Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).
Nel libro La regola del gioco. Comunicare senza fare danni, uscito nel 2023, lo scrittore Raffaele Alberto Ventura, acuto analista della società contemporanea e delle sue crisi, si proponeva di scrivere una sorta di manuale per destreggiarsi nel nuovo clima comunicativo imposto dalla cosiddetta “woke culture”: il politicamente corretto, sosteneva il nostro autore in quel testo, e in altri contributi più brevi, è in fondo la legittima richiesta di riconoscimento avanzata da nuove soggettività sociali che si esprime anche nella lingua. È fisiologico – riassumo sperando di non tradire – che tale richiesta porti con sé anche una certa carica di rabbia e oltranzismo, come storicamente sempre accaduto in casi analoghi.
Insomma, gli spazi del mutuo riconoscimento vanno oggi rinegoziati alla luce delle tante nuove identità che reclamano il loro posto in prima fila nello spazio pubblico. Nella nuova atmosfera «individuare potenziali rischi comunicativi da evitare» diventa allora fondamentale – ha sostenuto Ventura – per non incorrere in problemi seri, che possono giungere fino all’ostracismo sociale. In particolare, spiegava l’intellettuale, i social possono essere una riserva di guai grossi: «ogni testo rischia presto o tardi di finire sotto gli occhi di qualcuno che non lo capirà o se ne sentirà offeso». Apprendere la neolingua woke è perciò caldamente suggerito dall’istinto di autopreservazione, se non proprio dal dovere civico.
Il problema, come hanno già fatto notare altri, è che il dizionario woke non è affatto popolare bensì elitario. “Abilismo”, “decolonizzare”, “empowerment”, “victim blaming”, “mansplaining“, “appropriazione culturale”, “tokenismo” ecc., sono termini di un vocabolario da classi colte e agiate. Queste ultime, grazie al milieu familiare e a un’istruzione conseguita presso i centri più prestigiosi, non solo acquisiscono competenze professionali di alto livello, ma possono pure apprendere quella strumentazione linguistica in continuo aggiornamento, utile a nuotare in modo moralmente appropriato nelle nuove correnti del politically correct, cosa indispensabile alla carriera. Chi è fuori da questo giro, non solo sconta uno svantaggio sociale di partenza difficile da recuperare, ma è pure accusato di essere “unfit” dal punto di vista etico.
Ma non si tratta solo di questo. Mi permetto di rimproverare a Raffaele Alberto Ventura e a quanti hanno sostenuto posizioni simili alla sua, che le loro tesi sono improntate, sostanzialmente, a un atteggiamento iper-conservatore. Se diciamo che il primo compito della parola è non urtare l’identità (percepita) di qualcun altro, col ricatto della sanzione reputazionale (e in certi casi lavorativa), ecco che lo spazio per la critica si riduce parecchio e ci mettiamo semplicemente a difendere uno status quo, non importa se antico, giovane o in via di sviluppo. Quella forma mentis che, dopo aver assecondato una certa rivoluzione sociale, decreta il risultato raggiunto come immodificabile e storicamente necessario, e inoltre stabilisce che “adeguamento” è l’unica parola d’ordine, del progressismo ha solo le insegne esterne. «È importante capire la logica della trasformazione, al fine di sviluppare alcuni accorgimenti generali che ci rendano resilienti agli slittamenti di codice», scrive infatti Raffaele Alberto Ventura, nel saggio citato. Resilienza, adattamento, allineamento: la svolta è assunta come inesorabile. La si può solo conservare così com’è. Tra l’altro, sia detto di passaggio, sterilizzare il conflitto può aumentare la disgregazione comunitaria, facendo delle molteplici soggettività sociali altrettante bolle autoreferenziali sazie della propria interna omogeneità.
In verità le cose dovrebbero essere poste in modo esattamente contrario: è proprio la disponibilità a confliggere nella pluralità, proprio l’accettazione della “guerra di tutti contro tutti”, a fare la democrazia, a patto però che questa battaglia sia combattuta solo sul piano delle idee, entro l’ambito statutario della ragione pubblica, e che dunque essere portatore di una determinata idea non comporti conseguenze sul piano personale o lavorativo, come invece è stato nella fase storica di maggior egemonia della cultura woke.
Quando si passa dal piano del metodo – or ora evidenziato – per giungere a quello del contenuto, ecco che il veleno illiberale è già stato iniettato. Naturalmente anche in una società democratica degli interdetti linguistici ci sono: ma questi devono limitarsi a pochi casi, utili solo a salvaguardare il campo da gioco, non le infinite suscettibilità soggettive. Meno “categorie protette” ci sono, più è sano e in equilibrio l’ecosistema.
La grande cattedrale mediatico-disciplinare della cultura woke si è scontrata con un Donald Trump insediatosi per la seconda volta alla Casa Bianca. Il neopresidente ha proclamato solennemente che d’ora in poi la politica ufficiale degli Stati Uniti è che esistono solo due generi: maschio e femmina. Ho subito pensato a tutti quegli articoli e libri letti nell’ultimo decennio, in cui si dava per scontato che la nuova ontologia woke sarebbe divenuta inesorabilmente il prossimo esperanto culturale globale. Ho pensato all’ex primo ministro canadese, Justin Trudeau, che in un incontro pubblico del 2018, bacchettò una signorina che aveva usato il termine “mankind”, dicendole di preferire “peoplekind‘, perché più inclusivo (non contenendo la parola “man”, uomo, non si sentono discriminate le donne). Ho pensato pure al fatto che per questa battuta, ci fu chi accusò Trudeau di “mansplaining”, perché sì magari il brillante premier aveva ragione, ma come si era permesso di riprendere una donna, per giunta in pubblico? Insomma, una roba da dilemma corneliano. Ho pensato poi a Mark Zuckerberg e al fatto che Meta, dalla sera alla mattina, abbia detto addio ai suoi programmi per la diversità, l’equità e l’inclusione su Facebook e Instagram. Ho pensato a quante volte, negli ultimi anni, una delle domande ricorrenti nel dibattito interno al club che ora osserva terrorizzato Trump rientrare a Washington, è stata: “Cos’è una donna?”. A questo e ad altro ho pensato mentre guardavo la cerimonia, perché la vittoria di Trump è anche un “no” a quella rigida filosofia della storia che – molto caritativamente – già approntava i sussidiari per civilizzare i non aggiornati sul nuovo paradigma.
Non sto affermando che il trionfo del tandem Trump-Musk sia interpretabile come mera reazione al radicalismo woke: non sono un analista politico, ma pare francamente una lettura troppo rozza e provinciale. Dentro c’è anche questo, certo, ma non solo. Forse è più adeguato dire che il cosmo progressista – scusate l’espressione un po’ generica – ha fatto attenzione ai dati sbagliati, a causa di una pervicace immodestia intellettuale che ha probabilmente un’eziologia più psicanalitica che concettuale. Nel 2021, la giovanissima e celebrata poetessa afroamericana Amanda Gorman, durante la cerimonia di insediamento di Joe Biden, declamava questi versi, diffondendo l’idea dello scampato pericolo dopo l’assalto di Capitol Hill di due settimane prima: “Abbiamo visto una forza che vorrebbe frantumare la nostra nazione piuttosto che condividerla (…) E questo sforzo è quasi riuscito”. Quattro anni dopo, quella forza è alla Casa Bianca. Anziché mettersi a comprendere l’origine di quella energia, le sue ragioni interne, le sue cause, negli USA come in Europa, ci si è accontentati di bollarla come il “Grande Altro” e magari costruirci su versi certo utili per sospirare in una celebrazione.
Quella forza selvaggia, che come un fiume in piena ha sfondato gli argini ed è giunta fin nelle stanze dei bottoni, non stava affatto dietro il rivendicazionismo woke, aveva ben altri punti di partenza. E invece più di uno ha trattato (e continua a trattare) schwa, intersezionalismo e desinenze come sintomi delle istanze sociali più urgenti e diffuse. La cultura woke, al contrario, è stata percepita, a torto o a ragione, come l’ennesimo tappo delle classi dominanti. In tutto ciò, le genuine rivendicazioni delle donne, dei migranti, degli emarginati, dei discriminati in base all’orientamento sessuale, dei poveri, e così via, o sono rimaste senza megafono oppure son dovute migrare, almeno in parte, sotto l’ombrello del campo conservatore. Osservando Musk, Trump, l’ultra-destra tedesca e quella francese, a mio avviso, c’è poco da stare tranquilli, anzi. È il caso di allacciare le cinture, come si dice, perché i prossimi anni potrebbero essere molto duri sotto tanti aspetti, e il free-speech promesso da Musk ha già i contorni di un nuovo dirigismo linguistico e culturale, magari più subdolo e pervasivo di quella woke. Chissà se ciò potrà essere la definitiva sveglia per i risvegliati da sonno dogmatico.
Una postilla finale: ho utilizzato molte volte il termine “woke”. A quanti, legittimamente, sostengono che “woke” sia un’invenzione dell’Internazionale Reazionaria, ribatto con ferma simpatia, che woke è anzitutto chi nega l’esistenza del woke, come ha sostenuto Guido Vitiello qualche tempo fa. Ho inoltre parlato di “woke” e “politicamente corretto”. Le due espressioni non sono totalmente sovrapponibili, certo, ma appartengono alla stessa gens culturale.