solo una puttana». H. A. Bühler, Zum Geleit, «Das Bild», 1934; citato da R. Taradel in L. V. Distasio, R. Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezin. Un’indagine storica ed estetica, Mimesis, Milano 2014.

[12] Nel Natale del 1940 venne pubblicato un prezioso libretto strenna (H. A. Bühler, “Die Heimkehr” und Soldatenbriefe, a cura di Sofie Bergmann-Küchler, Società Hans Thoma, Oberursel (Taunus), Francoforte sul Meno 1940) che riportava, insieme alla riproduzione fotografica del dipinto, dodici lettere dal fronte di soldati che ringraziavano l’autore, elogiando l’opera ed il suo valore simbolico — per le truppe ed il Paese — in quel difficile momento per la Germania.

[13]  Nell’agile ricostruzione del filosofo russo, il Novecento è stato caratterizzato soprattutto dalla contrapposizione culturale e politica avvenuta fra liberismo, comunismo e fascismo, ideologie radicate su soggetti politici (rispettivamente, l’individuo, la classe e la razza) che ne costituivano la base e dal cui dissolvimento deriverebbe l’attuale condizione post-moderna. Vedi Aleksandr Dugin, The Fourth Political Theory, Arktos, London 2012 (trad. it. La quarta teoria politica, NovaEuropa Edizioni, Milano 2017).

[14] A partire dalla memoria della comunità: uno dei riti più noti, della “liturgia” laica nazionalsocialista, fu quello della Blutfahne, la bandiera intrisa del sangue dei caduti del putsch di Monaco, esposta come reliquia e usata per “consacrare” — attraverso il contatto — le nuove bandiere del partito.

[15] Dalle Metamorfosi di Ovidio alla fiaba di Collodi, tale archetipo percorre come noto tutta la storia della mitologia universale.

[16]  Titus Burckhardt, Principi e metodi, cit.

[17] «La tradizione estremo-orientale, nella sua parte propriamente cosmologica, attribuisce una capitale importanza ai due principi o, se si preferisce, alle due “categorie” da essa disegnate con i nomi di yang e di yin: tutto ciò che è attivo, positivo o maschile e yang, tutto ciò che è passivo, negativo o femminile e yin. Queste due categorie si ricollegano simbolicamente alla luce e all’ombra: in tutte le cose, il lato luminoso è yang e il lato oscuro è yin; ma, dato che l’uno è inseparabile dall’altro, essi appaiono più come complementari che come opposti». René Guénon, La grande triade, Atanòr, Roma 1951.

[18]  «Il germanismo [racchiudeva] nel suo intimo una tenace fede nelle femmina, giudicata la fonte sacra del sangue germanico, per certi versi superiore al maschio. Dopotutto — così si diceva — costui era semplice fecondatore esterno di un procedimento di formazione del conglomerato ereditario razziale che si svolge tutto internamente al corpo della femmina. Una simile, radicale bio-politica della fecondità aveva quasi i contorni di una gnosi del bios, di tale estremismo da voler ricondurre i termini della questione alle mitiche origini di un primevo spirito materno, l’ancestrale Muttergeist». Luca Leonello Rimbotti, “Il corpo della femmina come scrigno della razza”, postfazione in Ernst Bergmann, Le 25 tesi della religione tedesca, Thule Italia, Roma 2017.

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