Ivo Stefano Germano è docente di Media digitali e Strategie della comunicazione politica e istituzionale presso l'Università del Molise. È autore di numerosi saggi e articoli scientifici, nonché monografie, tra cui: #Quartierinogauchecaviar. Sneackers rosse eppur bisogna andar, Pendragon, Bologna 2018; Aside Story. La fatica delle vacanze (con S. Borgatti), goWare, Firenze 2017; New Gold Dream. E altre storie degli anni Ottanta (con D. Masotti), Pendragon, Bologna 2013.
Recensione a
W. Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura
Rizzoli, Milano 2021, pp. 272, €14.00.
Voglio dire una sola cosa. C’è che un gigantesco sentimento letterario sigilla il recente pamphlet di Walter Siti. Scrittore, studioso e, ai miei occhi, ottimo interprete del televisivo contemporaneo che, grazie al suo libro, dona una chance reale di togliersi di dosso l’obbligo del birignao e del blabla culturale, per tornare a parlare di letteratura, ovvero, autori con l’a maiuscola, che siano classici o meno, ad esempio Giacomo Leopardi, Dante Alighieri oppure un Bret Easton Ellis, e relativi testi. Non contesti e pretesti, come la più retorica delle fiction televisive, con i personaggi che si fanno tipologie convenzionali di “lotta veritativa”, aliene dalla forma che dovrebbe essere sempre la regola letteraria fondamentale.
Fuor d’equivoco, ogni riga è dedicata all’analisi del cuore stesso della letteratura che, consapevolmente o inconsapevolmente, sembra voler fare i conti con un tema, fra il periferico e il negletto, cioè se il “falò della vanità” arda nel mix fra edificanti appelli all’impegno, al prender parte e posizione e mondanità, oppure no. L’afflato, l’appello e il contrappello come accessori inevitabile del dress code di celebrities, influencer, icons, in ultima analisi tutti votati a dar fiato e nerbo ad un nuovo immaginario obbligatoriamente preceduto (segnalato?) dal cancelletto dentro ogni sciame di followers e “bolle”.
Walter Siti, al contrario, si concentra sull’omnia munda mundis della letteratura, a patto che si tenga al riparo dal bene “programmatico”, come canone trasversale di libri non più da leggere, ma da mostrare, con finta modestia e ritrosia di facciata, sotto le luci abbacinanti dei talk-show televisivi. Irritante per Siti vedere che «molti critici e scrittori, oggi, si comportano con la lettura come molti maschi si sono comportati con le donne: la esaltano pur di non prenderla sul serio. La riducono a essere un galoppino per le loro idee, la annegano di certezze consolatorie sulla sua onnipotenza, mentre la letteratura cambia davvero le cose quando urta contro la propria impotenza, alleandosi a quei fondamentali temi umani che gli “esercenti di questa Terra” (politici, industriali, opinion makers) trascurano e rimuovono: la depressione, la noia, la convinzione che nulla abbia senso, il lasciar perdere, il desiderio di schiavitù, il rancore, l’inconcludenza, la stupidera – il basso continuo della miseria umana da cui ogni volta le ideologie si dichiarano offese e sorprese».
Gli aedi dell’umanario global, dogmatici coi braccialetti e la giacca da motociclista, servono piatti freddi dello stigma e della continua rimozione, di fatto antitesi alla letteratura efficace che, in tutta la produzione letteraria di Siti, serve e ha senso se sa far male. In particolare, far male all’ossessione di ammonire, stigmatizzare, rimuovere, non a caso, libri e film che non corrispondono ai desiderata. All’opposto, Siti è come un vecchio amico che ti siede accanto indicando una possibile uscita dal circuito nevrotico al sapore di panna acida da laboratorio di scrittura permanente della retorica dell’ortopedia ideologica.
L’infinito può essere a portata di pagina anche in un libro ritrovato in soffitta o in cantina, purché non sia per “conto terzi”. In definitiva cosa c’è di più “anti” del disimpegno, dello smobilitare, del “chiudere baracca e burattini”, cioè del fare della pura e semplice letteratura: «Mi dispiace che un libro così abbia dovuto scriverlo io, a quasi sessantaquattro anni. Avrei preferito lo facesse uno di trent’anni». Che bel libro. Serio. È ancora tutto qui.