Oriana Fiorentino (1994) si è specializzata in Amministrazione e Direzione Aziendale all’Università degli Studi di Parma, con una tesi su Income Shifting motivato dalla Tax Avoidance nei gruppi multinazionali. Ha lavorato presso Ernst & Young, un network mondiale di servizi professionali di consulenza direzionale, revisione contabile, fiscalità, transaction e formazione. Dal 2020 insegna economia aziendale presso istituti di scuola superiore. Si interessa principalmente di micro e macroeconomia.

Al Ministero dell’Istruzione e del Merito,

Chi scrive è una persona che, come tante altre, ha deciso di intraprendere una delle strade lavorative più difficili e tortuose: la carriera scolastica da docente. Una carriera non facile, se si pensa come essa sia soggetta a continui cambiamenti e interventi normativi.

Ciò che ho potuto sperimentare in questi tre anni di docenza è una vita precaria, di stenti e di sacrifici. Costretta a lasciare i propri cari, la propria casa, la propria terra per realizzare un sogno, un sogno che per molti di noi sta diventando un incubo. Mentre nei media e nel mondo politico si parla molto di sensibilizzare i giovani all’educazione sentimentale, spesso si ci dimentica dell’altra faccia della medaglia, del docente costretto a lasciare tutti i suoi affetti, spostarsi, affrontare da solo tutte le esperienze belle e brutte che la vita e il lavoro gli pongono davanti. Ontologicamente e giocoforza costretto a trasformarsi in un migrante.

Mi chiedo spesso se io sia la sola a provare certe paure: paura dell’incertezza del domani, paura di elaborare piani a lungo termine, paura di costruire legami affettivi; mi consola e allo stesso tempo mi rattrista sapere che non sono la sola a vivere nell’incertezza e nella paura. Il numero di precari in Italia aumenta sempre di più, più di 400.000 persone che affrontano ogni giorno sacrifici, unite tutte da un obiettivo comune: la ricerca di una stabilità lavorativa.

Nonostante le difficoltà, mi ritengo una persona fortunata. Non tutti hanno la possibilità di poter svolgere un lavoro che amano, di relazionarsi con dei ragazzi meravigliosi, perspicaci, innovativi pieni di idee, ambizioni. Abbiamo molto da imparare da loro.

La parte peggiore di questo lavoro è che non riusciamo a mantenere una continuità didattica. Chiamati a svolgere supplenze di breve termine, di pochi mesi o di un anno al massimo, i nostri alunni sono coloro che più subiscono le conseguenze della nostra vita precaria. Posti dinanzi alle (talvolta) improvvise sostituzioni dei propri insegnanti, diviene sempre più difficile instaurare un rapporto solido e duraturo e accompagnarli lungo tutto un percorso di educazione e di crescita emotiva. Il secondo anno di insegnamento mi segnò molto. Giorni, settimane e mesi ad aspettare la famosa “chiamata”, come sempre tardiva, ma foriera di speranze per un nuovo inizio. Presi servizio in una scuola situata a 100 km da casa, con annesse difficoltà nei collegamenti. Il contratto si interruppe dopo solo 2 mesi e fui nuovamente chiamata in un’altra scuola per soli 20 giorni (contratto interrotto prima delle festività natalizie). Arrivarono Natale e Capodanno ed io speravo solo che quei giorni passassero velocemente, così da poter iniziare nuovamente a lavorare, conoscere i miei nuovi studenti e non preoccuparmi su come pagare l’affitto.

La “fortuna” chiamò in mio favore, perché dopo solamente un mese senza percepire stipendio, fui chiamata in una nuova scuola ad accompagnare degli alunni agli esami di maturità. I ragazzi mi hanno accolta nel migliore dei modi, anche se vedevo nei loro occhi le frustrazioni e le ansie per un cambio di insegnante avvenuto pochi mesi prima dell’esame di maturità. Non riuscii ad accompagnarli agli esami, il mio contratto si interruppe solamente due mesi prima della fine della scuola e in quei due mesi cambiai altre 2 scuole. Penso spesso a quei ragazzi. Che cosa hanno provato? Con quale stato d’animo sono arrivati all’esame di maturità? Mi hanno addossato la colpa di averli abbandonati?

È anche questa la scuola, ti da’ tanto ma in un battito di ciglia ti toglie tutto.

Similmente a noi insegnanti, anche gli alunni vivono costantemente con la paura di essere abbandonati, di doversi affezionare ad un insegnante che non vedranno più rientrare in classe da un momento all’altro. Ciò che ha smesso di esistere è l’insegnante come punto di riferimento costante, come certezza del domani, come appiglio solido, come “secondo genitore”. Aumentano le frustrazioni, le ansie sottese alla necessità di conoscere il nuovo docente, abituarsi al suo metodo di insegnamento. Una delle paure più grandi degli alunni, spesso trascurate da tutti coloro che agitano la bandiera della “educazione emotiva”, è quella di legare con il nuovo docente, fidarsi di lui, affezionarsi, per poi vederlo svanire dalla loro vita. Quando entro in una nuova classe, una delle prime domande che mi vengono poste dagli alunni è: “Prof. quanto tempo rimarrà con noi?”.

È come se fossero ormai consapevoli che tutti i docenti sono figure di passaggio, ombre destinate a svanire, e per questo tendono a mettere in pratica dei meccanismi di autodifesa emotiva. A volte questi meccanismi si ripercuotono nella didattica, giustificando un minor impegno, uno scarso rendimento, ma anche una cattiva condotta. Tanto – pensano – poi verrà qualcun altro e con lui andrà sicuramente meglio.

Questi fattori incidono molto sulla personalità degli alunni e sulle persone che diventeranno in futuro, sul timore di legarsi a delle figure di riferimento non stabili nella loro vita. Stabilizzare i precari vuol dire dare certezze ai ragazzi, diminuire il più possibile episodi di abbandono, permettere loro di avere un punto di riferimento sicuro con il quale potersi aprire e fidarsi. Se un docente è sereno, la sua tranquillità è contagiosa.

Non priviamo i ragazzi di credere nei valori della scuola. Come disse Rita Levi Montalcini: «Il male assoluto del nostro tempo è di non credere nei valori. Non ha importanza che siano religiosi oppure laici. I giovani devono credere in qualcosa di positivo e la vita merita di essere vissuta solo se crediamo nei valori, perché questi rimangono anche dopo la nostra morte».

Quali sono i valori che vogliamo trasmettere ai nostri giovani? La precarietà della vita e degli effetti, emblematicamente rappresentata dai loro insegnanti, o la stabilità – anche emotiva – che discende da quella lavorativa? Riflettiamo sulle conseguenze che questo modello precario ha sulle vite non solo di noi insegnanti, ma soprattutto dei nostri alunni.

No, non servono nuove materie scolastiche. Non serve un programma di “educazione emotiva”. Ciò che serve è rafforzare, consolidare e migliorare quello che già esiste. Il MIM deve attivarsi affinché la scuola diventi una roccaforte stabile e sicura e non il regno dei precari, con tutte le nefaste conseguenze che ne discendono sulla crescita emotiva dei ragazzi e sulla carriera professionale di chi ha deciso di intraprendere questo percorso.

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