Danilo Breschi è professore associato (abilitato al ruolo di prima fascia - professore ordinario) di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT), dove insegna Teoria politica, Teorie dei conflitti ed Elementi di politica internazionale. È direttore scientifico del semestrale «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee». Fra le sue pubblicazioni più recenti: Meglio di niente. Le fondamenta della civiltà europea (2017); Mussolini e la città. Il fascismo tra antiurbanesimo e modernità (2018); Quale democrazia per la Repubblica? Culture politiche nell’Italia della transizione 1943-1946 (2020); Yukio Mishima. Enigma in cinque atti (2020); La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale (con Z. Ciuffoletti e E. Tabasso; 2020); Ciò che è vivo e ciò che è morto del Dio cristiano (con F. Felice; 2021); Sfide a sinistra. Storie di vincenti e perdenti nell'Italia del Novecento (con Z. Ciuffoletti; 2023). Ha curato il volume collettaneo Il tramonto degli imperi (1918-2018), con A. Ercolani e A. Macchia (2020). Ha introdotto e curato un'antologia di scritti giornalistici di Ugo Spirito: L'avvenire della globalizzazione. Scritti giornalistici (1969-79)[2022]. Ha altresì curato e introdotto nuove edizioni dell’Utopia di T. Moro (2018), della Leggenda del Grande Inquisitore di F. Dostoevskij (2020), di Socialismo liberale di C. Rosselli (2024). Altri suoi scritti si trovano nel blog: danilobreschi.com.
Non siamo che dolore, miseria, abiezione subìta e inflitta, e speranza che almeno ci spunti un germoglio d’ali per innalzarci ad attingere barlumi di luce pura, qualcosa che ci disseti per una notte, qualcosa che ci strappi dalle tenebre che albergano in noi, che noi alberghiamo, ora in stanze nascoste ora in camere di lusso. Angeli e demoni, più demoni che angeli, questa umana gente cantata, talora suonata, con organo di Barberìa, da quel teatro prima di appartamento e poi itinerante, il Teatro dei Sensibili, fondato da Guido Ceronetti nel 1970 assieme alla moglie Erica Tedeschi, con l’allestimento di spettacoli di marionette ideofore, portate a “sparare poesia” di città in città e di strada in strada, per quasi mezzo secolo.
C’è da tremare nel considerare quanto dolente sia questa condizione di donne e uomini, ora vittime ora carnefici, di sé e degli altri, in un rovesciarsi di ruoli e posizioni che rende simile ad un’orgia triste certe visioni di abomini, fra stupri, stragi, bombardamenti a tappeto, attacchi kamikaze e sempre vittime innocenti, inermi, sorprese e snudate nella loro dignità di esseri umani. Hieronymus Bosch fu perciò pittore quanto mai amato da Ceronetti, perché è il più realista tra i visionari, il più visionario tra i realisti, e tutto ciò grazie al solo fatto che indaga e scava nella carne umile e umiliata del maschio e della femmina, giovane-vecchio, vecchia-giovane, poco importa. I quadri di Bosch sono affreschi di giudizio finale dove l’uomo ora si rintana ora sguscia via da uova primordiali e ossibuchi vellutati. Giudizio ribadito da Ceronetti nel florilegio di sferzanti aforismi usciti nel 2009 per i tipi di Adelphi col titolo di Insetti senza frontiere: «Sì, Hieronymus – lui vedeva, lui vide giusto, vide che cosa siamo e diventiamo. […] Via dall’uomo, via!».
Vittima altrui e basta è solo la condizione dell’infanzia, è il bambino-bambina, la creatura di cui si è fatto scempio nella scuola di Beslan, il primo, due e tre settembre del 2004 nell’Ossezia del Nord («L’abbrutimento, l’annientamento / Qui si persegue della creatura»: Primo giorno di scuola a Beslan). Centottantasei fanciulli falcidiati dopo essere stati ostaggi di un orrore che già Conrad scopriva nel 1902 asserragliato, incistato nel cuore di tenebra che d’umano ha il nome. Solo il nome, verrebbe da dire, se non avessimo mai letto Ceronetti. Perché frequentando la sua pagina sorge ricorrente il dubbio che umano non sia sinonimo di niente di buono, non prometta nient’altro che minaccia alla pace, alla vita, degli altri e della natura, anche di quest’ultima che pure non risparmia nessuno di fronte al suo dispiegarsi “naturale”. Ma resta, su tutti e tutto, un imputato più indiziato di altri: «… che il vero male per l’uomo non è quello che soffre, ma quello che fa…», ricordava un sapiente monito di Manzoni posto da Ceronetti oltre quarant’anni fa in esergo ad un suo chirurgico zibaldone, Il silenzio del corpo (Adelphi, Milano 1979).
Si avverte, palpabile, una grande nostalgia in alcune delle Ballate dell’angelo ferito (il notes magico, Padova 2009), raccolta di poesie in cui trova conferma una delle tante autodichiarazioni di Ceronetti come poeta: «Nel verso certamente io sono stato filosofo» (Insetti senza frontiere, aforisma 193). La nostalgia che vagola tra queste ballate è il ricordo struggente, non mellifluo, di un’infanzia coincisa con il consolidamento di un regime troppo retorico per essere vero e troppo dentro la storia italiana per non essere approvato e supportato da milioni di uomini e donne della penisola. Un regime, il fascismo, che titillava passioni di un Cuore plasmato da De Amicis con gli ultimi tizzoni ardenti di un Risorgimento in disperata cerca di eroi. L’inganno però ha lasciato illusioni di gloria, sbattute violentemente contro l’amara constatazione di una guerra voluta da un dittatore in consueto spregio al popolo sedotto e abbandonato; questo viene da chiedersi. E il poeta obliquamente questo accenna: «Penuria d’alfabeto / Ma cuore generoso, noi rispondiamo / Romanosalutanti dalle piazze»; «Il Duce era Agnus Dei. Era salute / Ai capezzali, lavagna pitagorica / Cedere smemorati alla Retorica / Blenorragia di gloria d’iniziati / Pugnali denudati» (L’infanzia fascista). L’interrogativo di quell’infanzia nera ancora assilla, e sincero e coraggioso il poeta la mostra: «Tanti anni da allora e ancora oscuro / Mi è perché così tanta ci versasse / Quel nome Adua dolcezza… Oh piombo inimitabile!» (ibidem).
Ceronetti non rimpiangeva certo orbace e salti nel cerchio, non ha mai amato “credere, obbedire, combattere” che non fosse per cause perse e assolutamente personali e controcorrenti. Era un anarchico malinconico, “conservatore” per quel tanto che un simile termine può servire ad allontanare immediate associazioni mentali con simpatie collettivistiche o progressiste. Mai ha condiviso infatuazioni per comunismi staliniani o togliattiani. Canta la morte di Trotzkij: «Lev Davidovic è morto / I comunisti l’anno ammazzato. / Alle sette di sera è spirato / Il cranio gli hanno spaccato» [Corrido messicano per la morte di Lev Davidovic Trotzkij (21 agosto 1940)]; un delitto consumato con la compiacenza di tutto l’internazionale seguito stalinista: «Vidali e Siqueiros fanno festa / Togliatti a Mosca va a letto contento». Canta i “martiri” Andreu Nin e Camillo Berneri, rispettivamente trozkista l’uno e anarchico l’altro, entrambi vittime anch’essi di sicari comunisti (cfr. Con l’armata dell’Ebro morire oggi).
Il senso del tragico e la pietas sono sempre stati in Ceronetti antidoto potente contro l’illusione che tutto sia scritto nel cielo, alibi per giustificare l’orrore o rassegnarsi al sopruso, alla disumanità del più forte, del più bieco. «Vivere con la faccia atterrata nel Tragico rischiara – ma per avere più luce, all’ultimo momento bisogna rialzarla», così recitava un suo pensiero del 2014, formulato in quelle vesti del “Filosofo Ignoto” che ogni tanto amava indossare per darsi ironicamente un tono semioracolare (L’occhio del barbagianni, Adelphi). Cantava dolente, da poeta invece, i bambini ebrei spinti ad imbottire i treni per Treblinka, dove ad attenderli fumavano già camere a gas: «Cantando tutti insieme sono entrati / Là dove i tubi li hanno asfissiati». Mai arrendersi, però, nemmeno di fronte all’abominio compiuto; che la poesia almeno tenga viva lo sdegno, l’accusa, la memoria dello scempio e dia forza ai cuori dei “salvati”: «Le voci spente non scoloriranno, / Vergogna eterna su chi ai binari / Sanguinosi li ha radunati […]» (Umschlagplatz; sempre da Ballate dell’angelo ferito).
Albergava in Ceronetti la nostalgia di un vigoroso, virile pugnare per una Causa, un ideale, un dare cuore ai gesti, un sostanziare sogni di destini tragici consumati in singolar o coral tenzone di cavalieri che furono, di donchisciotteschi eroi che dovrebbero esserci ancora: «Cadrò all’Isonzo con Dante nel costato, / E mi sento il ben vissi in ogni fibra / Sapendo che la vita e la sventura / Non può guarirle che una eroica fine / In una prova inutile e infinita / Dell’essenza virile» (Con l’armata dell’Ebro morire oggi). Ecco il dove, il come e il perché della natura “irregolare” che si è soliti attribuire al pensiero e all’arte proteiforme di Guido Ceronetti. Ed è attribuzione buona e giusta. Ecco qui spiegati il tono “civile” della sua scrittura, poetica e prosastica, sempre immune dal compiacimento dell’engagé di professione, con orario d’ufficio 9-14. Ma dunque chi è il cantato di ciascuna ballata di quella raccolta di poesie sanguigne e terragne? L’angelo.
L’angelo è «una realtà», come ha sempre sostenuto il poeta-filosofo-drammaturgo-traduttore-teatrante-marionettista Ceronetti, «non un ente immaginario» e se lo dichiara «ferito» è perché «le sue lacrime sono vere lacrime» (Ballate, ferite d’angelo; questo il titolo delle quattro paginette di prefazione/introduzione a quella raccolta del 2009). Lo si incontra per strada, ogni volta che evade da quelle prigioni che chiamiamo “case” («La galera non è una casa. È la casa – ogni casa – che è una galera»: Insetti senza frontiere, aforisma 69), ogni volta che lo sguardo nostro si fa pietoso e assetato di luce. Una sete destinata a restare inestinguibile, perché di luce poca ne troveremo, mentre di tenebre sempre in quantità industriale avremo scorte abbondanti e inesauribili. Dunque, l’angelo non può che essere ferito, non può che gemere per il suo bianco indumento insozzato di sangue e sudore.
Credo che l’angelo ferito abbia il sembiante del bambino e di colei/colui che si scopre vera madre/vero padre nel momento perfetto in cui il suo sguardo più nudo e interconnesso al cuore si affissa su quella creatura, che finalmente scopre come tale, legame che slega il genitore dal sé e lo proietta oltre, alla ricerca di quella luce la cui brama sola può far spuntare germogli d’ali. Ma il legame, per chiudersi a cerchio e tentare l’infinito come circolo inesausto, non può che unire la mano del neonato a quella del vecchio. L’ultima parola a Ceronetti, che abbiamo voluto in tal modo ricordare a tre anni e due mesi dalla sua dipartita (13 settembre 2018):
Tocca ai poeti, quelli che meritano l’aggettivo di grandi, ristabilire misura e verità: Dylan Thomas dedicò versi di forte compianto per un uomo di cent’anni, ucciso sul marciapiede da un bombardamento su Londra nel 1941. Questa è pietà vera; quella che non comprende il centenario insieme a chi è nato il giorno prima è uno spregevole sputo (Insetti senza frontiere, aforisma 212).