Giuseppe Parlato è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT). Si è occupato di storia del Risorgimento italiano, del fascismo e della destra italiana. È presidente della «Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice».
Tra le sue pubblicazioni: Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia (1943-1948) (il Mulino, Bologna 2006); Mezzo secolo di Fiume. Economia e società a Fiume nella prima metà del Novecento (Cantagalli, Siena 2009), Gli Italiani che hanno fatto l’Italia. 151 personaggi per la storia dell’Italia unita (Eri Rai, Roma 2011), La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale (Luni, Milano 2017).

La sinistra del Msi e l’opposizione all’“Operazione Sturzo”

La storia del Movimento sociale italiano si può interpretare come una continua competizione tra l’anima legalitaria, convinta di potere realizzare la traduzione di alcuni lasciti del Ventennio in un contesto di pluralismo e di democrazia, e quella rivoluzionaria, persuasa che ogni anche piccolo discostarsi dall’immagine e dal ricordo del fascismo – e quindi ogni accettazione del sistema nato dalla sconfitta del 1945 – avrebbe significato soltanto tradimento.

Una sindrome, quella del tradimento dei valori “perenni” del fascismo, che si presenterà costante in ogni momento cruciale nel quale le condizioni politiche generali sembrarono permettere una qualche legittimazione al Msi. È evidente il corollario che mentre i “rivoluzionari” non volevano alcuna legittimazione, i “politici” la cercavano quale condizione della presenza legale del Msi. Da quando Pino Romualdi fece la scelta legalitaria, ossia nel 1947, per oltre trent’anni la storia della destra italiana è stata un continuo oscillare fra democrazia e prospettive rivoluzionarie, tra inserimento e alternativa al sistema, tra lealtà parlamentare e suggestione eversiva. Da questo punto di vista, la cosiddetta “Operazione Sturzo” fu emblematica. Essa costituì il tentativo di creare, per le elezioni amministrative romane del 1952, una lista anticomunista e antilaicista, che, oltre ai cattolici, comprendesse le destre missina e monarchica, con capolista il vecchio fondatore del Partito Popolare, il cui antifascismo nessuno avrebbe potuto mettere in dubbio.

Già nella prima tornata di amministrative, nel 1951, la Dc ebbe una forte flessione rispetto al clamoroso – e irripetibile – risultato del ’48, mentre il Msi ebbe, anche al Nord, ottimi risultati rispetto al 1948: tra il 7 e l’8% a Bergamo e a Brescia, l’8,6% a Mantova, il 7,6% a Verona, il 14,6% ad Ascoli, l’8,5% a Macerata, l’11,3% a Udine, il 10,7% a Grosseto, il 10,3% a Massa e a Siena, il 13,6% a Viterbo, il 18,5% all’Aquila, il 17% a Pescara. Ciò aveva fatto bene sperare sugli altri risultati del Sud, rinviati all’anno successivo.

Il timore, per la Dc, era che al centro-sud la situazione potesse essere ancora peggiore: in particolare, a Roma si temeva una vittoria delle sinistre, che si presentavano con un capolista, Nitti, in grado di attirare voti laici e moderati. Fu il segretario della Dc, Guido Gonella, a preoccuparsi per primo, ipotizzando una lista senza simboli con le destre. Sarebbe stato Luigi Gedda a tenere i contatti con il Msi e con i monarchici. La proposta del fondatore dei Comitati Civici suscitò nell’ambiente missino una notevole preoccupazione. La sinistra del partito, la componente più rivoluzionaria e intransigente, si oppose duramente all’accordo con i cattolici, temendo che questa operazione avrebbe portato a uno spostamento a destra del partito.

Segretario era Augusto De Marsanich, che era succeduto ad Almirante nel gennaio del 1950, impostando una linea fondata sull’accordo con i monarchici, spostata sull’atlantismo e corredata da una nuova attenzione verso i cattolici. In questo senso gli intransigenti pensarono che questa “operazione” avrebbe mandato in soffitta la nostalgia e il continuo richiamo ai riti e ai temi del fascismo. In qualche modo avevano ragione. Gedda divenne il nemico: già in occasione delle elezioni siciliane del giugno 1951, Gedda aveva sottolineato la necessità dell’apertura di un fronte largo anticomunista: Alfredo Cucco, esponente di punta del Msi isolano, fu ricevuto dal card. Ruffini, arcivescovo di Palermo. Dopo le elezioni l’astensione missina permise alla Dc di formare il nuovo governo regionale.

La sinistra del Msi mise in campo due dei settimanali più seguiti nel partito: il milanese «Il Meridiano d’Italia», diretto da Franco Servello, e il romano «Asso di Bastoni», di Piero Caporilli. Inoltre la corrente di Almirante contrastava la linea politica del segretario. In particolare aprì le ostilità contro Gedda Bruno Spampanato, già direttore de «Il Messaggero» in Repubblica sociale, fascista di sinistra e soprattutto anticlericale: negli anni Trenta aveva sostenuto una curiosa continuità fra Robespierre e Mussolini. Quando poi Gedda divenne presidente dell’Azione cattolica, nel gennaio 1952, per i moderati del Msi fu un segnale importante. L’azione di Spampanato divenne allora sistematica: dal febbraio all’aprile 1952, e cioè fino alle elezioni amministrative, ogni settimana tirò bordate contro la proposta di lista unica, richiamandosi al patriottismo di partito, dichiarando ambigua la proposta di Gedda e ricordando l’impegno dei Comitati civici a favore della Dc nel 1948.

In tutta la vicenda si innestarono questioni più ampie, come la legge Scelba, in quel momento in discussione in Parlamento, la sorte di Trieste, contesa tra Italia e Jugoslavia, e la proposta di Fronte Nazionale, l’idea cioè che le forze di destra si unissero al di là dei singoli partiti in una nuova formazione più ampia e in grado di entrare nel gioco politico. In sostanza, tra il gennaio 1951 e il giugno 1952 si svolse una dura polemica nel Msi in merito alla strategia di fondo. Operazione Sturzo, legge Scelba, alleanza con i monarchici, Fronte nazionale, linea atlantica costituivano gli ingredienti di uno scontro senza quartiere.

Da una parte, la sinistra socializzatrice e nostalgica di Salò, con Servello, Pettinato, Pini, Spampanato, Franzolin, Guglielmotti e altri, che mirava a fare fallire la linea di De Marsanich e tornare all’isolamento orgoglioso, rifiutando ogni collegamento con le forze “conservatrici e cattoliche”; dall’altra una vasta area che guardava con interesse alla crescita del Msi: oltre a Gedda, Bottai, uno dei fautori del Fronte Nazionale, Giovannino Guareschi, che aveva definito “cameragni” (camerati e compagni) quelli della sinistra missina. Almirante attaccò pesantemente Bottai sul «Meridiano d’Italia» sostenendo che la sentenza del Tribunale fascista di Verona che nel 1944 aveva condannato a morte i “traditori” del 25 luglio, era ancora «politicamente e moralmente validissima».

L’Operazione Sturzo, com’è noto, fallì, anche per le divisioni interne al Msi. «Meridiano d’Italia» e «Asso di Bastoni» salutarono il fallimento con entusiasmo, convinti di avere definitivamente sventato le manovre della destra “americana” e “monarchica”. Tuttavia le elezioni amministrative nel Sud confermarono lo stato di grazia della destra. Il Msi, apparentato con i monarchici, ebbe risultati sorprendenti: l’11,3% a Trieste, l’11,6% a Perugia, l’11,3% a Bolzano, il 14,1% a Frosinone, il 14% a Rieti, il 15,6% a Roma (nelle precedenti amministrative ebbe meno del 4%), l’11,8% a Napoli, il 13,2% a Bari, l’11,4% a Potenza, il 14% a Catanzaro e a Cosenza, il 18,3% a Catania, il 18,8% a Palermo, il 22,9% a Trapani, il 17% a Cagliari.

La vittoria in tanti centri meridionali delle liste monarchico-missine diede ragione alla politica di De Marsanich e di Michelini. Il congresso dell’Aquila confermò la linea moderata e la sinistra fu sconfitta di misura, determinando l’uscita dal partito dei maggiori esponenti dell’opposizione: Pini, Pettinato, Invrea e Palamenghi Crispi. Era così aperta la strada alla strategia di Michelini, che, due anni dopo, divenne segretario del partito.

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