Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a
C. Giunta, “Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?” L’educazione civica, la scuola, l’Italia
Rizzoli, Milano 2021, pp. 176, € 15,00.

Claudio Giunta si occupa di letteratura e, per questa ragione, ha spesso a che fare con le scuole, si confronta con l’“ansia da programma” dei professori e soprattutto con il bisogno, quasi sempre frustrato, degli studenti di emergere almeno un po’ dalla melassa in cui ormai tutti affoghiamo.

In questo piccolo libro viene discusso un problema rilevantissimo – che spazi di libertà devono esserci nelle scuole? – il quale, a sua volta, rimanda a tutta una serie di questioni altrettanto essenziali: che cosa si deve imparare oggi quando si è bambini e poi adolescenti? Un lavoro? Le competenze digitali? La salvaguardia dell’ambiente o i valori sempiterni della tolleranza e del civismo? E a quale tipo di educazione devono essere indirizzate oggi le istituzioni scolastiche? Secondo quali criteri occorre rivedere i programmi ministeriali? Insomma, quale rapporti dovrebbero esserci fra la scuola, con i suoi limiti, le sue regole, le sue tradizioni, e la vita, la realtà quotidiana, con tutte le contraddizioni che essa porta con sé?

I temi di questo libro nascono, a loro volta, da una domanda, che una studentessa di una scuola superiore ha rivolto un giorno all’Autore durante un’assemblea: “perché mai la scuola dovrebbe impedirmi di diventare una fascista intelligente?”. Si tratta di una questione che ovviamente va al di là delle scelte politiche di una giovane liceale italiana degli anni Venti del Ventunesimo secolo e che rischia, al contempo, di attivare facilmente automatismi pericolosi negli adulti: lo sdegno e il moralismo, le prediche paternalistiche di chi vede anche oggi nel fascismo – nel vecchio fascismo storico, ormai archeologico – un vero pericolo incombente per la democrazia.

Sarebbe troppo facile, anzi sarebbe semplicemente stupido, liquidare questa domanda provocatoria come un episodio da condannare o meritevole di “rieducazione”. È invece proprio il caso di ragionarci su e riconoscere in quel desiderio di “fascismo simbolico” sia una reazione che, talvolta, può cogliere alcuni, per puro spirito di contrarietà, davanti al monopolio iper-retorico dell’antifascismo istituzionale e culturale sia, soprattutto, il bisogno di veder riaffermate virtù ormai trascurate, come il coraggio, l’amore per la tradizione, il desiderio di ordine e così via. Si tratta di virtù certamente “complicate”, che hanno, come rovescio della medaglia, il possibile sconfinamento nell’intolleranza e persino, in casi estremi, nella violenza. Ma non si può limitare questo bisogno all’effetto di un “fascismo eterno” sempre riemergente.

È giusto affermare che la scuola dovrebbe evitare che dei ragazzi arrivassero a voler diventare “fascisti intelligenti”, ma questo obiettivo non può essere certamente raggiunto con le prediche degli esperti o, peggio, con la censura o la catechesi militante durante le ore di lezione. Giustamente Giunta preferirebbe altre soluzioni e cioè che, per esempio, la scuola trasmettesse una certa libertà dall’ossessione identitaria e dall’esigenza, oggi fortissima, di avere inevitabilmente un’idea da mettere in mostra. Le vere alternative al conformismo stupido e farisaico ovunque dominante dovrebbero essere l’incertezza, l’amore per le sfumature, la sospensione del giudizio che proprio la cultura (la cultura letteraria in primo luogo) sa dare. Oggi manca la consapevolezza che non è necessario – con buona pace dei nipotini di Gramsci – essere per forza partigiani.

In secondo luogo, sarebbe utile smontare la presunta superiorità morale dell’antifascismo, soprattutto quando lo si vuole trasmettere ai giovani. In questo modo, si smetterebbe di rendere attraente il fascismo come se si trattasse di una eresia o di una passione romantica:

Credo che, a settantacinque anni dalla fine della guerra, “fascismo” sia soltanto il nome che diamo alle idee più irritanti che i nostri avversari si ostinano a sostenere, e “antifascismo” un modo per affermare la nostra pretesa superiorità morale, e che quindi, sì, né l’una né l’altra etichetta servano più a niente. Mi pare anzi che siano dannose perché semplificano una cosa complessa, riducendo il conflitto delle idee a un conflitto tra slogan (Silone lo diceva quando era molto più difficile dirlo, qualche mese dopo la guerra: «Dopo esserci liberati del fascismo, noi dobbiamo ora cercare di superare anche l’antifascismo») Non ho mai capito come ci si possa iscrivere all’Associazione nazionale partigiani d’Italia (ANPI), non perché penso che i partigiani non avessero ragione, ma perché credo che per appartenere a un’associazione che s’intitola ai partigiani occorra averne il diritto, e per averne il diritto occorra esserlo stati. Credo che un libro come Istruzioni per diventare fascisti sia un modello di fariseismo, un libro che l’editore delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana dovrebbe vergognarsi di aver pubblicato. So che libri del genere vengono proposti e imposti in certe scuole, da insegnanti pieni di ottime intenzioni. Non mi pare una buona cosa: preferirei che si ragionasse dei problemi che dobbiamo affrontare oggi, rinunciando a cercare nel passato le testimonianze della propria eticità, e soprattutto quelle della colpa dei nostri contraddittori; preferirei, anche in questo caso, che le buone ragioni dell’antifascismo non passassero attraverso la predica ma attraverso la cultura (pp. 98-99).

Questa lunga citazione ci rimanda poi a un altro tema del libro, che potremmo definire come la dittatura dell’attualità. Da quando, ormai da alcuni decenni, le ideologie (e una in particolare) hanno smesso di funzionare, sembra che tutto, nei programmi scolastici, debba obbligatoriamente essere riportato alle “buone cause” che sono sulla bocca di tutti: la difesa dell’ambiente, la parità di genere, l’antirazzismo, la legalità ecc. ecc. Tutte cose meritorie, almeno in teoria, ma questa “agenda etica” sta stravolgendo l’idea stessa di conoscenza. Ogni nozione finisce così per essere attualizzata, complice anche la nuova (ennesima) riforma ministeriale che ha riportato in auge l’educazione civica. Al posto delle vecchie lezioni (astratte e retoriche quanto si vuole, ma almeno inoffensive) sui valori costituzionali, oggi i manuali presentano sempre più spesso collegamenti fra ciò che si insegna (in ambito storico, letterario, scientifico) e l’attualità, come a dire che nulla merita di essere insegnato di per sé, ma soltanto in funzione della “lezione” che se ne può trarre per la vita. Così, si può arrivare ad effetti comici, come avvicinare Francesca da Rimini al femminicidio oppure la pazzia di Torquato Tasso alla riforma Basaglia.

Cosa deriva da tutto ciò? Soprattutto confusione e studenti sempre più ignoranti, studenti privi delle nozioni basilari e che non sanno nemmeno più scrivere.

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