Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan (Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

L’11 febbraio 2013 si riunì il Concistoro dei cardinali convocato dal Papa in carica, Benedetto XVI. In quell’occasione, il Papa tenne un discorso in latino, il cui contenuto avrebbe fatto il giro del mondo in pochi minuti: il Santo Padre si dimette. Credo che questa scena, incastonata per sempre nella storia della Chiesa e non solo, possa essere un ottimo schizzo per accostarsi alla figura del Papa emerito appena scomparso: in quel giorno, l’anziano Pontefice provoca la rivoluzione in una delle più antiche istituzioni mondiali con un discorso in latino. Il vecchio e il nuovo, anzi profetico; la tradizione e l’inedito, anzi l’inaudito. Dimensioni diverse, tenute insieme dallo sforzo della sintesi che intende salvare ciò che ritiene buono e vero.

Benedetto XVI è stato il primo Papa su Twitter, il brillante e giovane teologo “progressista” al Concilio Vaticano II, il prezioso collaboratore di Giovanni Paolo II che concedeva interviste – anche di giorni – senza chiedere in anticipo le domande, come fanno spesso pure politici di terz’ordine, il cardinale che a Peter Seewald che gli chiedeva «quante sono le strade per arrivare a Dio?» – sicuro di ricevere una risposta assiomatica – disse semplicemente «tante quanti sono gli uomini». Anche però il prefetto per la Congregazione per la Dottrina della Fede definito “Panzer-Kardinal” e “Pastore tedesco” dai giornali, fatto oggetto di critiche – talvolta aspre – dai settori più liberal della Chiesa e della società, che gli hanno rimproverato il suo rapporto controverso con la modernità e un approccio troppo prudente – quando non restauratore  ̶   al Vaticano II.

Chi è stato Joseph Ratzinger, uno degli ultimi grandi intellettuali del ‘900? Chi è stata questa persona dal tratto signorile, mite e cordiale, capace però, nel 1984, di disarticolare con critica chirurgica l’impianto teorico di buona parte della teologia della liberazione – allora molto di moda – incassando il placet del gesuita Silvano Fausti, non proprio un ammiratore del Papa emerito?

Se trovare la sintesi univoca di una biografia tanto lunga e ricca è operazione impossibile e forse scorretta, senza potersi giovare tra l’altro dell’ausilio della distanza temporale, può essere utile ricordare alcuni tratti essenziali – senza desiderio di esaustività – per orientarsi.

Non si può comprendere, a mio avviso, la forma mentis di Benedetto XVI se non si ricorda l’impronta intellettuale che sempre lo ha guidato (ciascuno di noi ne ha una). Joseph Ratzinger, dal punto di vista teologico e filosofico è fondamentalmente platonico-agostiniano. Questo vuole dire che, ai suoi occhi, da un punto di vista ontologico, per così dire, si privilegia la latitudine alla longitudine, la profondità all’estensione. E vuol dire anche che, nel guardare il mondo la “perplessità agostiniana” ha la prevalenza rispetto alla “simpatia tomista”.  A giudizio di chi scrive, questo ha contribuito a dotarlo degli anticorpi intellettuali giusti per vedere, con anticipo rispetto ad alcuni ingenui entusiasmi degli anni ’60 e ’70, gli spettri nascosti in un certo “pensiero debole” e ipercostruttivista che, a dispetto delle intenzioni dei suoi fautori, si è rivelato assai arrendevole alla prepotenza del paradigma tecnocratico. Così come lo ha reso accorto critico di certe ambivalenze della moderna esaltazione dell’autonomia del soggetto che, se non maneggiata con attenzione, poteva condurre ad una libertà autoreferenziale slegata da riferimenti fiduciali, che contiene in sé, da un lato, il rischio di derive totalitarie o quantomeno dispotiche, e, dall’altro, una problematica torsione individualistica.

Da questa prospettiva, secondo me, si può leggere sotto una luce più estesa della sua singola vicenda personale anche il passaggio centrale del discorso di rinuncia al papato di Benedetto XVI: «Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata ad cognitionem certam perveni», ovvero «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza». La coscienza può riconoscere la verità, che pur facendo sentire la propria voce in interiore homine, al tempo stesso trascende il soggetto. Tra pensiero ed essere, dunque, c’è asimmetria: il primo è religato al secondo. Qui sta il nucleo metafisico necessario (sebbene non sufficiente) di ogni umanesimo cristiano.

E da qui possiamo giungere a un altro punto qualificante del pensiero di Ratzinger: l’idea di ragione. Sì, perché il Papa emerito ha dedicato tutta la vita alla riflessione sul rapporto fede e ragione, perché – dal suo punto di vista  ̶  simul stabunt vel simul cadent. La qual cosa non vuole dire neppure per un istante che solo il credente può utilizzare al massimo delle sue potenzialità la ragione, ma piuttosto due cose distinte e collegate. In primo luogo, la fede cristiana ha nell’incontro col Logos greco non una semplice avventura storica, superabile con qualche aggiornata opera di “de-ellenizzazione” del dogma, ma un incontro fatale: la fede cristiana chiede la ragione perché è fin dall’inizio opzione per il Logos (che “si è fatto carne”, dice il vangelo di Giovanni) contro il pantheon romano, per la ragionevolezza intrinseca della realtà contro le forze volubili degli spiriti dietro i singoli eventi naturali: senza questo abbraccio, il paradosso cristiano diventa assurdo e la forza dell’esperienza religiosa rischia di essere consegnata al furore irrazionale del fondamentalismo (questo voleva dire a Ratisbona, quando è stato strumentalmente frainteso).

In secondo luogo, la ragione moderna ha avuto il torto – secondo Benedetto XVI – di essersi ristretta al dominio dell’empirico e dello storico, rinunciando sfiduciata al problema della verità, riponendo perciò le questioni scottanti dell’esistenza in un regime di extraterritorialità rispetto a sé stessa. In tal modo, però, avrebbe sacrificato l’approfondimento degli aspetti vitali dell’esistenza (quelli in cui propriamente risiedono le scelte fondamentali dell’individuo) per un crescente dominio su una porzione ristretta di realtà. Questo, lo abbiamo sperimentato in passato (e forse lo sperimentiamo ancora oggi, sebbene in forme meno tragiche), ha tuttavia paradossalmente favorito il fondamentalismo della ragione, che ha saputo costruire regni anti-umani in nome di ideali inumanamente razionali. La fede, pertanto, a giudizio di Benedetto XVI può servire una ragione aperta o allargata (qui c’è l’insegnamento di John Henry Newman, del quale il Papa emerito è stato ammiratore) in grado di rispettare la complessità dell’umano e di riabilitare la parola “verità”, troppo spesso usata in forme assolutistiche dal potere laico e da quello religioso.

Alla luce di quanto stiamo dicendo, allora, chi ha inteso la nota polemica di Benedetto XVI contro la “dittatura del relativismo” come una sorta di “critica dello spirito critico”, a mio avviso, ha prestato un ascolto alquanto superficiale al suo magistero intellettuale: nelle intenzioni del Papa emerito – che ciascuno poi può giudicare liberamente – non c’era la volontà di affermare l’unica verità cristiana contro l’indifferente uomo moderno, ma difendere un’idea di ragione “forte”, che non dispera di conoscere la verità, contro una “debole”, che tira i remi in barca e si dichiara incompetente in questioni assolute. Una ragione forte e ampia, tra l’altro, è per Benedetto XVI strumento necessario per sottrarre i diritti umani all’arbitrio sia della forza bruta sia della forza più gentile ma non meno pericolosa delle maggioranze formalmente legittimate dal potere politico.

Da quanto detto fin qui, si deduce come Benedetto XVI sia stato, soprattutto nella seconda parte della sua vita, un uomo e un intellettuale del tutto inattuale: platonico e metafisico, in un’epoca decisamente anti-platonica e anti-metafisica; fautore dell’umanesimo cristiano, in un’epoca in cui l’umanesimo appare come opzione minoritaria; dallo stile comunicativo piano e discorsivo, in un’epoca di comunicazione emozionale e in “pillole”. Proprio per questo, però, secondo me, il suo lascito non si esaurirà affatto con la sua scomparsa: la sua statura teologica e spirituale, comunque la si pensi, continuerà a dare frutti, perché solo ciò che è inattuale può tornare, mentre filosofie e teologie troppo attardate sul proprio tempo, più attente al successo che alla fecondità, col proprio tempo passeranno.

Su una cosa, però, tutti devono concordare: la cifra del suo servizio ecclesiale e teologico è stata la “secondarietà”. Nel bene e nel male, Benedetto XVI ha messo la “verità” (che per un cristiano ha il volto di Gesù Cristo) prima della sua persona. «Collaboratori della verità», il motto che scelse per il suo ministero episcopale, lo esprime in modo icastico. Così come le sue omelie e i suoi libri più divulgativi (da Introduzione al cristianesimo fino alla trilogia Gesù di Nazareth), veri e propri esercizi di carità intellettuale. Così come, infine, la sua rinuncia al soglio di Pietro, un gesto di umiltà e amore alla Chiesa che di fatto ha aperto il pontificato di Papa Francesco prima ancora che Bergoglio fosse eletto.

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