Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a: C. Martinelli, La Brexit e la Costituzione britannica. Come e perché il Regno Unito è uscito dall’Unione Europea, Giappichelli, Torino 2023, pp. XIX + 326, € 44,00.
Ormai è un capitolo di storia chiuso: il Regno Unito, in controtendenza rispetto alle nuove adesioni alla CEE/UE, è il primo Stato sovrano ad aver abbandonato l’Unione Europea. Come ogni evento davvero epocale la Brexit spiegherà davvero tutti i suoi effetti su una scala temporale misurabile in decenni. Oggi è ancora troppo presto per tracciare un bilancio complessivo sulla “bontà” o “nequizia” della decisione inglese. È però possibile tentare una ricostruzione politica, giuridica e costituzionale delle vicende e degli intrecci che hanno portato la Gran Bretagna prima al referendum del 2016 e poi al tortuoso processo di fuoriuscita disciplinato dall’art. 50 del Trattato UE, con tutte le imprevedibili ricadute sul funzionamento della proverbialmente flessibile Costituzione britannica, la giurisprudenza costituzionale e il processo di Devolution. È quel che fa Claudio Martinelli in un denso e informatissimo saggio uscito quest’anno. Martinelli è fine conoscitore dell’universo giuridico-costituzionale britannico; ha anche seguito in presa diretta la vicenda della Brexit in tutti i suoi risvolti di rilevanza costituzionale e politica e le ha dedicato numerosi studi settoriali di cui il volume oggi in commento costituisce l’inedito completamento.
Il saggio si articola in sei capitoli. Il primo delinea le tormentate relazioni politiche (ma anche latu sensu culturali e di mentalità) tra il mondo insulare britannico e il Continente, rimaste complicate anche dopo l’ingresso (anno 1972) nella CEE. Il quarto capitolo è dedicato alla parabola politica di Theresa May, una euroscettica per la quale “brexit means brexit”. Il quinto alle burrascose navigazioni (dentro e fuori i Commons; dentro e fuori la Costituzione; dentro e fuori il Regno Unito) dell’altrettanto burrascoso Boris Johnson, leaver della prima ora e per il quale era giunto il momento del “get Brexit done”. Il sesto capitolo tocca numerosi temi giuridici e politici (uno per tutti: il concetto e la prassi della sovranità britannica nell’era dell’interdipendenza globale) ricchi di spunti per ulteriori ricerche.
I capitoli terzo e quarto, quelli più politici, risultano facilmente accessibili anche ai non giuristi. Qui (pp. 27-110) l’Autore tratta degli antefatti (la premiership di David Cameron sino al 2016) e del referendum Brexit in sé, di cui analizza la natura giuridica, la valenza politica, le forze in campo e ovviamente l’esito, inaspettato per tutti.
Al riguardo, una corretta valutazione giuridica e soprattutto politica degli esiti referendari impone che non ci si arresti alla logica binaria Leave/ Remain. Questa infatti appiattisce le asperità e le tortuosità delle fratture dell’elettorato. L’elementare contrapposizione tra europeisti (tutti per il Remain) e anti-europeisti val bene per gli slogan politici ma non per la comprensione delle autentiche dinamiche politiche della società britannica nel cruciale biennio 2015-2016. Se infatti è plausibile o comunque meno problematico accomunare sotto l’etichetta di anti-europeismo i 17,4 milioni di elettori che scelsero il Leave, risulta all’opposto un grave fraintendimento schiacciare su posizioni di sincero europeismo i 16,1 milioni di britannici che votarono il Remain. L’Autore ricostruisce con ricchezza di dettagli (pp. 27-64 e 67-81) gli antefatti che condussero all’indizione del referendum e delinea uno scenario politico e culturale davvero frastagliato, a partire dalle forze di governo. David Cameron, buona parte dell’Esecutivo e frazioni rilevanti del Partito Conservatore portano avanti politiche euroscettiche; ma l’euroscetticismo non coincide con l’anti-europeismo. Gli euroscettici britannici chiedono da sempre (sin dal primo referendum del 1975) all’Unione Europea maggiori spazi di libertà, autonomia, sovranità su materie cruciali pur nel quadro del Mercato Unico e delle istituzioni comunitarie. Cameron gioca la sua più importante partita politica sul tentativo di strappare all’UE le condizioni le più possibile favorevoli restando al di qua del leave. E, bisogna dirlo, col Cameron-Tusk Agreement del febbraio 2016 egli riesce nell’impresa. Con l’Agreement il premier britannico otteneva «il riconoscimento politico di uno statuto speciale a favore della Gran Bretagna dentro l’Unione» (p. 60). L’Autore sottolinea bene i punti salienti dell’Accordo Cameron-Tusk (Economic Governance; Competitiviness; Immigration; e soprattutto Sovereignty). La Gran Bretagna, dispone l’Agreement, non dovrà essere coinvolta in alcun processo «di ulteriore integrazione politica» (p. 58). Nessun Super Stato all’orizzonte per il Regno Unito, il quale inoltre conserverebbe il diritto a restar fuori da qualsiasi obbligo di salvataggio finanziario di Paesi dell’area euro.
Capolavoro di abilità politica dovette inoltre apparire a Cameron e a molti dei suoi la giuridica connessione tra l’Agreement e la ratifica referendaria, come tra l’altro promesso dai Conservatori nel Manifesto elettorale del 2015. La vittoria del Remain (da Cameron auspicata e data pressoché per certa) avrebbe sancito nei decenni a venire la vigenza delle nuove regole della membership britannica nell’UE, una permanenza cioè davvero sui generis, quasi più fuori che dentro. Oggi resta un puro quesito accademico, ma l’Autore si interroga seriamente sulla compatibilità giuridica del Cameron-Tusk Agreement con i vigenti Trattati europei. Probabilmente tale compatibilità sussisteva più nei desiderata della UE che nella lettera e nello spirito dei Trattati e dell’Accordo. Insomma: anche la vittoria del Remain avrebbe sollevato non pochi problemi di coordinamento giuridico e di inediti collaudi di meccanismi procedurali nei rapporti tra Regno Unito e UE. Ma, per tornare alla dimensione politica, è indubitabile che tra chi votò Remain si contano a milioni gli euroscettici che, pur non desiderando un Regno Unito completamente fuori dalla UE, certo lo volevano a distanza di sicurezza dalla “terribile” e “minacciosa” Eurocrazia continentale: un euroscetticismo thatcheriano, di cui Cameron, Theresa May e la componente “centrista” del Partito Conservatore si ritenevano i legittimi eredi, e a cui va sommato l’euroscetticismo tenace di quei laboristi che, come lo stesso Jeremy Corbyn, pur dichiarandosi per il Remain, restarono freddi e avvinghiati in una irresoluta e probabilmente voluta ambiguità di fondo. Lo schietto europeismo rimase minoritario anche tra i sedici milioni di remainers; votando Remain (cioè in pratica votando sì al Cameron-Tusk Agreement) gli europeisti britannici scelsero il meno peggio. E gli andò male. D’altro canto ai brexiteers l’Agreement non bastava, anzi sembrava un mascheramento piuttosto ipocrita del perdurante processo di sottrazione di sovranità in favore del sempre incombente Super-Stato eurocratico. Anche il fronte dei brexiteers era frastagliato e trasversale, come l’Autore non manca di ricordare. Ma non si può negare che l’unico vero collante dei 17,4 milioni di brexiteers fosse un risoluto anti-europeismo, le cui motivazioni saranno certo state plurali e variegate e contraddittorie, ma tutte si risolvettero nella comune ostilità a una Unione Europea percepita come altro-da-sé. Se si tiene a mente che anche per gli euroscettici (che pur votarono Remain) il rapporto tra Regno Unito e UE è sempre stato impostato come rapporto tra alterità, si comprende ancor meglio l’irriducibile refrattarietà britannica rispetto a qualsivoglia progetto di unificazione politica europea.
Il referendum sulla Brexit non è relegabile tra le incaute contingenze della politica, quasi si trattasse di un incidente di percorso causato da una avventata scommessa politica di David Cameron per consolidare la propria premiership. L’Autore dissente da tutte quelle interpretazioni (correnti sul Continente) che all’indomani del 23 giugno 2016, incredule al cospetto dei risultati referendari, non potevano accettare altra spiegazione che quella dell’abbaglio momentaneo di un popolo disinformato e di un errore di valutazione politica di Cameron. È vero il contrario: la Brexit ha avuto il merito di porre sul tappeto una scelta ineludibile, una scelta che ben quattro decenni di politiche di compromesso e di settoriali out put avevano solo procrastinato. Era inscritto nella storia britannica (e specificamente inglese) che prima o poi si chiarisse una volta per tutte la posizione del Regno Unito rispetto allo “stare insieme” con altri Stati nel perimetro sempre più istituzionalizzato e pervasivo dell’UE.
Per i giuristi presenta notevole interesse la fine e avvincente analisi delle sentenze delle Alte Corti di Londra e Belfast e soprattutto delle due pronunzie-cardine della Suprema Corte del Regno: la c.d. Miller 1 del 2017 (pp. 132-146) e la Cherry/Miller 2 del 2019 (pp. 195-202). Non è qui possibile addentrarci nelle letture di Martinelli condotte con libero e intelligente spirito critico ma sempre aderenti ai testi (di cui vengono riportati ampli stralci in lingua originale). Limitiamoci brevissimamente alla Miller 1. Theresa May, succeduta a Cameron, stava cercando di attivare la procedura dell’art. 50 del Trattato dell’UE (una procedura mai prima di allora collaudata), ossia la fuoriuscita regolamentata di uno Stato membro dall’Unione. E lo faceva bypassando i Comuni (dove i remainers, tra europeisti convinti e euroscettici moderati, superavano di gran lunga i brexiteers) sul presupposto che l’invoking article 50 rientrasse tra le prerogative di politica estera, di competenza governativa secondo la costituzione. Orbene, a seguito di alcuni ricorsi giudiziari dove veniva esplicitamente chiesto il coinvolgimento del parlamento nell’invoking article 50 la causa perveniva alla Suprema Corte la quale decideva contro il governo: il parlamento va coinvolto in quanto la procedura di fuoriuscita dall’UE avrebbe comportato una incisiva rivisitazione di molti diritti individuali (recepiti dal diritto comunitario nei decenni di appartenenza britannica alla CEE/UE) e ciò non sarebbe stato materia di competenza solo governativa ma anche e anzi primariamente dei Comuni, l’organo supremo della democrazia rappresentativa. Martinelli dà però conto anche della dissenting opinion di uno dei giudici della Suprema Corte, Lord Reed, secondo il quale il governo nell’invoking art. 50 non va affatto a incidere “over our domestic law” (ciò avverrà solo in un secondo momento e con passaggi successivi; e allora sì il coinvolgimento dei Comuni diverrà costituzionalmente obbligatorio) ma si mantiene nel perimetro delle competenze esclusive di politica estera. Si indovina una certa inclinazione di Martinelli per l’opinione minoritaria di Lord Reed (futuro Presidente della Corte) e se la “tesi Reed” avesse prevalso forse i tempi del divorzio sarebbero stati più brevi con beneficio per entrambe le parti. E ciò senza ledere le fondamentali prerogative dei Comuni nella dialettica con l’Esecutivo ma soltanto posticipandone il coinvolgimento e in ambito prettamente interno.
Altro spinoso problema sollevato dalla Brexit è quello dei rapporti tra l’ordinamento costituzionale britannico “extracomunitario” e le competenze devolute ai Parlamenti scozzese, gallese e dell’Ulster. L’Autore si sofferma diffusamente su questi aspetti che, al di là dei pur delicatissimi dettagli giuridici e costituzionali, pongono al centro la questione dell’unità del Regno. E se il Galles non pare costituire un problema per la sopravvivenza del Regno Unito, le pulsioni secessioniste di una Scozia che vorrebbe ri-aderire alla UE come Stato sovrano e la miscela esplosiva di un Ulster diviso tra lealisti orangisti (disposti a restar tali anche senza la UE) e nord-irlandesi europeisti e confinanti con uno Stato membro dell’UE metteranno a dura prova la flessibilità e l’empirica saggezza della uncodified Constitution più antica del mondo.