Giorgia Maddalon è laureata in Lingue per l’interpretariato e la traduzione (inglese - spagnolo) all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) con tesi finale su “Hobbes interprete di Tucidide: analisi linguistica della traduzione inglese della Guerra del Peloponneso e la sua eredità nelle Relazioni Internazionali”. Attualmente è iscritta al corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carlo di Roma
Recensione a
J. Mearsheimer, La tragedia delle grandi potenze
Luiss University Press, Roma 2019, pp. 528, €29,00.
Furono in molti in Occidente a credere che la fine della Guerra Fredda e la celebrazione del progresso della civiltà europea in un’epoca di modernità trionfante potessero essere il preludio di una nuova era di pace perpetua e giustizia tra Stati, non più rivali, ma membri di quella grande famiglia chiamata comunità internazionale.
Spetta alla teoria del realismo offensivo di John Mearsheimer l’arduo compito di smentire l’ottimismo prevalente sulle relazioni tra grandi potenze e far aprire gli occhi sull’inevitabilità della guerra. Le sorti di tutti gli Stati sono determinate, in quel complesso panorama del sistema internazionale, dalla costante competizione per la sicurezza e l’egemonia che li spinge a lottare per accrescere continuamente la propria quota di potere e massimizzare le probabilità di sopravvivenza. È questa la “tragedia delle grandi potenze” raccontata maestosamente da uno dei più esperti ed accreditati politologi contemporanei.
La guerra è sempre stata condizione naturale dell’essere umano, funzione dominante nell’economia dell’universo e Polemos, così come definito da Eraclito, è “padre e re di tutte le cose”. Basti pensare alla storia filosofica politica: esiste una grande filosofia della guerra, ma non della pace. Non c’è stato altro fenomeno sociale che più della guerra abbia provocato l’interrogarsi del filosofo sul senso della storia. Dagli inizi, il pensiero umano riflette sul significato del potere e della forza. L’idea di natura che arcaicamente si ha, e che fa per molto tempo da modello, è proprio quella del primato della forza (radice prima e ultima del potere politico). Una logica di potere che diventerà, quindi, bacino simbolico e immaginativo a cui attingere per molti secoli successivi, da Tucidide a Nietzsche.
Già la Bibbia scopre il problema della violenza fisica con l’assassinio di Abele da parte di Caino. Simbolo della supremazia del contadino sul pastore nomade, ma anche seme generatore di quel principio della “legge del più forte” che aveva costituito uno dei terreni di riflessione più intensi per il pensiero sofistico e che ritroviamo solennemente descritto da Tucidide nella Guerra del Peloponneso in un dialogo diventato il capostipite di una tradizione che focalizza nella repressione dei Melii la condanna dell’impero di Atene. È con stile rigoroso e innovativo che Tucidide sottolinea, in un’opera dilaniata da scontri e battaglie senza eguali e quasi come un monito per le future generazioni, l’inevitabilità del conflitto e del divenire umano vòlto, per sua stessa essenza, allo smisurato accrescimento della propria forza. Scrive l’Autore: «La forza garantisce la sicurezza, e la massima forza è la migliore assicurazione contro l’insicurezza» (p. 23).
Con la modernità la riflessione sulla guerra compie un salto di categoria ponendosi al centro delle relazioni internazionali. «Le possibili conseguenze di cadere vittima di un’aggressione amplificano ulteriormente l’importanza della paura come primus movens della politica mondiale. Le grandi potenze non sarebbero in competizione tra loro se la politica internazionale fosse soltanto un equo mercato di scambi economici» (p. 62).
La guerra, in tale contesto, diventa testimonianza del progressivo vacillamento degli equilibri dinamici alla base del sistema dei rapporti interstatali. Consapevoli di operare in un mondo privo di un Leviatano a cui potersi rivolgere e basato, quindi, sull’autodifesa, gli Stati capiscono in fretta che il modo più sicuro di salvaguardare la propria indipendenza e prosperità non è altro che quello di conquistare l’egemonia. Un’egemonia, spiega Mearsheimer, pur sempre regionale vista l’improbabilità da parte di uno Stato di dominare l’intero globo. Non sorprende che gli Stati Uniti, unico egemone regionale nella storia moderna, non abbiano mai preso in seria considerazione l’idea di conquistare l’Europa o l’Asia orientale soprattutto a causa della difficoltà di proiettare la loro forza al di là delle vaste estensioni marine. Ma lo Stato è anche garante di pace e, in quanto tale, il binomio guerra-pace mai abbandonerà le vicende della specie umana.
L’obiezione classica è che, a fronte di “paci ingiuste”, sarà solo la “guerra giusta” a presentarsi come unica soluzione. Di certo questo non è negato da molte dottrine. A essere considerata giusta per eccellenza è propria quella guerra di difesa che, incarnando in sé il principio vim vi repellere licet, risponde a una guerra di aggressione, ingiusta per definizione. Non dimentichiamo come allo scoppio della seconda Guerra Mondiale si attribuirà a Hitler, responsabile dell’attacco e invasione della Polonia, un concetto di guerra ingiusto che farà, invece, da netto contraltare a una giustificazione di guerra giusta simboleggiata dalle forze alleate costrette alla legittima difesa.
La teoria della guerra come male necessario è stata storicamente connessa alle teorie del progresso morale, sociale e tecnico dell’umanità, permettendo all’intelligenza creatrice dell’uomo di rispondere con maggior vigore alle sfide che il contrasto con la natura e con gli altri uomini le ponevano. “La guerra, sola igiene del mondo”: ecco come Marinetti, con una delle più esemplari formule belliciste di tutti i tempi, glorificava l’uso di tale vis efferata e brutale come mezzo e terreno fertile per far spirare una ventata di radicale rinnovamento dell’umanità, seppur con un altissimo prezzo da pagare.
La tragedia delle grandi potenze è un’opera che va letta e studiata attentamente per comprendere le dinamiche attuali e i possibili scenari futuri della politica internazionale. Sebbene la dissoluzione dell’Unione Sovietica abbia modificato la dislocazione del potere mondiale, la Guerra Fredda in nessun caso ha scardinato la logica di potenza e la struttura anarchica del sistema internazionale. Si va forse verso un mondo tripolare, con gli stessi attori degli anni ’70 e ’80 del XX secolo, ma con Stati Uniti più deboli e una Cina come altro attore predominante?
Lungimirante risulta, infatti, la riflessione finale di Mearsheimer sulle conseguenze che la rapida e strabiliante ascesa economica della Cina, possibile nuovo baluardo della realpolitik nel mondo successivo alla Guerra Fredda, causerebbe in termini di competizione per la sicurezza globale. Il quadro tracciato non è però speranzoso riguardo alle prospettive di pace in Asia. Così come la Cina ha spesso in passato tentato di aumentare il proprio potere relativo, non ci sono buone ragioni per credere che in futuro agirà diversamente e questo, rileva Mearsheimer, vedrebbe la politica delle grandi potenze riaffermarsi pienamente e gli Stati Uniti schierarsi in prima linea per fronteggiare un possibile avversario di pari livello.
Di fronte a un lavacro di morti che ha trovato inaugurazione nella prima guerra mondiale e dinanzi a un ampliamento degli Stati della comunità internazionale che ha reso obiettivamente più complesso il sistema di global governance, ci si chiede, allora, se possa avere senso ragionare in modo astratto sulla guerra come perno centrale delle relazioni internazionali? Non si tratta, però, di discettare in modo utopico sulla cancellazione dell’uso della violenza dalla storia umana. L’eliminazione della guerra non implica affatto l’eliminazione della violenza nel mondo. La risposta alle crisi e l’aspirazione alla pace è sicuramente questione politicamente, economicamente e socialmente più complessa della sola risposta militare. Ma il messaggio tucidideo non può non lasciare un segno in chi in esso s’imbatte, tanto da far scaturire naturale la seguente domanda: ha la pace un futuro o l’esistenza umana è davvero destinata a necessarie tensioni?
Sono senz’altro domande dalla non facile risposta. Come affermava Norberto Bobbio, la pace è oggi necessaria e impossibile. Fino a che perdurerà il rapporto “nemico-nemico”, la pace potrà solo essere temporaneo strumento di tregua. Nella massima si vis pacem para bellum si esprime nella maniera più compiuta il rapporto fra due soggetti tra i quali non ci sarà altro possibile rapporto pacifico se non quello fondato sul timore reciproco.
Nel 1914 la guerra era parte della cultura politica e accettata come fattore naturale. Oggi, forse, si tende a pensare diversamente. Di certo, nella sua necessità, la guerra è pur sempre un male e nella sua insufficienza la pace è pur sempre un bene. Se quest’ultima è piena incarnazione di un ideale a cui l’umanità deve tendere (si veda Per la pace perpetua di Kant), la guerra non può che esserne un solo mezzo per il raggiungimento di tale aspirazione.