Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

In un famoso libro-intervista del 1994 Giovanni Paolo II alla domanda del noto giornalista Vittorio Messori sul significato etico della dannazione eterna pose una controdomanda: «Il Dio che è Amore non è anche Giustizia definitiva? Può Egli accettare che terribili crimini passino impuniti? La pena definitiva non è necessaria per ottenere l’equilibrio morale nella storia dell’umanità?» (Varcare la soglia della speranza, Milano 1994, p. 202). Né atto di odio né atto di amore ma atto di giustizia. Questa la ragion d’essere della pena.

L’idea di “retribuzione” declina nel diritto penale storico – e in particolare nella funzione e finalità della pena – l’atto di giustizia della punizione ed àncora la pena alla dimensione etica dell’uomo. Oggi però l’idea retributiva intesa quale scopo ontologico della pena (idea la cui matrice non è solo giudaico-cristiana ma anche liberale classica) è relegata nell’archeologia dei concetti giuridici, meritevole al più di qualche cenno storico nella manualistica corrente di diritto penale. Altre concezioni, più supportate nell’ambito della scienza penalistica e più aderenti all’orientamento culturale prevalente, hanno da tempo soppiantato la retribuzione: le teorie della funzione di prevenzione generale della pena e della funzione rieducativa della pena. D’altronde la nostra Carta Costituzionale (art. 27, secondo comma: «Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato» ) prescrive esplicitamente la funzione rieducativa. Tuttavia il dibattito sulla funzione della pena, al crocevia tra diritto, etica, filosofia, è lungi dall’aver trovato una conclusione definitiva ed anzi nell’ambito stesso della scienza penalistica il terreno resta quanto mai mosso.

Il tema è immenso. Qui desideriamo, più modestamente, volgerci all’indietro, ossia volgerci alla vecchia idea retributiva della pena e rivisitarla in alcuni suoi tratti essenziali. Perché? Perché la pena retributiva, nonostante tutte le critiche di cui è stata fatta oggetto, continua a sembrarci la più vera e giusta. In passato illustri maestri della scienza penalistica, tra i quali è doveroso ricordare Giuseppe Bettiol (1907-1982), il più autorevole esponente del retribuzionismo in Italia, scrissero pagine bellissime e persuasive sulla funzione retributiva. Quelle impolverate pagine meritano di essere rilette, ridiscusse e riproposte, non fosse altro che per tenere aperto il dibattito su un’altra possibile prospettiva giuridico-filosofica e umanistica circa gli scopi della pena nell’ordinamento giuridico contemporaneo.

La retribuzione sinonimo di vendetta o di corrispettivo? La differenza non è di poco conto. Il corrispettivo fonda la massima del diritto romano secondo cui occorre riconoscere a ciascuno il suo. E cosa spetta al reo? Una punizione reintegrativa per il male commesso. Questo è il corrispettivo che chi ha subìto il danno si aspetta di ricevere a ristoro e, al contempo, si aspetta che venga inflitto a chi quel danno ha provocato. Il corrispettivo implica una idea razionale di giustizia e di equilibrio (il «contrapasso» di dantesca memoria) e trova un fondamento etico prima ancora che giuridico. Esso sgorga dall’esigenza del giusto inscritta nel cuore umano, dell’uomo quale essere morale e razionale, capace di distinguere il bene dal male e di scegliere. Così inteso, il corrispettivo – cioè la retribuzione –   del diritto penale concepisce la pena quale giusto dolore inflitto in risposta al male commesso dal reo. Il principio di equilibrio restaurativo dell’ordine violato (cioè la giustizia) è realizzato dall’inflizione della pena la quale non obbedisce ad altri (e sacrosanti) princìpi morali quali la misericordia, il perdono, il filantropismo: princìpi bellissimi i quali però non possono offuscare (almeno concettualmente; l’esecuzione è altra cosa) il principio della giustizia, che è retributivo. Ma veniamo alle classiche confutazioni della funzione retributiva della pena.

L’idea retributiva della pena si manifesta – e trova il proprio fondamento – nell’esigenza di reazione alla violazione della norma. Chi subisce un torto, un male, un danno da parte di un altro è spinto a reagire, a vendicarsi ripagando il male col male. Vista da questa angolazione la retribuzione diventa facile bersaglio della critica: in un complesso, raffinato ordinamento giuridico civile il concetto di vendetta suona arcaico e primitivo, un residuo di barbarie. Se la retribuzione coincidesse con l’atavico impulso o istinto di vendetta essa non sarebbe accettabile nel mondo del diritto e della civiltà contemporanea. Ma questo accostamento non è corretto: la retribuzione (anzi: il diritto  penale) inizia proprio là dove termina la vendetta. La pena retributiva costituisce sì una reazione, ma razionale, sobria, proceduralizzata  e proporzionata alla gravità del male commesso. Non c’è spazio per l’istinto e l’emotività che caratterizzano la vendetta la quale – anche quando assume connotazioni “razionali” (la vendetta premeditata) – si pone su un piano estraneo all’idea del corrispettivo. Non infligge al reo ciò che al reo spetterebbe secondo giustizia, cioè secondo un rigido criterio di equilibrio tra offesa e reazione. E dunque se la retribuzione non è sinonimo di vendetta, lo è forse della legge del taglione di biblica memoria? I detrattori della funzione retributiva della pena ricorrono anche a questo accostamento, e sostengono che non possa esservi spazio in un ordinamento giuridico civile per la barbara e arcaica legge del taglione. Ovviamente è vero (ed ovvio) che il taglione sia oggi improponibile e nessuno lo richiede o lo invoca. Ma occorre distinguere tra l’dea retributiva di giustizia (di valenza universale e a-temporale) e le sue declinazioni storiche, plurime, cangianti e caduche. La legge del taglione e le innumerevoli altre modalità di esecuzione di giustizia punitiva che si succedettero nei secoli rispecchiavano l’idea e l’esigenza di una risposta giusta a un male commesso. In quei remoti contesti il corrispettivo si esprimeva nel taglione (che oggi  ripugna per la sua crudezza), perché quella forma di risposta sociale da un lato restaurava l’ordine violato, dall’altro soddisfaceva l’esigenza di giustizia come avvertita e vissuta dall’antico Israele.

Il richiamo al taglione ci conduce al cuore delle critiche alla retribuzione: la pena quale male. È corretto – si chiede – che l’ordinamento giuridico giusto e  razionale ripaghi il male (il reato) con altro male (la pena retributiva)? Non dovrebbe l’ordinamento, quando risponde alle violazioni, collocarsi su un piano valorialmente superiore a quello del reo? L’obiezione si basa sul fraintendimento della natura del “male” inflitto dalla pena. La quale intrinsecamente arreca un dolore a chi la subisce. Questo “male” inflitto dalla pena si accomuna al male che il reo causa alle vittime e all’ordinamento solo sul terreno prettamente naturalistico del dolore-sofferenza ma non sul piano valoriale: il male che la pena retributiva fa scontare al reo è un bene etico, è la giustezza della punizione oppure – adottando una metafora efficace – è la sofferenza che il malato sopporta quando segue un percorso terapeutico che potrà condurlo alla guarigione. Se il reato è un disvalore (o valore di segno negativo) che arreca dolore alla vittima, la pena retributiva è un valore restaurativo che arreca sofferenza (male naturalistico ma non valoriale) al reo. Anzi: indirettamente al reo arreca un bene di ordine superiore.

In quanto reazione per definizione proporzionata al reato, la pena retributiva è certa nella entità e nella durata: una salvaguardia del principio di legalità e dello Stato di diritto. La sua funzione è da ricercare in se stessa: la giustizia. Suona scontato il richiamo alla concezione della pena in Kant: l’idea retributiva trova in se stessa il suo fondamento e la sua giustificazione, espressione di un imperativo categorico che il filosofo di Königsberg fondava sull’autonomia morale e i retribuzionisti di ispirazione cristiana sulla legge morale inscritta nei cuori da Dio. In entrambi i casi, la pena retributiva muove dal riconoscimento della insopprimibile dignità morale dell’essere umano. L’uomo libero nel suo volere è capace di scegliere il male; una volta commesso il male-reato egli, paradossalmente ha “diritto” alla pena-punizione, purché questa sia giusta, certa e proporzionata (corrispettiva) al male commesso. La pena retributiva, giusta in sé, è funzionale all’uomo. Invece altre concezioni di pena (la prevenzione generale; la rieducazione) riducono l’uomo a strumento della società e delle idee o degli interessi o dei gruppi in essa dominanti. Nella concezione generalpreventiva il reo viene punito con la finalità generale di prevenire che altri commettano reati, cosicché – in ipotesi teorica – non è neppure necessario che sussista una colpevolezza (anche l’esemplare punizione di un innocente può raggiungere lo scopo generalpreventivo) e inoltre il requisito della proporzionalità tra punizione e gravità del reato commesso viene scardinato o comunque relegato nell’inessenzialità. Di converso la funzione rieducativa della pena da un lato pone seri problemi in merito alla libertà morale del reo (il quale subirebbe compressioni nella sua libertà interna di coscienza; non si può costringere al bene e alla virtù; inoltre chi e con quali criteri stabilisce i contenuti valoriali della rieducazione?); dall’altra introduce un vulnus alla certezza e durata della pena (come si può prevedere quanto durerà il processo rieducativo?).

A ben vedere, per concludere queste veloci notazioni, le finalità di difesa sociale e rieducative non attengono alla pena (la quale ontologicamente resta retributiva) ma al momento della sua esecuzione. La pena punisce (con certezza e proporzione) perché è giusto punire il male; ma punendo, la pena può anche, collateralmente, condurre il reo al convincimento di meritarsi un giusto castigo e per conseguenza alla sua resipiscenza morale (l’emenda) e al recupero sociale; e può altresì, con la certezza di far subire al reo una pena afflittiva ancorché proporzionata, trattenere i consociati dal commettere reati.

Se dunque, nel mondo puro delle idee, la pena retributiva traduce l’esigenza morale e naturale di giustizia, ci piace concludere citando dalla grande lezione del già menzionato Giuseppe Bettiol (in Scritti giuridici, Padova 1966, p. 701): tra le varie concezioni della pena «l’idea retributiva è la sola che incardina la pena nel mondo morale, la sola che rispetta la dignità della persona umana».

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