Dino Cofrancesco (Arce, 1942) è Professore emerito di Storia delle Dottrine Politiche dell’Università di Genova. Ha diretto il Centro per la Filosofia Italiana e il Centro internazionale di Studi Italiani dell’Università di Genova. È nel Comitato Scientifico o Direttivo delle riviste ‘Nuova Storia Contemporanea’, ‘Il Pensiero Politico’, ‘Libro Aperto’, ’Quaderni di scienza politica’, ’Civitas et Humanitas’. Ha collaborato al ‘Corriere della Sera’, al ’Foglio’, a ’Libero’, al ‘Riformista’, al ‘Dubbio’. Ha scritto saggi sul liberalismo, sullo stato nazionale, sulla destra radicale.
Se sulle orme di Theodor W. Adorno, volessimo costruire una Scala T del totalitarismo, sicuramente dovremmo porre, tra le prime caratteristiche della personalità totalitaria l’attitudine a ‘far di tutta l’erba un fascio’ ovvero a unificare ‘chi è contro di me’ in una massa damnationis che non ammette o ritiene irrilevante ogni ‘distinguo’. I nemici dei nazisti erano gli ebrei, i socialdemocratici, i comunisti, i liberali, i democratici – fossero eredi dell’Illuminismo francese o di quello inglese –, i cristiani fedeli all’universalismo etico dei Vangeli, i liberalconservatori legati all’idea dello stato di diritto etc. etc. Tra il (presunto) bene e il (presunto) male non esistono vie di mezzo. La fallacia del piano inclinato (slippery slope) è il manganello di cui si servono i custodi del pensiero unico per liquidare critici e dissenzienti. Se tu sostieni, come ha fatto una sociologa svedese, che la convivenza tra etnie culturali molto diverse comporta problemi di ordine pubblico, sei sulla china che porta alla svastica. È la liquidazione del ‘dialogo’, possibile solo se si suppone che i due interlocutori abbiano qualcosa di interessante — e di veritiero — da dire.
Oggi in Italia non pochi sovranisti fanno pensare alla Scala T ma lo stesso può dirsi degli antisovranisti. In un articolo, assai discutibile, apparso sul ‘Foglio’ del 21 luglio, Nel ventennale del G8 di Genova c’è una grande verità rimossa: gli eredi dei No global oggi si trovano nella destra sovranista, Claudio Cerasa sostiene che i temi che, vent’anni fa, ispiravano i black bloc si ritrovano tutti a destra: l’avversione al mondialismo, alla globalizzazione, all’imperialismo |sic!|, alle oligarchie finanziarie, al neoliberismo, alle multinazionali, al Wto, ai Soros, alle privatizzazioni, all’austerità fiscale, alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, il richiamo al primato nazionale. Ne deriva, secondo la più pura logica totalitaria che gli oggetti di avversione sono tra loro solidali, sono anelli congegnati in modo che ciascuno tira l’altro e che non si possono separare senza cadere in una contraddizione logica e in un peccato contro lo spirito.
Sei perplesso sui modi in cui si sta costruendo l’unità europea? Significa che t‘ispiri ad Alfredo Rocco e sei un avversario ideologico di Altiero Spinelli. Vorresti una globalizzazione meno imprevidente – per citare il bel volume di Danilo Breschi, Zeffiro Ciuffoletti e Edoardo Tabasso, La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale (Effici 2020)? Significa che sei un potenziale parlamentare di Fratelli d’Italia. La postazione ideologica in cui si colloca Claudio Cerasa è quella in grado di «associare le politiche portate avanti dal mondo progressista con quelle portate avanti dai difensori del mercato libero».
Insomma, sembra di capire: proliferazione dei diritti individuali (di qualsiasi tipo) più mercatismo, con la messa in soffitta non solo del vecchio Marx (che in soffitta già si trova dal 1911 con la famosa frase di Giovanni Giolitti), ma anche del welfarismo socialdemocratico che, secondo la geniale scienziata politica statunitense, Sheri Berman, ci ha regalato i venti anni migliori del nostro dopoguerra (vedi il suo saggio del 2006, significativamente intitolato Primacy of Politics: So-cial Democracy and the Ideological Dynamics of the Twentieth Century, Cambridge U.P., 2006). È la realizzazione dell’incubo di Augusto Del Noce che prevedeva una generazione di Claudio Cerasa che avrebbe liquidato sia la borghesia tradizionale (con i suoi valori vittoriani) sia il proletariato classico, con il suo sogno della rivoluzione anticapitalista.
Cerasa si fa raggiante al pensiero che la sinistra mondiale non sia stata contaminata dalla dottrina ‘no global’ e che i miasmi genovesi siano rifluiti a destra ma, forse, si illude nel minimizzarne l’appeal in certi settori e movimenti politici (lui stessi ricorda Podemos, Mélenchon, Corbyn, Sanders, la Dibba Associati). Sennonché il problema vero è un altro: davvero il mondo si divide in due, global da una parte e no global dall’altra? Davvero chi non sta con gli uni, sta con gli altri, secondo uno stile di pensiero che ha un fondamento religioso (“Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde”, Luca 11,14-23), ma che ripugna allo spirito laico e realistico che contrassegna la modernità? Non potrebbero esserci antiglobalisti dubbiosi e moderati e globalisti consapevoli dei problemi indotti da un mondo divenuto un’indivisa comunità di produzione e di scambio? E quanti come Ernesto Galli della Loggia invitano a riflettere sulle ‘virtù del nazionalismo’ – per riprendere l’espressione di Yoram Hazony – sono le quinte colonne di Donald Trump e di Steve Bannon?
In realtà, il disegno dei Cerasa è quello di contarsi, del muro contro muro, di scrivere sulla lavagna della Repubblica resistenziale e democratica l’elenco dei cittadini buoni e dei cattivi. Le tinte sfumate, i ‘sì..ma’, gli accordi parziali, le mezze misure non sono di loro gusto: redivivi Simplicius del pensiero unico debbono snidare l’avversario, smascherarne connivenze e intenzioni inconfessate.
Sennonché non è neppure questo l’aspetto più controverso dell’articolo di Cerasa. A far riflettere è che per lui l’orrore suscitato dalle devastazioni dei black boc passa in secondo piano rispetto agli obiettivi ideologici dei dimostranti. «La violenza portata in piazza dai manifestanti per così dire più facinorosi» fa da pendant alla «evitabilissima prova di forza della polizia» ed entrambe concorrono alla «rappresentazione falsata di ciò che quel G8 è stato dal punto di vista storico».
Eh no, caro Direttore, il suo è un caso da manuale di “falsa coscienza” che chiude gli occhi davanti alla realtà e se ne inventa una fittizia per convalidare le sue credenze ideologiche. Per quanti hanno vissuto quelle tragiche giornate le ragioni dei contestatori non hanno contato un bel fico secco: le devastazioni, i danni provocati a negozi e banche, la città messa a soqquadro, le sirene delle forze dell’ordine, gli assalti, il sangue versato hanno lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva, hanno mostrato quanto sia precario e difficile il mantenimento dell’ordine in una società democratica come la nostra. Alla posta in gioco (global/no global) non ha pensato nessuno: è la violazione delle più elementari “regole del gioco” a far ricordare quegli eventi come un sogno spaventoso. Mi ha scritto un lettore: «Io ricordo l’amarezza per lo sfregio fatto alla mia città da quei beceri violenti. Che poi le forze dell’ordine (o chi era loro preposto) non abbiano saputo prevenire l’invasione ed abbiano ecceduto nel rivalersi su quelli che hanno acchiappato e che magari non erano i più responsabili, è una faccia della medaglia che aggiunge dispetto». È proprio il riemergere della violenza cieca, irrazionale, incontrollata e incontrollabile che accompagnerà la reminiscenza delle giornate di Genova, indipendentemente da chi protestava contro chi e perché.
Viene il sospetto che Cerasa condivida sostanzialmente un caposaldo dell’ideologia italiana, che non tiene conto di Thomas Hobbes e della fondazione dello Stato moderno fondato sul principio che la legge e l’ordine debbano avere la precedenza su tutto, per cui – in uno Stato costituzionale e democratico – qualsiasi causa, anche la più giusta, diventa indifendibile se comporta il ricorso alla violenza. Nell’ideologia italiana, invece, è radicata l’idea della cosiddetta ‘rilevanza etico-politica delle piazze’ per la quale cortei, manifestazioni, invasioni di luoghi pubblici, quando non sono mobilitazioni sanfediste, sono sempre un’espressione della ‘libertà come partecipazione’ e vanno giudicati – positivamente o negativamente – per gli obiettivi che si propongono, non per l’oggettivo perturbamento dell’ordine pubblico e il vulnus costituito per la convivenza civile. È sconfortante che si debba ancora ricordare che la piazza con i suoi furori non ha alcun rilievo né costituzionale né morale, se la forza pubblica viene aggredita insultata dileggiata. A Genova la polizia di Stato aveva il compito di non fare entrare i dimostranti nel recinto in cui si tenevano incontri e conferenze del G8: giustificare la pretesa di chi non intendeva rispettare il divieto avrebbe dovuto essere impensabile per ogni partito e cultura politica, anche quella di Vittorio Agnoletto, Viviamo, invece, in un paese in cui in primo piano stanno i fini – che, se buoni, fanno dimenticare i mezzi cattivi –, sicché per il mainstream culturale oggi dominante, il G8 s’identifica con una battaglia ideologica non con una di quelle esplosioni collettive che società complesse e raffinate come quelle liberaldemocratiche non sanno spesso come gestire. Quest’idea della piazza come supplente delle istituzioni – quando le istituzioni si orientano in direzioni che a una parte dei cittadini sembrano sbagliate – è qualcosa di cui, temo, non riusciremo a liberarci.
Per certi ideologi, lo Stato è la dimensione della legalità ma la società civile (che non è un’istituzione ma un contenitore dei più diversi progetti di vita) è la dimensione della legittimità. Se un Parlamento liberamente scelto dagli elettori prende una decisione o emana una legge che gli interpreti della volontà generale ritengono ingiusta, si è autorizzati a scendere in piazza, a scontRarsi con poliziotti e carabinieri, a fare pressione su deputati e senatori affinché tornino sui propri passi.
Se invece dell’incontro dei leader delle principali potenze economiche mondiali si fosse organizzato nel capoluogo ligure un vertice degli statisti dell’Europa orientale contrari alla globalizzazione e se le ‘nuove’ sinistre avessero indetto manifestazioni non autorizzate da prefetti e questori, forse le probabili devastazioni ed erogazioni di violenza avrebbero ricevuto dal “Foglio” (ma anche da altri giornali nazionali) un diverso trattamento. Gli ‘eccessi’ sarebbero stati sempre condannati, beninteso, ma la ‘giusta causa’ li avrebbe fatti passare in secondo piano – come, d’altronde, è capitato agli ‘eccessi’ della Resistenza che la storiografia ufficiale e anpista ha sempre minimizzato, ricorrendo, ma solo nei momenti di sincerità, all’adagio del vecchio azionista Riccardo Lombardi che ‘per fare una frittata si deve pur rompere qualche uovo’.
Solo a una mente intossicata dall’ideologia poteva venire in mente che il G8 verrà ricordato, nella storia, per il fatto che le sinistre, allora, erano nemiche della globalizzazione e che in seguito si sarebbero ritrovate a pass the witness a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni. Nella e-mail del mio lettore, al contrario, l’«amarezza per lo sfregio fatto alla città» non ha nulla a che vedere con gli obiettivi dei contestatori. Il lettore, non lo escludo, avrebbe potuto anche condividerli, almeno in parte, ma in quei giorni vide solo il Cavaliere rosso dell’Apocalisse.
[Articolo originariamente pubblicato, con diverso titolo, sul sito della Fondazione Hume il 23 luglio 2021].