Lorenzo Puliti (1980) si è laureato in Storia della Musica all’Università degli Studi di Firenze e ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Musicologia presso il Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo della stessa Università. Membro del consiglio direttivo e segretario dell’associazione culturale ICAMus (The International Center for American Music), la sua attività di ricerca è incentrata per lo più sulla produzione musicale statunitense e sulle esperienze di confine fra musica "colta" e popular. Ha all’attivo varie pubblicazioni e conferenze su George Gershwin, Leonard Bernstein, Edward Van Halen, Fryderyk Chopin, Franco Alfano, Luigi Parigi e la critica musicale italiana del primo Novecento.

Quel suono che viene dal mistero. In ricordo di Eddie Van Halen

«Ogni tanto arriva qualcuno che ti mostra che uno strumento musicale è molto più profondo ed espressivo di quanto avessi mai pensato; è sempre un’emozione unica quando questo accade e ti dà il senso di come il mondo sia pieno di straordinarie possibilità. Eddie è decisamente questo tipo di musicista» (Abel Sanchez, Van Halen 101, Authorhouse, Bloomington 2005, p. 345).

Probabilmente non c’è frase migliore di quella di Abel Sanchez per spiegare in poche righe l’impatto storico di Eddie Van Halen, chitarrista fra i più influenti nella storia del rock deceduto lo scorso 6 ottobre all’età di 65 anni.

Quando il 10 febbraio 1978 uscì il primo disco dei Van Halen, la band in cui Edward e suo fratello Alex (batteria) avrebbero militato per tutta la loro carriera, il mondo del rock sobbalzò come investito da una scarica di energia rinnovata, e non si trattò di uno shock passeggero. Nella seconda metà degli anni ’70 il successo del punk aveva soppiantato il guitar hero, relegando in secondo piano le band che si basavano sulla figura del chitarrista solista virtuoso. La chitarra rock aveva ormai svelato tutte le sue possibilità?

Un bel giorno, nell’inverno del 1978, nella redazione di Guitar Player, il neo assunto Jas Obrecht apre la posta e ci trova un vinile che lo incuriosisce, lo posiziona sul giradischi e lì ricomincia tutto: «Subito dopo [aver inserito il disco] un attacco di chitarra da lasciare storditi mi sembrò quasi sfondare il muro. Corsi nell’ufficio dell’editore Don Menn proprio mentre una serie di scale distorte e urlanti si accendevano in rapida successione, insieme ad arpeggi a due mani mai ascoltati prima. ‘Cristo Santo!’ esclamò Don: ‘è una tastiera, 2 chitarre o che altro?’» (Jas Obrecht, 15 years of Van Halen & guitar player, “Guitar Player”, XXVII, n. 5, 1993, p. 61).

Il pezzo che Obrecht stava ascoltando era Eruption, una breve traccia strumentale di poco più di 1 minuto in cui Eddie Van Halen mostrava in sintesi tutto il suo stravagante repertorio: funambolici passaggi virtuosistici, fraseggi presi a prestito dal mondo classico, stravaganti effetti sonori mai sentiti prima e l’innovativa tecnica del tapping, con cui eseguiva sulla chitarra passaggi tipici degli strumenti a tastiera.

Questi e altri elementi distintivi contribuirono a formare un nuovo vocabolario stilistico, esaltato (particolare tutt’altro che secondario) da un suono con «una distorsione mai udita fino a quel momento […] Suono grosso, corposo, ricco di armoniche e lontano da quello acido e pungente di Hendrix» (Andrea Scuto, Eddie Van Halen, “Axe”, numero speciale, V, n. 39, 1999, p. 54). Era il brown sound, come Eddie amava chiamarlo, che ottenne improvvisandosi sia liutaio che tecnico del suono, conducendo una serie di esperimenti tutt’altro che ortodossi per forzare la sua strumentazione. La sua chitarra a strisce modificata, perfetta sintesi fra i pregi di una Gibson Les Paul e di una Fender Stratocaster, è ormai un’icona per tutti i chitarristi rock, mentre la configurazione del suo arsenale sonoro (amplificatore, effettistica e dispositivi di variazione del voltaggio) è ancora avvolta nel mistero e non sono pochi coloro che stanno ancora cercando di riprodurre il leggendario brown sound originale.

Quanto questo giovane chitarrista sia stato in grado di stupire il mondo lo spiega in modo eloquente un dato piuttosto semplice: la vittoria per cinque anni consecutivi del premio come miglior chitarrista dell’anno conferito da Guitar Player, la rivista più importante del settore. Ma ancora più interessante è come grazie a lui si sia aperta finalmente una nuova direzione per il mondo della chitarra rock: i chitarristi cominciarono a imitarlo per acquisire il suo nuovo vocabolario stilistico; le compagnie cominciarono a produrre modelli basati sulle sue sperimentazioni, giungendo infine all’istituzione di una nuova tipologia di chitarra, la Superstrat, unica credibile alternativa alle incontrastate regine del mercato, Gibson Les Paul e Fender Stratocaster; infine, le principali aziende produttrici di amplificatori iniziarono la loro corsa al suono Hi-gain per fornire ai chitarristi un suono in grado di valorizzare al massimo il proprio bagaglio tecnico. Eddie seppe quindi dare l’abbrivio a un nuovo percorso sul quale si incamminarono tutte le parti in causa: chitarristi, liutai e costruttori di amplificatori.

Riprendendo la frase di Abel Sanchez, quello che più dobbiamo a Eddie è proprio quella percezione di un mondo “pieno di straordinarie possibilità”, l’intuizione o il presentimento di un orizzonte nuovo, di una prospettiva che fa rinascere il desiderio di scoperta e conoscenza, smuovendoci dalla presunzione che il mondo sia tutto lì, già misurato e capito, mentre ciò che abbiamo bisogno di sapere ogni giorno è che la realtà, per fortuna, non la conosciamo ancora tutta, e che c’è ancora tanto da scoprire. Ma Eddie Van Halen non fu solo il guitar hero di una grande party band, fama che il gruppo si conquistò soprattutto nel primo periodo grazie al cantante istrione David Lee Roth, capace di trasformare i concerti in spettacoli spumeggianti: dopo i primi anni infatti, in cui la ricerca di Eddie si sviluppò soprattutto entro l’orizzonte della sperimentazione chitarristica, si aprì una sorta di seconda fase, iniziata con Roth e proseguita poi con il subentrato Sammy Hagar (dal 1985 al 1996), in cui Van Halen cominciò ad allargare il suo raggio d’azione, concependosi sempre più come songwriter e musicista a tutto tondo.

Se le canzoni del primo periodo sono delle brevi e prorompenti scariche di pura potenza in cui protagonista è tanto la baldanza quanto una certa leggerezza e voglia di divertirsi, con il tempo il nostro Eddie cominciò a concentrarsi sempre più sulla struttura delle canzoni, sull’inserimento di nuovi strumenti musicali (tastiera in primis) e sui processi di registrazione. Questa fase portò la band a produrre una serie di successi commerciali clamorosi, di cui Jump è l’esempio più conosciuto, senza, al tempo stesso, rinnegare mai la propria anima rock, sostenuta in questo secondo periodo da un songwriting più solido.

Per chi volesse farsi un’idea della prima fase con Roth è praticamente d’obbligo l’ascolto del primo disco (Van Halen), con la già citata Eruption, il riff tanto semplice quanto geniale di Ain’t Talkin’ ‘Bout Love, la corsa contro il tempo di I’m the One, e le cover ad alto contenuto adrenalinico You really got me e Ice cream man. Ma è da non perdere anche 1984 (il disco che segnò la fine della collaborazione con Roth e che produsse la hit Jump), in cui la tensione della band verso un rock potente e al tempo stesso ironico è espressa soprattutto in brani quali Panama e Hot for teacher.

Durante la fase con Hagar i successi commerciali continuarono sempre grazie alla tastiera (Dreams, Why can’t this be love e When it’s love), ma i dischi meglio riusciti sono gli ultimi 2: For Unlawful Carnal Knowledge (1991) e Balance (1995), con un sound portentoso e un’energia propulsiva che ricorda quella delle origini. Prima di un’ultima, e tutto sommato ben riuscita, reunion con Roth (A different kind of truth, 2012), Eddie non si fece mancare anche una fase più “seria” (Van Halen III con Gary Cherone, 1998), in cui cercò di toccare una dimensione emotiva più profonda, con un lirismo mai sentito prima nella storia della band (e non tutti i fan la presero bene).

Ben oltre gli stereotipi del chitarrista funambolico, Edward Van Halen, come ogni autentico musicista, fu mosso da una profonda e continua ricerca dettata dal bisogno di esprimere se stesso in musica. Più volte parlò di sé come un tramite, un “veicolo” in costante tensione verso un quid misterioso da cui traeva ispirazione. È bello pensare che adesso questo quid ce l’abbia davanti agli occhi, non solo nelle orecchie: «Mi sono accorto di essere solo un veicolo, sono semplicemente in connessione e sono stato scelto per questo. Se solo ci pensi… da dove vengono le idee? Ti vengono date e devi essere limpido e aperto per riceverle, e tenerti in forma sullo strumento per essere in grado di eseguire qualunque cosa ti arrivi» (S. Tavernese – Benci, Van Halen III: la vendetta, “Chitarre”, XIII, n. 148, 1998, p. 24).

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