Antonio Giovanni Pesce (1978) è laureato in Filosofia presso l’Università di Catania con una tesi su Giambattista Vico e la modernità. Nel 2007 si specializza nell’insegnamento secondario. Entrato nella scuola di dottorato del Dipartimento di Scienze Umane della Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania, studia Pascal, Croce e Gentile, addottorandosi nel 2011 in Filosofia e storia delle idee. Insegna storia e filosofia nei licei.

La questione della pluralità degli Stati Uniti d’America non è solo questione di verbo essere, e cioè se gli Usa sono oppure è uno Stato. Più che una molteplicità, al fondo della questione c’è una dualità: gli Stati Uniti sono un impero fondato su una ed una sola nazione. L’impero è quello che alleati e nemici vedono, anche grazie alla retorica cinematografica di Hollywood, che nel secondo dopoguerra ha creato il mito e a partire dalla guerra in Vietnam lo ha demolito, influenzando non solo coloro che si dichiarano filoamericani, ma anche chi in quella bandiera a stelle e strisce vede il male, il grande satana. L’American Way of Life, che si impone su tutti quei popoli conquistati, ha finito per essere l’unica via percorsa per analizzare politica ed economia internazionali ed estere degli States. Presi troppo dalle suggestioni provenienti dai film commerciali e dai modelli culturali diffusi per i teenager, tutti ambientati in quell’angusto spazio che è la Grande Mela, ci è sfuggita spesso un’altra America, più profonda e forse anche più vasta, e quando, con la potenza della realtà, essa ci si è parata innanzi, l’abbiamo declassata a rigurgito gastrico, una questione di pancia, di cattiva digestione insomma dei processi democratici.

C’è un’altra via però, che attraversa l’America nel suo profondo, lunga come quella catena di monti, gli Appalachi, che una volta rappresentava la frontiera con l’Ovest, e che J.D. Vance, candidato alla vicepresidenza con Donald Trump, percorre con la sua Elegia Americana (Garzanti, Milano 2020, trad. it. di R. Merlini), una confessione autobiografica uscita nel 2016 e che l’autore, anche col supporto di studi sociologici, vuole elevata dall’empiria della memoria alla scientificità della storia, diciamo pure con ottimi risultati. Un affresco della crisi che attraversa la società statunitense, e che sembra richiamare in talune occasioni – si parva licet… – il ben più noto Furore di John Steinbeck, ambientato in quel mondo, a onor del vero ben più drammatico, successivo alla crisi del 1929.

Vance è stato definito il clone di Trump e per molti versi, dopo un primo momento di distanza, ha ripreso temi e anche in parte i toni che sono tipici del tycoon. Tuttavia Hillbilly Elegy – questo il titolo originale – non è un manifesto conservatore, e anzi spesso i democratici e i loro leaders sono citati e non in negativo, segno, questo, che si sono tenuti distinti i diversi momenti della produzione letteraria e dell’azione politica. E quando il libro fu pubblicato Vance non era ancora senatore repubblicano dell’Ohio, ma aveva già ben espresso le proprie convinzioni politiche, e ciò significa che la maturazione ideologica è vera, se non del tutto, almeno in gran parte.

Il titolo in inglese è indicativo: hillbilly significa, infatti, montanaro. Scrive Vance:

Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari (p. 11).

L’Autore lo è, perché i nonni, originari di Jackson nel Kentucky, si spostarono nell’Ohio, a Middletown, non solo per fare fortuna ma anche per scappare dai conflitti familiari. La famiglia è povera, ma non misera. E c’è una differenza enorme tra le due cose, e la distinzione non è economica bensì culturale, perché Vance ci tiene a mettere in chiaro che, pur trattando della condizione dei poveri lavoratori bianchi, quello che porta alla misera è la crisi valoriale, di chi non vuole farcela, di chi non ha come ideale la realizzazione del sogno americano. Questo è il punto: Vance non è il ricco notabile figlio di ricchi notabili che propugna una rivolta conservatrice. Egli ha sperimentato su di sé le contraddizioni della classe operaia, ne ha vissuto a lungo la condizione, ne ha toccato l’abisso morale e ne ha provato la voglia di risalire. Dunque, quando c’è da parlare a quella che banalmente definiamo “pancia”, Vance è più titolato di Trump. E se egli è il futuro dei repubblicani, allora possiamo capire quale grande trasformazione stia avvenendo dentro un partito che, come l’altro concorrente, è sempre stato dominato da un certo familismo notabile.

In Elegia americana è ritenuto «disgustoso» che i poveri rubino ad altri poveri (p. 23), caposaldo questo di un’etica che ha due imperativi categorici, di cui l’altro è quello espresso ancora dalla nonna dell’autore, la figura centrale nella vita di Vance: «A volte, tesoro, devi combattere, anche se non è per difendere te stesso. A volte è proprio la cosa giusta da fare» (p. 71)

Hillbilly, «gente della colline» e «poveri sono quasi sempre sinonimi» (pp. 24-25), ed essi – qui la questione si fa ancora più interessante – vivono la stessa condizione dei «neri del Sud che affluivano a Detroit» (p. 36). Non deve allora stupire che la comunità afroamericana non abbia votato solo per i democratici nelle ultime due competizioni elettorali, anche perché sembra che queste nuove tendenze politiche dei repubblicani siano più capaci di intercettare un malcontento di classe rispetto a quello dei liberalprogressisti. C’è un passo che, oltre a dirci molto sulla provenienza sociale di Vance, ci dice tanto di quel sogno americano ormai un po’ appannato:

Nonostante le difficoltà, entrambi i nonni nutrivano una fede pressoché religiosa nel duro lavoro e nel sogno americano. Nessuno dei due si illudeva che la ricchezza o il privilegio non contassero in America. Sui politici, per esempio, la nonna aveva una sola opinione – «Sono una manica di imbroglioni» – ma il nonno divenne un fervente democratico. Non aveva problemi con l’Armco [l’acciaieria in cui lavorava, n.d.r], ma come tutti i suoi colleghi di lavoro odiava le aziende minerarie del Kentucky per una lunga storia di lotte sindacali. Così, per i nonni, non tutti i ricchi erano cattivi, ma tutti i cattivi erano ricchi. Il nonno era un democratico perché il suo partito proteggeva gli operai. Questo atteggiamento si estese anche alla nonna: tutti i politici erano degli imbroglioni, ma, se c’erano eccezioni, queste facevano indubbiamente parte della coalizione che sosteneva il New Deal di Franklin Delano Roosevelt. Eppure, i nonni erano convinti che l’impegno lavorativo contasse. Sapevano che la vita era una battaglia, e, nonostante quelli come loro partissero un po’ svantaggiati, ciò non poteva giustificare il fallimento. «Non diventare mai come quei perdenti nati che pensano di avere contro il destino», mi diceva spesso la nonna. «Puoi ottenere tutto ciò che vuoi» (pp. 40-41).

Questo comandamento è in pieno contrasto con le politiche del Welfare, le quali sembrano fatte apposta per indurre al lassismo. L’espressione tipica “regina del welfare” indica chi, pigramente, decide di farsi campare dallo Stato e dai suoi sussidi, piuttosto che rimboccarsi le maniche come fece lo stesso Vance, che lavorò in un magazzino di piastrelle o arruolandosi nel corpo dei marines per pagarsi gli studi. È un’espressione carica anche di pregiudizi razziali, perché viene associata all’immagine di una «di una pigra mamma nera che vive col sussidio di disoccupazione». «Ho conosciuto molte ‘regine del welfare’» – commenta Vance – «alcune erano mie vicine di casa, ed erano tutte bianche» (p. 15). Infatti, istruttivo quanto il servizio militare è stato il lavoro da cassiere in un supermercato, un brano che va letto tutto (pp. 136-140), e che si conclude con le perplessità della nonna, che pur avendo faticato duramente nella vita non può permettersi molto, mentre chi vive di sussidi mangia «bistecche e beve casse di birra».

I politologi hanno usato milioni di parole – scrive Vance – nel tentativo di spiegare come mai gli Appalachi e il Sud siano passati dal Partito democratico al Partito repubblicano in meno di una generazione. Alcuni danno la colpa ai rapporti razziali e all’appoggio fornito dai democratici al movimento per i diritti civili. Altri citano la fede e la presa del conservatorismo sociale sugli evangelici di quella regione. La spiegazione sta più probabilmente nel fatto che molti bianchi della classe operaia hanno visto quello che ho visto io quando lavoravo da Dillman’s.

Il problema è culturale, perché il proletariato bianco mira a scaricare tendenzialmente sullo Stato o sulla società quelle che sono le proprie mancanze. Si tratta di rassegnazione appresa, cioè «quando una persona si convince […] che le scelte che fa non hanno alcun effetto sulla sua vita» (p. 161). Responsabile della diffusione di questo messaggio per perdenti è anche la retorica dei neoconservatori, che davanti ai fallimenti attribuisce la colpa non al soggetto agente ma allo Stato, alle élite, ecc. (p. 191). La nonna e il corpo dei marines hanno insegnato al giovane J.D. la lezione della determinazione appresa, cioè il fatto che le nostre azioni contano, e contano per il nostro destino. Di questa lezione Vance farà tesoro, tanto che potrà iscriversi e laurearsi in legge a Yale, avendo alle spalle una famiglia povera, una madre tossicodipendente, ma due nonni con il culto del grande sogno americano.

Altri temi vengono affrontati, come quello inerente all’idea di giustizia che hanno i nonni (p. 135), o quello della religione (diversi passi nel testo, ma tendenzialmente il cap. 6), e sull’isolamento e la battaglia contro il mondo moderno proposte da certe visioni millenaristiche. Mi è sembrato più interessante illustrare questa parte di taglio economico-sociale del libro, perché dice molto anche a noi italiani, che nell’arco di qualche decennio abbiamo visto il passaggio dell’elettorato operaio da sinistra a destra. Negli anni Sessanta l’Italia e tutto un mondo che aveva conosciuto gli orrori del secondo conflitto mondiale toccavano l’apice del benessere economico. Per lunghi anni a seguire il ceto medio venne rinfoltito dalla classe operaia, che poteva accedere ad una casa di proprietà, ai gradi pian piano più alti dell’istruzione per i figli, all’automobile, a vacanze estive più confortevoli, ecc. Qui la sinistra pensò, anche su indicazione di Herbert Marcuse, che i nuovi alienati non andassero cercati nelle tute blu, ormai perfettamente integrati nella società consumistica, ma negli stranieri, negli emarginati per razza e sesso. Al di là della specificità della filosofia marcusiana, che rientra nella critica più generale alla razionalità tecnica, quello che una classificazione del genere non riesce a cogliere è la relatività del benessere e la trasversalità economica delle nuove categorie proposte. Perché ciò che ieri era il massimo a cui puntare, oggi è soltanto il minimo: difficilmente si entra nel sistema produttivo se non si è muniti di un proprio mezzo di locomozione, o comunque ciò ne limita abbastanza la possibilità. Quel proletariato si scoprì ancora deietto, non appena finì la spinta propulsiva di quel periodo storico. Non solo, ma quello sguardo era rivolto solo all’Occidente opulento e industrializzato, mentre il proletariato preso in considerazione era quello di questo spicchio di mondo. In fin dei conti, Marcuse racconta una storia centrata sull’Europa e sulle sue emanazioni d’Oltreoceano.

Negli anni la classe operaia occidentale ha dovuto subire la concorrenza di altra manovalanza all’interno del processo di globalizzazione dell’economia, senza che i nuovi ‘sfruttati’ potessero avanzare pretese ad una più equa ridistribuzione della ricchezza: il proletariato del tanto vituperato Occidente, sempre atteso al suo tramonto, ha ottenuto salari maggiori, migliori condizioni di lavoro e più ampi margini di libertà per la lotta politica. Così non può dirsi per l’Oriente, dove sono ancora lontani i diritti dei lavoratori, per quanto logorati dal consumismo, di questa parte del mondo. Il sistema repressivo orientale (fra tutti la Cina) non permette nessuna negoziazione, e sfruttando lo stesso sistema tecnico dell’Occidente e per di più schiavizzando la manodopera, riesce a produrre a costi contro cui non regge alcuna concorrenza.

Il proletariato occidentale si trova a combattere contro un sistema economico che può mettere in campo forze produttive senza alcuna coscienza di classe, sottopagate fino a quel limite che Marx identificava come il necessario per la sopravvivenza, e attirando a sé quelle élite che hanno sostituito il cosmopolitismo culturale con quello industriale. Negli Stati Uniti – Vance lo sa – la questione razziale in riferimento al proletariato è solo storica, dopo che gli afroamericani hanno potuto accedere alla pienezza dei diritti. Bianchi o neri, se proletariati, si sentono ai margini di questa società opulenta, che solo cinquanta anni fa li avrebbe inglobati. Ma si sentono emarginati in quanto lavoratori, non in quanto aventi un colore di pelle piuttosto che un altro.

Per giunta, i lavoratori spesso si sentono defraudati da quella cultura assistenzialistica alimentata dalle proprie tasse. Perché – qui c’è forse il più grave errore commesso dai partiti di sinistra – se non si vuole considerare una persona come un singolo, un microcosmo, una sostanza metafisica in relazione con altri, allora non c’è dubbio che l’altra categoria utile per spiegarla è quella economico-sociale. Il lavoro non è una condizione addizionale dell’esistenza umana, ma, giusta la visione marxista, la quale risente molto del clima protestante, ciò che permette di produrre soddisfacimento ai bisogni connaturati alla natura umana. Per questo l’operario afroamericano non si sente necessariamente affine alle “regine del welfare” di colore, così come Vance e sua nonna si sentivano sfruttati da quelle bianche. Dopo quella di sostanza, la categoria del lavoro è la più intersoggettiva. Non so se Trump lo abbia capito. Lo ha capito però Vance, che lo ha provato sulla propria pelle.

Un’ultima annotazione. La delocalizzazione non è andata solo a beneficio della Cina, ma non c’è dubbio che questa ne abbia approfittato di più. E non solo negli Usa. Ma la Cina non è solo il paese del proletariato concorrente, ma anche il paese che contende all’impero americano il Pacifico. Si comprende bene come la questione sociale, che potrebbe essere appannaggio solo del partito repubblicano come interprete dello spirito della nazione, si sposi con gli interessi politici dell’Impero, il quale, in quanto tale, non conosce distinzioni partitiche, e vede, seppur con toni diversi, entrambi i partiti repubblicano e democratico interpreti del suo spirito. Che lotta per non soccombere.

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