Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel «Dipartimento di Scienze Umanistiche» dell’Università di Catania, insegna Filosofia teoretica, Metafisica e Filosofia della storia. Ha anche insegnato Epistemologia, Sociologia della cultura, Storia dell’estetica e Filosofia della mente. È membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee; dirige la rivista "Vita pensata"Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Altri temi di cui si occupa sono: la mente come dispositivo semantico; la vitalità del pensiero classico greco e romano; le strutture ontologiche e i fondamenti politici di Internet; la questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico; l'Antinatalismo. Il suo libro più recente è Logos. Scritti di estetica e letteratura (2025). Dettagliate e aggiornate informazioni sulla sua attività scientifica e didattica si trovano sul sito www.biuso.eu

Recensione a: T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica (Elements of Law Natural and Politic, 1640), a cura di C. Altini, Olschki Editore, Firenze 2025, pp. XLIV+254, € 29,00.

Come la filosofia, la metafisica e il tempo, anche il materialismo si dice in molti modi. Il modo del materialismo di Thomas Hobbes consiste nel profondo legame tra il corpomente umano, le sue passioni e le comunità che da tali passioni del corpomente scaturiscono. I termini-sintesi e le grandi parole per indicare tali passioni sono il bene e il male. Allo stesso modo di Spinoza – e nonostante la grande distanza da lui su altre fondanti questioni – Hobbes afferma che «ogni uomo chiama bene [Good] ciò che gli procura piacere e gli dà diletto, mentre chiama male [Euill] ciò che gli procura dispiacere»[1]. Un bene e un male assoluti dunque non si danno. Se intesi in un significato universale, tali parole sono dei puri nomi, anche perché – appunto – «non esistono universali, a eccezione dei nomi» (I, V, 6, p. 36). Si tratta dunque di un materialismo nominalistico, che esclude ogni riferimento trascendente nelle vite individuali e collettive e cerca di tener conto della realtà effettuale delle esistenze umane.

Le quali per Hobbes sono volte alla sopravvivenza, che è la prima ed essenziale forma di affermazione del sé nell’intero materico e politico. Tra i nomi, infatti, per Hobbes quello che meglio si attaglia agli esseri umani è ‘ingiusto’, nel preciso significato di una natura non socievole (la polemica contro Aristotele e soprattutto contro gli aristotelici è costante), per la quale il rapporto con i propri simili è guidato da elementi individuali e collettivi come la paura, il bisogno e il piacere. L’essere umano è dunque «not sociable by nature but by accident […] Così, l’inclinazione dell’uomo alla società non è altro che un desiderio di prevalere sugli altri, da cui non deriva amore reciproco ma odio reciproco» (I, XIV, 2; p. 104).

Lo scopo primario, essenziale e necessario delle strutture politiche diventa l’evitare che da tali elementi antropologici derivi una condizione di conflitto permanente, la quale avrebbe come inevitabile conseguenza la dissoluzione delle strutture stesse e la morte dei suoi membri. Evitare la morte è infatti il vero, costante e permanente obiettivo delle azioni umane.

In Hobbes vige un vero e proprio orrore della dissoluzione, manifestato con chiarezza nell’idea che «il più grande inconveniente che può accadere a uno Stato è la tendenza a dissolversi nella guerra civile [Ciuill warre]: a ciò le monarchie sono molto meno soggette rispetto ad altre forme di governo» (II, V, 8, p. 190). La monarchia assoluta è giustificata su questa base. Da essa scaturiscono numerosi corollari. Alcuni dei più importanti sono questi:

  1. il rifiuto della divisione dei poteri;
  2. la necessità che il potere politico legiferi anche in ambito teologico e subordini a sé il potere ecclesiale, nel preciso senso che le questioni religiose e teologiche non debbono influire in alcun modo su quelle politiche e ogni dissenso teologico rispetto alle tesi del sovrano va estirpato: «Il nostro Salvatore non dette alcuna autorità ai suoi Apostoli di essere giudici sui principi. Perciò, in nessun caso, il potere sovrano di uno Stato può essere soggetto a un’autorità ecclesiastica, eccetto che a quella di Cristo stesso» (II, VII, 10; p. 214);
  3. tale elemento si generalizza in quello del controllo delle idee dei sudditi, non nel loro foro interiore (che è precluso all’azione dell’autorità) ma in tutte e ciascuna delle manifestazioni pubbliche del pensiero: «Egli [il sovrano] dovrebbe anche decretare punizioni severe nei confronti di coloro che, biasimando le azioni pubbliche, cercano di guadagnarsi la popolarità [popularity] e il plauso tra la moltitudine, cosa che può loro permettere di costituire, all’interno dello Stato, una fazione a essi devota» (II, IX, 7; p. 236). Come si vede, la libertà di opinione, di stampa, di espressione e di critica diventa un pericolo rovinoso per la sicurezza dello Stato. Siamo davvero all’opposto delle tesi libertarie di Spinoza, per il quale «in Libera Republica unicuique & sentire, quæ velit, & quæ sentiat, dicere licere; si dimostra che in una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa»[2];
  4. la necessità che il sovrano non risponda delle proprie azioni a niente e a nessuno, poiché in questo caso non sarebbe lui il sovrano ma lo sarebbe l’entità alla quale deve rendere conto. E dunque «al potere sovrano (qualunque cosa faccia) spetta l’impunità» (II, I, 12; p. 157). Hobbes è consapevole dei gravi pericoli di una simile irresponsabilità da parte di chi comanda ma li ritiene in ogni caso preferibili al pericolo supremo della completa dissoluzione del corpo civile.

Tale pericolo è espresso dal filosofo britannico con un riferimento mitologico assai forte e significativo. Ogni tentativo di riforma o di mutamento dello Stato retto da un sovrano che gode di impunità è paragonato al tentativo che le figlie di Pelia, istigate da Medea, condussero di restituire la giovinezza al proprio genitore, facendone a pezzi il corpo e bollendolo in un calderone. In questo per Hobbes consiste l’illusione di «fare a pezzi lo Stato, con la pretesa o la speranza di una riforma [reformation]» (II, VIII, 15; p. 230).

La πόλις è un solo corpo, è un organismo unitario «che può essere definita come una moltitudine di uomini, uniti come un’unica persona [person] da un potere comune per la loro pace, la loro difesa e il loro beneficio in comune» (I, XIX, 8; p. 144).

Si potrebbe osservare che in tale necessità di un’autorità assoluta, che subisce sempre i limiti di ogni autorità umana, vige un presupposto da Hobbes mai esplicitato, o a volte tematizzato sì ma risolto in poche battute. Tale presupposto è, per quanto possa apparire paradossale, profondamente ottimistico e consiste nella fiducia che una volta investito del potere del corpo collettivo il sovrano agirà sempre per la sicurezza del corpo sociale e mai contro di esso. Si tratta di un presupposto irrealistico e dalle conseguenze assai pericolose, tanto più che non potendo il sovrano occuparsi direttamente di tutto «vi è necessità di magistrati e ministri degli affari pubblici» (II, I, 11; p. 157), i quali, si presuppone ancora, agiranno tutti per l’interesse collettivo e non per il proprio. Ora, un’antropologia negativa non può permettersi un simile ottimismo politico. La risposta di Hobbes a tale obiezione è sempre la stessa, e consiste nel fatto che se l’azione del sovrano assoluto può certo essere indirizzata al beneficio personale e non a quello collettivo, si tratta anche in questo caso di un rischio minore rispetto non soltanto a quello dato dalla condizione di libertà naturale degli esseri umani ma anche rispetto a quello che caratterizza regimi di natura oligarchica e democratica. Il sovrano ha i suoi doveri, certo, e Hobbes li elenca nel capitolo IX della seconda parte, ma anche se non li dovesse rispettare non si può agire contro la sua persona.

Questa teoria politica molto netta e altrettanto conosciuta trova negli Elements of Law Natural and Politic del 1640 (Hobbes aveva 52 anni e vivrà sino a 91) una sistematizzazione e una sintesi molto efficaci. Le posizioni qui espresse saranno in parte modificate ma nell’essenziale rimarranno le stesse nelle grandi opere successive, ovviamente soprattutto nel Leviathan (1651), il quale costituisce una summa dove il filosofo ribadisce per intero la sua antropologia negativa: «Gli uomini non provano il piacere dello stare in compagnia (ma al contrario molta afflizione) laddove non esiste un potere capace di incutere a tutti soggezione. […] Quando gli uomini vivono senza un potere assoluto che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo»[3].

Una simile prospettiva antropologica e politica ha a proprio fondamento alcune tesi metafisiche e teologiche generali. E anche queste sono di carattere materialistico. Hobbes conosceva bene le Scritture ebraico-cristiane, le cita di continuo, cerca persino di giustificare attraverso di esse la subordinazione del potere ecclesiastico a quello politico. E dunque l’idea di Dio non può non costituire un presupposto essenziale delle teorie successive. Per Hobbes Dio non è una entità incorporea – «né penso che il termine incorporeo sia mai citato in tutta la Bibbia» (I, XII, 5; p. 85) – ma, come sintetizza Carlo Altini in una nota al capitolo IV della prima parte, «il Dio di Hobbes è materia in movimento, cioè causa efficiente del moto e struttura garante della scansione meccanica degli eventi (e della loro intelligibilità razionale)» (nota 3, p. 28).

L’idea meccanicistica di Dio è parte di una metafisica deterministica molto chiara nelle sue espressioni e argomentazioni, una metafisica in questo caso vicina alle tesi di Spinoza sulla distinzione tra la libertà di compiere ciò che si è deciso di compiere – freedom from compulsion – che è una libertà in molti casi possibile e reale, e la libertà di decidere che cosa si vuole compiere – freedom from necessitation – che è libertà illusoria anche in quanto tutte le decisioni di un corpomente umano sono il frutto di una serie complessa e innumerevole di cause che le precedono. Nel suo Treatise On Human Nature and That On Liberty and Necessity, infatti, Hobbes scrive che «è libero di fare una cosa colui che può farla, se ha la volontà (will) di farla, e può astenersene, se ha la volontà di astenersene. E tuttavia, se è necessario che egli abbia la volontà di farla, l’azione seguirà necessariamente; e se è necessario che egli abbia la volontà di astenersene, l’astensione sarà pure necessaria. Il problema, quindi, non è se un uomo sia un agente libero (free agent), ovvero se egli possa scrivere o evitarlo, parlare o tacere, secondo la sua volontà, bensì se la volontà di scrivere, o la volontà di non scrivere, gli venga secondo la sua volontà o secondo qualsiasi altra cosa che sia in suo potere (power). Io riconosco questa libertà, che io posso fare se voglio; ma dire che io posso volere se voglio, lo ritengo un discorso assurdo»[4].

La tesi è dunque che noi siamo sì in molte azioni liberi di fare ciò che vogliamo ma non di volere ciò che vogliamo. Il problema sta proprio qui: non è in discussione la libertà umana di fare ciò che abbiamo deciso; il punto è se siamo anche liberi di decidere ciò che abbiamo deciso. Possediamo la prima forma di libertà (che gli Scolastici chiamavano l’actus imperatus) ma non la seconda (l’actus elicitus). Questo è il senso della distinzione, spinoziana prima e schopenhaueriana poi, tra libertà e costrizione: chiamiamo libere quelle azioni che non sono ordinate da una potenza esterna ma vengono imposte dalla natura stessa dell’agente. Azioni che rimangono in ogni caso determinate. E questa è la tesi anche di Hobbes.

L’insieme di metafisica, antropologia, teoria politica si chiude in ogni caso con l’ammissione della irriducibilità del conflitto. Hobbes trasforma lo jus gentium in una law of nations, la quale coincide con la legge di natura. E chiude i suoi Elementi affermando che quanto è «legge di natura tra uomo e uomo prima della costituzione dello Stato è, dopo di essa, legge delle nazioni tra sovrano e sovrano» (II, X, 10, p. 245).

Che cosa significa questa affermazione? La guerra tra gli stati appare inevitabile poiché al di sopra del sovrano di ogni nazione non si dà alcuna autorità superiore che possa costringere alla pace. In tale conclusivo riconoscimento ritorna dunque il fantasma della dissoluzione.

NOTE

[1] T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica (Elements of Law Natural and Politic, 1640), a cura di C. Altini, Olschki Editore, Firenze 2025, parte I, cap. VII, § 2, p. 50. I riferimenti delle citazioni da questo volume saranno indicati nel testo tra parentesi, tramite la parte, il capitolo, il paragrafo e il numero di pagina.

[2] B. Spinoza, Trattato teologico-politico, trad. di A. Dini, in Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2011, titolo del § XX, p. 1110.

[3] T. Hobbes, Leviatano o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile (Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil, 1651-1668), a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1989, I parte, cap. XIII, p. 101.

[4] Id., Libertà e necessità, a cura di A. Longega, Bompiani, Milano 2000, pp. 49-51.

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