Giuseppe Parlato è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT). Si è occupato di storia del Risorgimento italiano, del fascismo e della destra italiana. È presidente della «Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice».
Tra le sue pubblicazioni: Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia (1943-1948) (il Mulino, Bologna 2006); Mezzo secolo di Fiume. Economia e società a Fiume nella prima metà del Novecento (Cantagalli, Siena 2009), Gli Italiani che hanno fatto l’Italia. 151 personaggi per la storia dell’Italia unita (Eri Rai, Roma 2011), La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale (Luni, Milano 2017).

Genova ’60: sessant’anni dopo

È strano come su un episodio così rilevante della storia dell’Italia repubblicana vi siano ancora tante ombre. Il riferimento è ai fatti di Genova del luglio 1960, quando un’insurrezione determinò una svolta decisiva al governo del paese, che passò dal centrismo sbilanciato a destra al centro-sinistra. Ma non soltanto: Genova rappresentò, simbolicamente, il riscatto dell’antifascismo dopo un quindicennio di gestione moderata, in cui il ruolo politico e storico della Resistenza fu condizionato non solo dalla continuità dello Stato ma soprattutto dalla Guerra fredda.

L’occasione fu data dall’annuncio del congresso del Movimento sociale italiano, il sesto della sua vita, che si sarebbe dovuto tenere nel capoluogo ligure dal 1° al 4 luglio. Il Msi era in quel momento un partito che appoggiava dall’esterno il governo monocolore di Fernando Tambroni, un democristiano di sinistra che avrebbe voluto guidare un governo di centro-sinistra (sarebbe stato il primo) ma che, a causa dei veti vaticani, si dovette accontentare di un  governo di transizione, “amministrativo”, si disse allora, con il Msi e cioè con l’unico partito che aveva accettato di dargli la fiducia.

Dal 30 giugno cominciarono a Genova scioperi generali, manifestazioni sempre più decise contro il governo e contro il risorgente fascismo. Si segnalò per veemenza Sandro Pertini, socialista, che infiammò la piazza ricordando che si sarebbe dovuti essere più duri nel 1945, nella resa dei conti con i fascisti, se solo quindici anni dopo erano di nuovo al governo. Sdegnò la piazza il fatto che il Msi volesse tenere il congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza (ma il congresso precedente era stato tenuto a Milano, nel 1956, anch’essa città medaglia d’oro della Resistenza). In effetti, l’avere scelto come sede congressuale un teatro collocato a poche decine di metri dal cippo che ricordava i lavoratori genovesi inviati in Germania nonché i fucilati dalle autorità della Repubblica sociale italiana, non costituì un luminoso esempio di scaltrezza e tanto meno di buon gusto.

Non era la prima volta che il Msi si avvicinava, senza entrarvi, alle stanze del potere: nel 1953 aveva appoggiato il governo di Giuseppe Pella quando questi aveva mandato le truppe a presidiare il confine orientale, in risposta alle minacce di Tito. Nel 1955 aveva contribuito a eleggere Gronchi alla presidenza della Repubblica, nel 1957 aveva sostenuto il governo monocolore Dc guidato da Adone Zoli e il secondo governo di Antonio Segni; nel frattempo aveva anche appoggiato una giunta con i comunisti all’Assemblea regionale siciliana, la famosa giunta Milazzo. Ma quello che caratterizzava la presenza missina era il fatto che il Msi, in nessuna delle occasioni ricordate, era determinante; anzi, quando lo stava per diventare, dopo il ritiro dei liberali dal governo nel gennaio 1960, Segni si era dimesso apposta per evitare questa situazione e per questo era stato duramente ripreso dal presidente del Senato, Cesare Merzagora, che incominciò in quella circostanza a parlare del pericolo della partitocrazia, dal momento che Segni aveva evitato il voto di fiducia e aveva aperto la crisi senza il passaggio in Parlamento.

Genova divenne quindi un’icona dell’antifascismo; ma di quell’antifascismo duro e rivoluzionario di cui nella “Superba” si era vista più di una traccia nell’attentato a Togliatti, nel luglio di dodici anni prima. In quell’occasione saltarono fuori le armi nascoste dai partigiani dopo la fine della guerra, quelle che i partigiani non avevano mai voluto consegnare alle autorità.

Quali e quante le pagine ancora oscure di questa vicenda? Diverse.

La prima domanda che ci si può porre riguarda i motivi per cui il segretario della Dc, Aldo Moro, non oppose un rifiuto esplicito alla inedita maggioranza Dc-Msi. Oltre tutto, dopo la fiducia, risicatissima, ben tre ministri avevano dato le dimissioni non condividendo l’appoggio missino. Moro, da un lato, ribadiva la vocazione antifascista del partito, dall’altra, invitava Tambroni a proseguire. Ma dopo le dimissioni dei tre ministri, anche il Presidente del consiglio si dimise e Gronchi fu costretto a riaprire le consultazioni. Ma il tentativo di Fanfani, anch’esso orientato verso la collaborazione, ancorché esterna, del Psi, non andò in porto per i soliti veti d’oltre Tevere. A quel punto Gronchi convinse Tambroni a farsi dare la seconda fiducia dal Senato, dove peraltro il Msi non fu determinante perché la Dc, più qualche indipendente, aveva la maggioranza assoluta.

Viene da chiedersi perché Moro non bloccò subito il tentativo di Tambroni, nonostante si fosse verificata, già nell’aprile del 1960, una reazione veemente della base democristiana verso quello strano governo. Tra l’altro la destra Dc era contraria, preferendo un governo di “centro-destra” con liberali e monarchici, ma non con il Msi determinante. Fu Moro a imporre ad una riluttante Dc questa soluzione. Non si è mai compreso fino in fondo il motivo vero di questo comportamento, da alcuni attribuito a una indolenza del politico pugliese, a una certa indecisione nelle scelte, ovvero, per altri, a un disegno lucido teso a far fallire, alla distanza, quel governo allo scopo di rendere ineluttabile l’apertura a sinistra. Non è un caso che neppure monarchici e liberali, per motivi diversi, si siano voluti impegnare in quel governo.

Seconda questione. Perché Tambroni, che aveva annunciato un governo a termine e “amministrativo”, volle in Parlamento delineare uno scenario che avrebbe visto il proprio governo durare per una intera legislatura o anche di più? Fu frutto della propria ambizione o qualcuno lo rassicurò?

Terza questione. Arriviamo a Genova. Dalla formazione del governo sono passati solo tre mesi. Il Msi ha deciso il congresso nella città ligure con l’obiettivo di lasciarsi alle spalle, almeno ufficialmente, il pesante fardello fascista, dichiarando la sua piena accettazione del metodo democratico e il rifiuto di ogni simpatia totalitaria. Michelini pensava di concludere un processo di trasformazione del partito che gli era costato traumatiche scissioni a destra (Pino Rauti) e a sinistra (Ernesto Massi), con peraltro scarse ricadute negative sull’elettorato. Perché, nonostante le forti perplessità del deputato locale Gonella, Michelini insistette sulla scelta di Genova?

In realtà il segretario provò a convincere i suoi a spostare la sede, ma l’ala più movimentista si ribellò, Almirante in testa, costringendo il segretario a mantenere il punto su Genova. È inutile dire che l’ala movimentista non aveva mai del tutto accettato la trasformazione del partito. Alcuni anni dopo un esponente vicino a Romualdi, ma in linea con il segretario, avrebbe ammesso che se la Dc avesse capito il Msi, dopo la riuscita del congresso, avrebbe potuto anche sciogliersi. Fu anche inspiegabile il fatto che, poco prima del congresso, il Msi, per reagire alle dichiarazioni di antifascismo della Dc, decidesse di far “saltare” tutte le giunte monocolore Dc che si reggevano con il voto determinante del Msi. Erano una trentina in tutta Italia, compresa la giunta comunale di Genova.

Penultima questione. Chi preparò la rivolta genovese? Si è sempre detto che il maggiore sforzo fu quello dell’organizzazione del Pci, il che è sicuramente vero. Ma chi la volle a tutti i costi? Non il Pci, che se ne accorse soltanto una settimana prima della rivolta. Piuttosto l’Anpi, Parri e i Circoli della Resistenza, che riuscirono a coinvolgere socialisti, repubblicani, liberali e socialdemocratici in nome non solo dell’antifascismo ma soprattutto dello Stato laico, per contrastare il governo “clerico-fascista” di Tambroni. Tanto è vero che proprio Nenni dirà, al termine della vicenda, che il Pci era riuscito a presentarsi come il vero attore della rivolta, non solo a Genova ma soprattutto a Reggio Emilia, a Roma e in Sicilia, dove gli scontri con la polizia avevano determinato dieci morti e centinaia di feriti. Il Psi, che era partito prima di tutti grazie al famoso comizio di Pertini il 30 giugno a Genova, alla fine era diventato il rimorchio di Togliatti. Un’analisi sulla fase preparatoria della rivolta non è mai stata fatta.

Ultima questione: Aldo Moro nel memoriale dal carcere, interrogato dalle Brigate Rosse, afferma testualmente: siamo stati De Lorenzo ed io a liquidare Tambroni. Una frase molto criptica. Poi, oltre tutto, perché avvicinare due personaggi all’apparenza così distanti come il futuro protagonista del compromesso storico e il generale che diventerà deputato del Msi-Dn nel 1972 e che ha legato il suo nome al Piano Solo del 1964? Il discorso sarebbe molto lungo da fare in questa sede e soprattutto una risposta seria richiede molta documentazione e soprattutto abbattere molti pregiudizi e parecchi luoghi comuni.

Tutto questo per dire che per uno dei momenti più significativi e drammatici della storia dell’Italia repubblicana, le ombre superano le luci. Fu il primo caso di un governo caduto su pressione della piazza, senza che la Dc lo difendesse. Anzi Moro trovò, con Tambroni ancora a Palazzo Chigi, la soluzione Fanfani che formò il primo governo con socialisti e liberali insieme, il famoso governo delle “convergenze parallele”. Il centrosinistra divenne realtà e il paradigma antifascista costituì la legittimazione morale a governare da allora in poi, fino alla fine della prima Repubblica.

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