Manlio Antonio Forni (1998) si è laureato in Filosofia e in Scienze filosofiche all’Università degli Studi di Milano, specializzandosi come studioso della prima età moderna. Ha conseguito un master in discipline psico-pedagogiche e collabora attivamente con numerose riviste filosofiche del panorama accademico in qualità di autore e redattore. Il suo ambito di ricerca concerne la storia del pensiero moderno (con particolare riguardo alla figura di Blaise Pascal), la fenomenologia dell’esistenza e la tanatologia.

Recensione al convegno “Il valore aggiunto della filosofia tra etica ed economia” (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 13 novembre 2024)

La presentazione dell’opera di Martha Nussbaum Il valore aggiunto della filosofia. Tra etica ed economia (Morcelliana, Brescia 2023) rappresenta l’occasione ideale per un confronto a trecentosessanta gradi sull’attualità e la necessità della filosofia. Nella pregevole cornice della Cripta dell’Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, Largo A. Gemelli, 1) va in scena, con la mediazione della professoressa Alessandra Papa, un ricco seppur conciso scambio di idee fra Massimo Cacciari, noto saggista e figura politica di spicco, e Oreste Tolone, docente di Filosofia morale all’Università di Chieti-Pescara e curatore della sopraccitata edizione italiana del volume di M. Nussbaum.

Ad aprire la discussione è il tema, di capitale importanza per decodificare il panorama socio-culturale della modernità, del ruolo del pensiero filosofico nell’ambito della problematica relazione fra la dimensione etico-morale dell’umano e il profilo marcatamente economico del sistema sociale esistente. A questo proposito, il primo a prendere parola è il professor Tolone, il quale, presentando il saggio di Martha Nussbaum ed assumendo per larghi tratti la sua prospettiva teorica, evidenzia l’urgenza, per la filosofia, di velocizzare la propria attività speculativa al fine di tenere il passo con i ritmi frenetici imposti alla società dal paradigma economico vigente. La necessità di rinsaldare il legame fra filosofia ed economia scaturisce, secondo un’osservazione che Tolone mutua da Nussbaum, dalla natura stessa delle scienze economiche, che, per quanto possano apparire avulse da ogni compito valutativo e da ogni assunzione di principio e circoscrivere il loro discorso al piano prettamente descrittivo, non possono infine fare a meno di svilupparsi a partire da presupposti teoretici che richiedono di essere elucidati e contestati dalla filosofia stessa. In particolare, l’assetto economico odierno trova il proprio fondamento e la propria giustificazione teorica in premesse quali: l’utilitarismo benthamiano in campo etico, il pessimismo hobbesiano in campo antropologico, il liberalismo moderno in campo politico e l’individualismo (iper)razionalistico in campo metodologico. Tali assunti relativi alla sfera dell’agire umano, afferma Tolone, devono però essere esplicitati, discussi e coniugati ad una chiarificazione dei caratteri propri del mondo in cui l’azione individuale prende corpo. Fra le pieghe dell’utilitarismo di Bentham, poi, si insinua il grave rischio di equiparare e financo livellare tutte le possibili forme di utilità. Si colloca qui un nodo estremamente delicato in termini etici, dacché la supposta e sempre implicita commisurazione di ciascuna determinazione di utilità con tutte le altre costringe l’individuo, in talune circostanze, ad avvalersi di semplicistiche e perciò gracili schematizzazioni per leggere la realtà e ad assolutizzare un unico criterio di scelta e di azione a discapito di altri.

La medesima criticità trova inoltre un riverbero ancor più preoccupante su scala sociale: alla politica nel suo complesso è infatti richiesto non soltanto di contemperare le eterogenee istanze emergenti nella società in vista di un benessere condiviso, ma anche – e innanzitutto, nell’ottica del pluralismo liberale che Nussbaum riprende da Rawls – di garantire all’individuo dei margini di gioco nell’individuazione di valori e obiettivi personali. Connaturato a tale difformità delle scelte e dei criteri adottati nel compierle è il pericolo di una frantumazione del paesaggio sociale e di una conseguente cronicità di quello che Tolone, facendosi ancora una volta portavoce del pensiero di Nussbaum, definisce un «conflitto tragico», un conflitto che riguarda non soltanto la dimensione pubblica dell’intersoggettività, ma anche e prima di tutto l’esistenza privata di un individuo dilaniato fra le sue possibilità e, di fatto, interdetto nell’esercizio della libertà.

Segue l’intervento di Massimo Cacciari, il quale prende posizione in modo piuttosto netto nei confronti delle considerazioni avanzate da Nussbaum e dell’idea – testé esposta – dell’essenziale tragicità dei conflitti che sorgono in seno alla società. Un conflitto tragico è una contesa per definizione insuperabile, ma nell’arena politica e sociale non vi è spazio per questo genere di dissidi: i conflitti politici, per loro stessa natura, non sono mai tragici, giacché l’agire politico si incardina sull’arte dell’amministrazione e della gestione, e ciò che può essere amministrato non può essere inteso in senso tragico.

Nessuna condotta politica è scevra di errori e al riparo dalla possibilità del conflitto, albergando questa possibilità nell’idea stessa di una democrazia che, configurandosi come ontologicamente predisposta al contrasto, non può fare a meno di ospitare in sé una certa dose di ingiustizia e di malcontento risultanti dall’imperfetta «opera di commisurazione, ponderazione e scelta» che da principio contraddistingue la stessa politica democratica; nondimeno, rintuzza Cacciari, nessun errore, e dunque nessun conflitto, significa l’impossibilità di una soluzione: in quanto potenzialmente amministrabile, il conflitto politico non è mai veramente tragico, e sotto questo aspetto l’interpretazione di Nussbaum si mostra in tutte le sue ovvietà e fragilità, delle fragilità che rivelano, a giudizio dell’intellettuale veneziano, una fondamentale ignoranza storiografica dell’«antichissimo discorso sui fondamenti dell’economia politica». Quest’ultimo trova soprattutto in Marx – insigne demistificatore dell’infondata pretesa di avalutatività delle scienze economiche – un termine di confronto imprescindibile e tuttavia trascurato dalla pensatrice statunitense, che tradisce a più riprese la cagionevolezza delle nozioni storiche su cui innesta la sua riflessione (la panoramica offerta in tal senso da Cacciari è d’altro canto vastissima: Platone, Aristotele, Spinoza e lo stesso Marx sono solo alcune delle autorità invocate dallo studioso relativamente alle tematiche politiche, etiche e sociali affrontate) e conferma un inveterato fraintendimento da parte della politologia americana (e di Rawls in particolare) a proposito dell’odierno sistema capitalistico: esso non è più, come è stato per largo tempo e come ancora ci si ostina implicitamente a pensarlo, una struttura di dominio di stampo borghese. Ragionare alla luce di questo equivoco culturale senza saggiarne la corrispondenza con il mondo di oggi, e dunque senza smascherarne l’inconsistenza, significa intestardirsi lungo una direttrice d’analisi incapace di cogliere le effettive trame della realtà sociale e la condizione dell’individuo che la abita.

A chiosa del suo intervento, Cacciari si interroga circa la natura dell’uomo intesa come chiave teorica da cui ogni disamina dei fenomeni sociali e politici deve prendere le mosse. «La natura dell’uomo non è quella di Hobbes: l’uomo è animale sociale e politico» nel senso della polis greca, la quale, sottolinea però il filosofo, rappresenta per Aristotele un «presupposto ideologico-culturale inconscio» che, una volta compreso come tale, svela il carattere artificiale (ma non per questo meno profondo) della stessa politicità. Nel ritrarre l’essere umano come “politico” Aristotele pensa, precisamente, ad un uomo dotato di logos che vive nella polis, ossia in una struttura comunitaria razionalmente ordinata ma non già naturale. Questa inflessione culturale del pensiero aristotelico, ammonisce Cacciari, sembra sfuggire a Nussbaum, dal cui vaglio critico nei confronti dei classici traspare una certa superficialità (è, altresì, il caso dello studio dell’autrice su Platone, il quale viene celermente liquidato dal filosofo con un lapidario «bisognerebbe leggerlo tutto Platone»).

A conclusione dell’evento, alcune domande del pubblico forniscono l’occasione propizia per ribadire la funzione più propria della filosofia e il suo ruolo nella società contemporanea: la pratica filosofica è chiamata, oggi più che mai, a farsi carico del mestiere della rivoluzione, a presentarsi al mondo come energia eversiva sprezzante nei confronti di ogni compromesso e disposta al conflitto per trasformare i paradigmi sociali e culturali esistenti, nel nome precipuo di quella polis che, storicamente, incarna lo spirito più proprio della filosofia e della politica. Solo dando libero corso alla filosofia come attività politica quotidiana possiamo ritrovare nella contemporaneità le radici che la fondano. Essa, infatti, non è un incidente della storia o una fatua velleità della civiltà occidentale: «l’Europa – asserisce Cacciari – nasce come filosofia; l’Europa o è filosofica o non è», e tanto basta a statuire l’urgenza del filosofare come azione politica e civile. È nella spietata interrogazione del reale – un’interrogazione metodica, coerente e razionale – che la filosofia deve riappropriarsi dell’eminente vocazione politica che originariamente la costituisce, una vocazione sopita ma non obliata, una vocazione che è indomita militanza del pensiero, forza sovversiva, disposizione alla lotta e radicale disponibilità al cambiamento.

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