Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

«Gli uomini si trovano a lavorare e a pensare in relazione a un ambiente che, nelle sue connessioni con tutti gli aspetti dell’esistenza umana, è senza precedenti nella storia del mondo». Queste parole sembrano un commento alle innovazioni tecnologiche che invadono l’esistenza contemporanea, portando costantemente alla luce il cultural lag (nella formula di W.F. Ogburn) o il «dislivello prometeico» (per dirla con Günther Anders) tra la natura umana e i suoi prodotti, con il corollario di entusiastiche, preoccupate o rassegnate riflessioni sull’obsolescenza dell’umanità, di disamine sulle peculiarità dell’intelligenza umana e prefigurazioni di trasformazioni postumanistiche, di anticipazioni di modelli auto-evolutivi di intelligenza artificiale che annullino la necessità e la possibilità del controllo e della comprensione umani e fisiche sociali che rimodellino le forme della politica.

La citazione proviene, invece, da The Great Society: A Psychological Analysis (1914), saggio con cui, qualche anno dopo Émile Durkheim e Georg Simmel, il britannico Graham Wallas (1858-1932) proseguiva l’analisi delle conseguenze della seconda rivoluzione industriale sul piano psicologico, culturale e sociale. Discretamente influenti ai suoi tempi, soprattutto al di là dell’Atlantico (basti pensare al debito intellettuale riconosciuto da Walter Lippmann e alle convergenze con la teoria e l’azione di Jane Addams), le opere di Wallas, inedite in italiano, e il suo percorso – ricostruito e indagato da Martin J. Wiener (Between Two Worlds: the political thought of Graham Wallas, Oxford 1971) e Terence H. Qualter (Graham Wallas and the Great Society, New York 1979) – intercettano ancora molti dei dilemmi che caratterizzano, e verosimilmente caratterizzeranno, le dinamiche del presente e del futuro prossimo.

Primogenito di un sacerdote anglicano di tenenze liberali, Wallas, studente di materie classiche al Corpus Christi College di Oxford, aveva abbandonato la fede religiosa per abbracciare, più che la corrente idealistica allora rappresentata da T.H. Green, quella scientifica, sulla scia della lettura solitaria di Charles Darwin, degli scritti evidenzialisti di W.K. Clifford (“È sempre sbagliato, ovunque e per chiunque, credere a qualcosa in base a evidenze insufficienti”) e del System of Logic di John Stuart Mill, oltre che delle paradossali utopie (anti)tecnologiche di Samuel Butler. Quei testi implicavano la necessità di assumere una prospettiva antropologica evolutiva, comprendendo con l’applicazione dei metodi delle scienze della natura l’agire e la sua dimensione morale nel complesso dei fenomeni nei quali l’umanità era immersa.

Tale impostazione, nel contesto dell’afflato evangelico di cui era ancora impregnata la tarda epoca vittoriana, si saldava con l’umanitarismo del “servizio sociale” e della volontà della riforma etica e politica. Terminati gli studi oxoniensi e trasferitosi a Londra, nel 1885 Wallas si era infatti avvicinato alla neonata Fabian Society (su cui si veda anche Oltremanica il metodo è riformista, rivoluzionario il finehttps://ilpensierostorico.com/oltremanica-il-metodo-e-riformista-rivoluzionario-il-fine/ – di Danilo Breschi), di lì a poco egemonizzata dai coniugi Webb, affiancati da G.B. Shaw e poi da H.G. Wells, che, sotto le insegne della scienza – senza riduzionismi economicistici – contrapponeva ai metodi rivoluzionari dei movimenti continentali una via al socialismo gradualista, pragmatica, con ampie venature elitarie.

Il parametro in base al quale Wallas iniziava a elaborare la propria teoria, durante e oltre il periodo della militanza fabiana, era la concezione aristotelica della “vita buona”, resa possibile dal raccoglimento della polis attorno a un ethos condiviso e volta al comune bene. Al confronto, la società industriale, commerciale e urbanizzata risultava un agglomerato di atomi individuali alla caotica ricerca del successo e del profitto personali. Il socialismo a cui guardava Wallas era piuttosto una ricostruzione del consesso civile in una forma di comunità morale che, tanto nell’ottica della biologia quanto in quella del pensiero utilitarista, richiamava il funzionamento di un organismo. Per quanto introdotte gradualmente le riforme preconizzate sarebbero state effimere se gli assetti istituzionali e sociali – sempre seguendo il magistero di Aristotele – non avessero poggiato su uno “spirito pubblico” appropriato, al quale si sarebbe conformato il carattere dell’“uomo medio”. Dunque l’azione propriamente politica avrebbe dovuto essere preceduta da una riforma dei metodi di istruzione – la cui promozione Wallas ricercò sia come insegnante di scuola elementare sia come membro del London Board of Education –, che mettesse al riparo dai fallimenti in cui erano incorsi i precedenti tentativi di radicale trasformazione della società. Un rinnovato metodo educativo, iniziava a ragionare Wallas, avrebbe prodotto adulti pienamente consapevoli dello «scopo comune», e capaci di assumere volentieri il proprio «posto nel grande organismo dello Stato».

Quella della partecipazione popolare nella direzione sociale fu la tematica che tanto contribuì al progressivo distacco di Wallas dai fabiani, completatosi nel 1904, quanto lo indusse alle intuizioni più innovative. L’immaturità morale nell’“uomo medio”, egli ammetteva, si accompagnava con l’impreparazione alle sempre più vaste responsabilità e alle sempre più complesse capacità di giudizio che la pervasiva transizione dal mondo agricolo e locale a quello industriale e globale esigevano dal cittadino. Se Sidney Webb, postulando una più rigida separazione del lavoro politico, poteva accontentarsi di affidare l’effettiva determinazione delle scelte politiche all’élite degli esperti, contenendo i governati al compito di esprimere la propria preferenza tra i candidati al governo, la sfida che Wallas si poneva era quella di assicurare la compartecipazione e la sanzione popolari con la soddisfazione delle esigenze di competenza ed efficacia, in un autogoverno inteso quale  «azione collettiva preceduta e controllata dal pensiero attivo».

Per prima cosa, dunque, si trattava di analizzare criticamente i fondamenti del pensiero democratico, sulla scorta dello studio del pensiero utilitaristico (al quale Wallas contribuì dedicandosi lungamente al pensiero del radicale Francis Place), che offriva il tentativo di erigere un’effettiva scienza politica – sebbene in virtù di una psicologia e un’antropologia che sarebbero presto apparse piuttosto semplicistiche –, quanto dall’indagine sulle evidenze che emergevano nella realtà britannica e nella società statunitense, osservata più da vicino per alcune conferenze tenute a Filadelfia tra il 1896 e il 1897.

A giudizio di Wallas la teoria democratica ruotava attorno a due assunti: la scena pubblica era parimenti osservata da tutti i cittadini, che la potevano recepire oggettivamente e sotto le stesse fattezze; ciascuno era portato a perseguire razionalmente il proprio interesse e, correttamente educato, sarebbe stato condotto, da una sorta di “mano invisibile” elettorale a operare le scelte migliori più adatte al benessere aggregato della collettività. Per Wallas si trattava, però, di assunti apodittici e intellettualistici, scaturiti dall’insufficiente comprensione dell’esperienza umana che egli imputava alla coeva dottrina politica. Wallas, dunque, era pronto a concedere qualche ragione a Walter Bagehot, che in The English Constitution (1867) e in Physics and Politics (1872) aveva biasimato gli istituti rappresentativi per non essere commisurati all’effettivo stadio evolutivo della mente umana, ancora più adatta al governo monarchico, e a Henry Sumner Maine, che in Popular Government (1885) aveva contestato la presunta razionalità del comportamento umano, motivato nei più dalla miope (se non cieca) abitudine e dunque bisognoso della conduzione dei pochi lungimiranti.

Effettivamente, sosteneva Wallas nel 1899, l’umanità era in gran parte mossa da «abitudine, eredità, tradizione», pregiudizi. E lo sguardo dei cittadini non era attentamente rivolto alle vicende sulle quali avrebbero dovuto formarsi un parere razionale, pronunciarsi o agire, né vi era alcun meccanismo che portasse inconsapevolmente a compiere le scelte migliori. Ma non si poteva neanche affermare che essi condividessero lo stesso ambiente mentale. Per spiegare le convinzioni che aveva maturato già al termine dell’Ottocento, in Our Social Heritage (1921), ultima sua monografia che vide pubblicata, rivisitava il mito platonico della caverna: non vi era più un’unica parete sulla quale erano proiettate le medesime ombre, poiché ognuno viveva con la mente “chiusa in una scatola illuminata, dipinta con le immagini del mondo, a guidare i propri passi”. In modo non dissimile Lippmann in Public Opinion (1922), dopo aver richiamato l’allegoria platonica, avrebbe descritto gli stereotipi come pictoresque boxes.

La “nuova psicologia” esposta da William James nei Principles of Psychology (1890) era stata determinante per svelare a Wallas, già edotto circa le tesi darwiniane, il ruolo dell’interazione con l’ambiente fisico e sociale e nella formazione del comportamento degli esseri umani e per approfondire il peso che in essi avevano i processi mentali inconsci e le emozioni. Gli impulsi e gli istinti sopravvivevano, in misura direttamente proporzionale alla loro antichità, anche dopo aver esaurito il compito svolto nel processo evolutivo, e continuavano a reagire – ma ormai in maniera disfunzionale – agli stimoli ambientali. Ponendo al centro della riflessione sulla politica lo studio della natura umana, illuminato da simili nozioni, in Human Nature in Politics (1908) Wallas sosteneva allora che le cognizioni possedute dalla massa, lungi dall’essere frutto di esperienze dirette, scaturivano perlopiù dalle sollecitazioni artificiali che i media e i partiti, similmente alle agenzie pubblicitarie, esercitavano sugli impulsi, evocando simboli a cui si saldavano associazioni emotive. La politica, allora, consisteva «largamente nella creazione di opinioni e del deliberato sfruttamento dell’inferenza del subconscio non razionale», e celava «un’organizzato sistema di suggestione mentale». L’ambiente nelle nazioni “avanzate”, divenuto urbano, industriale, impersonale e mondiale, trovava conseguentemente l’individuo impreparato a conoscere e comprendere le cause da cui dipendevano le sue fortune e i suoi mali, e perciò incapace di adoperare la propria previsione per sfruttare o generare eventuali «possibilità di felicità».

(Fine prima parte)

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