Giuseppe Parlato è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT). Si è occupato di storia del Risorgimento italiano, del fascismo e della destra italiana. È presidente della «Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice».
Tra le sue pubblicazioni: Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia (1943-1948) (il Mulino, Bologna 2006); Mezzo secolo di Fiume. Economia e società a Fiume nella prima metà del Novecento (Cantagalli, Siena 2009), Gli Italiani che hanno fatto l’Italia. 151 personaggi per la storia dell’Italia unita (Eri Rai, Roma 2011), La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale (Luni, Milano 2017).
2 giugno: festa della Nazione
Quando si farà la storia della pandemia del 2020 non si potranno non ricordare i tricolori appesi alle finestre e ai balconi, l’inno nazionale cantato dalla gente in casa, la voglia di orgoglio nazionale come se il virus fosse un nemico non dell’umanità ma della nazione.
Sono strani e carsici i canali che legano l’identità nazionale, fatta di sentimento, di indignazione ma sostanziata da pochissima storia condivisa. Può sempre succedere che, fra qualche giorno, si riproponga in maniera drammatica lo scontro tra italiani, come è successo dalla guerra di Libia in poi. Ci sono sempre alcuni che sono più italiani degli altri; in agguato c’è sempre la delegittimazione dell’avversario, promosso sul campo a nemico assoluto e quindi destinato prima all’ostracismo nazionale, quindi alla possibile, anzi auspicata distruzione.
Per un bizzarro disegno del destino, la fase acuta della pandemia si conclude – almeno sembra – in occasione della festa del 2 giugno, la festa della Repubblica.
Una festa che non racconta, come dovrebbe essere, il “compleanno” della nazione o dello Stato, ma che ricorda il passaggio istituzionale tra monarchia e repubblica del 1946; una data che conclude il “dopoguerra breve”, mentre per quello “lungo” bisognerà attendere il 18 aprile 1948.
Altri avrebbero proposto per la festa nazionale la ricorrenza della nascita dello Stato unitario e indipendente, e cioè il 17 marzo 1861 (l’anno prossimo saranno 160 anni che esiste l’Italia come struttura statuale). In effetti, nove anni fa, il presidente Napolitano indicò, ma solo per quell’anno, il 17 marzo festa nazionale. Poi ci si dimenticò del compleanno e si tornò al 2 giugno.
Una data sfortunata quella del 17 marzo: neppure durante la monarchia si festeggiava, preferendo la festa dello Statuto, promulgato nel 1848, che si celebrava la prima domenica di giugno.
La fortuna del 2 giugno come festa nazionale è stata alterna. Venne indetta subito: nel 1947 si festeggiò per la prima volta, nel 1948 fu proclamata festa nazionale, nel 1949 ci fu la prima parata. Si è detto che la sua fortuna, immediata, è dipesa dal fatto che sia stata una festa non divisiva, come ad esempio il 25 aprile. Il che è vero, se non altro perché il 2 giugno non ricorda una guerra civile, come il 25 aprile e soprattutto, a differenza della festa della Liberazione, che dal 1960 ha assunto una connotazione evidentemente e orgogliosamente antifascista, non è celebrata in funzione “antimonarchica” ma semplicemente in una chiave nazionale.
Questa è stata la sua fortuna e la sua disgrazia. Nel 1961 la festa del 2 giugno fu celebrata a Torino, in ricordo della prima capitale. Nel 1963 invece la parata non fu effettuata per rispettare l’agonia di Giovanni XXIII, che sarebbe mancato il giorno successivo. Nel 1976 i militari, invece che sfilare in via dei Fori Imperiali, furono giustamente mandati in Friuli ad aiutare i terremotati e a iniziare la prima ricostruzione; la festa fu provvisoriamente collocata il 4 novembre, la più negletta delle ricorrenze, ricordando l’unica vittoria significativa e duratura. Ma nel 1977, per ragioni di bilancio, la parata fu sospesa: al governo c’era Andreotti e ministro della difesa il democristiano Vito Lattanzio, che tre mesi dopo avrebbe dovuto dare le dimissioni per la fuga del criminale nazista Herbert Kappler dall’ospedale militare di Roma.
La festa del 2 giugno fu trasferita – come quando c’era il re – alla prima domenica di giugno. In realtà, la festa rimase ma senza parata, considerata una ostentazione di nazionalismo e di spirito guerrafondaio. Si era in pieni anni di piombo e l’idea di nazione, in Italia, era ai suoi minimi storici. Si disse anche che la parata, con lo sfoggio di cingolati pesanti, avrebbe potuto danneggiare l’equilibrio dei Fori imperiali. Erano gli anni in cui ogni sventolio di tricolore era considerato motivo di cripto-fascismo, come accadde dopo la vittoria ai mondiali di calcio del 1982, allorché la festa per le strade con i bandieroni tricolori fece arricciare il naso ai giornalisti del quotidiano “la Repubblica” che dissero che dietro a quelle manifestazioni vi era un possibile ritorno sentimentale al fascismo e al nazionalismo.
Nel 1983 si riprese timidamente la parata, ma in posti ogni anno diversi e in tono decisamente dimesso; ma nel 1991 la sfilata sembrò riprendersi. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro, pochi giorni dopo la sua elezione al Quirinale, assistette alla parata del 2 giugno. Ma fu una illusione: proprio Scalfaro impose alla sfilata la sosta più lunga, perché era considerata troppo costosa: meglio aprire i giardini del Quirinale e non dare l’idea di essere favorevoli alla guerra che, com’è noto, l’Italia ripudia anche nella Costituzione.
La sosta durò fino al 2000, quando fu eletto presidente Carlo Azeglio Ciampi, di formazione risorgimentale, che iniziò un’opera di recupero dei valori nazionali. Con Ciampi si scoprì che la Resistenza non era soltanto quella delle brigate Garibaldi, ma anche quella dei soldati del Regio Esercito, delle formazioni cattoliche e liberali e anche di quegli ufficiali che, per non venire meno al giuramento al re, decisero di restare prigionieri in Germania fino alla fine della guerra. Erano gli Internati militari italiani (Imi) e tra loro c’era anche Giovannino Guareschi, l’anticomunista padre di Don Camillo e di Peppone.
Da allora la festa del 2 giugno ha assunto sempre di più la caratteristica di una celebrazione non divisiva ma di tutti. E dire che essa nasceva comunque da uno scontro, quello tra monarchia e repubblica, con un esito non proprio limpido a livello di referendum. Montanelli scrisse che la repubblica era nata col forcipe, alludendo alla questione, mai completamente risolta, dei brogli elettorali. Era stato uno scontro che aveva provocato comunque l’uccisione, da parte della polizia, di 12 dimostranti monarchici a Napoli, la maggior parte a via Medina, il 13 giugno 1946.
Nonostante ciò, proprio la sua valenza non “anti” le permise di essere considerata da tutti una festa nazionale. Ciò dipese anche dal fatto che Umberto scelse la via dell’esilio pur non accettando i risultati del voto, per non creare in Italia le condizioni di un’altra guerra civile. E dipese anche dal fatto che la monarchia – a differenza delle altre opzioni politiche in campo – non era frutto di una scelta ideologica ma semplicemente istituzionale. D’altra parte, i partiti monarchici, dopo il referendum, non hanno avuto mai molta fortuna, nonostante gli oltre 10 milioni di voti per la stella di Savoia.
Se il 2 giugno è la metafora di un sentimento nazionale, più sentimento che effettivamente nazionale, forse occorrerebbe approfondire e analizzare meglio le caratteristiche del concetto di Italia nella storia, soprattutto di quella del secondo dopoguerra, allorché la Repubblica dei partiti, per usare una felice definizione di Scoppola, di fatto nascose l’appartenenza nazionale dietro all’appartenenza ideologica e alle famiglie politiche.
Sono problematiche che negli anni Settanta e Ottanta sia Rosario Romeo sia Renzo De Felice avevano colto nelle loro conseguenze di lungo periodo, individuando in quella caduta dell’idea di nazione tanto il virus della partitocrazia quanto lo stato di permanente guerra civile che ha connotato diversi periodi della nostra storia, sia soprattutto il progressivo allontanamento e la montante sfiducia dei cittadini rispetto alle istituzioni.