Flavio Felice (1969) è professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università degli Studi del Molise e professore invitato di Scienze sociali alla Pontificia Università Gregoriana. È stato altresì visiting professor all’Università Cattolica Sedes Sapientiae di Lima (Perù). È membro del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali, è presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton, direttore della rivista «Prospettiva Persona» e presidente del Consiglio scientifico dell’Istituto di Studi Politici San Pio V di Roma. È No-Resident Research Fellow del Faith & Reason Institute e Adjunct Scholar all’American Enterprise Institute, entrambi in Washington DC. Per l’editore Rubbettino dirige le collane “Il liberalismo delle regole” e “Novae Terrae”. È collaboratore di diversi quotidiani, tra cui “Avvenire” e “Il Foglio”. Ha curato e introdotto la traduzione italiana delle seguenti opere di Wilhelm Röpke: Al di là dell’offerta e della domanda. Verso un’economia umana(con D. Antiseri, 2015); Civitas humana. I problemi fondamentali di una riforma sociale ed economica (2016); La crisi sociale del nostro tempo(2020) e L’ordine internazionale (2023). Tra le sue pubblicazioni più recenti: Democrazia avvelenata(con D. Antiseri e E. Di Nuoscio, 2018); Moneta, sviluppo e democrazia. Saggi su economia sociale di mercato e teoria monetaria (con F. Forte e E. Di Nuoscio, 2020); I limiti del popolo. Democrazia e autorità politica nel pensiero di Luigi Sturzo(2020); Popolarismo liberale. Le parole e i concetti (2021); Laburismo cattolico. Idee per le riforme (con R. Rossini, 2022); Michael Novak(2022); Libertà e giustizia economica vivono insieme e muoiono insieme. Lettera ai «liberali distratti» e agli «statalisti ottusi» (con D. Antiseri, 2022) e ha curato il volume Lo sguardo politico dei grandi narratori (2023).

Il 5 novembre i cittadini statunitensi saranno chiamati al voto per rinnovare la presidenza degli Stati Uniti d’America, oltre alla rappresentanza dell’intera House of Representatives e un terzo del Senato. A queste elezioni bisognerebbe aggiungere quelle per il rinnovo della carica di governatore in 11 Stati e di vicegovernatore in 5 Stati, nonché l’elezione di 8 segretari di Stato dei singoli Stati membri, 10 procuratori generali, 9 tesorieri dello Stato e altre importantissime cariche pubbliche.

Mi sono attardato in questo sommario elenco per mostrare come il regime democratico statunitense sia decisamente complesso, perché complessa è la democrazia liberale. Essa presuppone che nessuna fazione pretenda di possedere la verità e che, di conseguenza, nessuna fazione possa imporre la propria ipotesi come se fosse la verità. A questo punto, la verità, nella democrazia liberale, riposa nella concreta possibilità di continuare a porre la domanda su quale sia la verità, in un processo senza fine e senza una meta condivisa che non siano le comuni regole del gioco e la manutenzione della democrazia stessa; ciò fa della democrazia una discussione critica su questioni di interesse comune.

Se è vero che la liturgia elettorale, ovunque e sempre, delineando i contorni del sistema politico, rivela nel contempo la genealogia di quel sistema, allora credo si possa dire che ogni evento elettorale rappresenta anche un memoriale del processo politico che ha condotto le donne e gli uomini, in un determinato momento storico, a implementare idee e ideali che hanno trovato forma in un peculiare assetto istituzionale che chiamiamo regime politico e, nella fattispecie, “regime democratico”.

Nel caso specifico dell’esperimento americano, perché di un esperimento si è trattato, essendosi presentato al mondo come il primo esempio di Repubblica democratica dell’era moderna, il sofisticato intreccio dei diversi livelli di rappresentanza esprime il carattere originale di quell’esperimento che ha rivoluzionato la teoria politica e ancora oggi ci interroga sul significato più profondo di tale disciplina, intesa come analisi e riflessioni sulle dinamiche connesse alla conquista, al mantenimento e al trasferimento del potere.

L’eccezionalità dell’esperimento americano consiste nell’aver mostrato al mondo che le dinamiche del potere non si esauriscono nella categoria del potere costituito, ma che possono essere interpretate alla luce di una forza vitale, tale per cui i processi politici, economici e culturali rispondono anche ad un’istanza costituente. Non più la ripetizione fedele di un ordine immutabile, ma la ricerca di soluzioni sempre nuove al mutato corso degli eventi; lo si comprende chiaramente se leggiamo il primo capoverso del preambolo della Dichiarazione d’Indipendenza:

Quando nel corso di eventi umani, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto a un altro popolo e assuma tra le potenze della terra lo stato di potenza separata e uguale a cui le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno diritto, un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che quel popolo dichiari le ragioni per cui è costretto alla secessione.

In questa sede, vorrei sottolineare soltanto due aspetti: il senso della complessità istituzionale che si traduce nel sistema dei pesi e contrappesi e l’importanza del principio di rappresentanza. Il primo ha a che fare con la consapevolezza che l’ordine politico non esprime un dato immutabile della storia, al cospetto del quale gli individui sarebbero chiamati ad obbedire, come se non esistesse altra “formula politica” – per usare il linguaggio di Gaetano Mosca – che sta a indicare le ragioni stesse del potere esercitato dai governanti e la loro giustificazione da parte dei governati. In breve: perché qualcuno è chiamato a comandare e qualcun altro a obbedire?

L’ordine politico, pensato da uomini per altri uomini e non da angeli per altri angeli (il riferimento è a James Madison, The Federalist, n. 51), non può non essere giudicato che sulla base della capacità che tale ordine ha di rispondere efficacemente alle istanze e alle vertenze del tempo.

I padri fondatori dell’esperimento statunitense comprendono che la ragione sociale dell’ordine politico è di tipo problem solving, anche se non si nascondono dietro l’utopia irenica di una democrazia che si autogenera e si autogoverna. Per questa ragione ritengono necessario il ricorso alla Rivoluzione (sciogliere i legami) e immaginano e realizzano un sofisticato sistema di pesi e contrappesi, di cui la lista delle scadenze elettorali citate poc’anzi è solo una piccola parte.

In secondo luogo, mi chiedo: in quale altro modo la liturgia elettorale manifesta la genealogia, l’istanza, la ragione sociale dell’ordine politico – o della formula politica – di cui si sono dotati gli Stati Uniti d’America? La presenza di una fitta rete di elezioni, ciascuna con un proprio sistema elettorale e con scadenze scaglionate, si pensi ad esempio alla rappresentanza del Senato che dura sei anni, ma che si rinnova per un terzo ogni due anni, quella della Camera, che si rinnova interamente ogni due anni o alla nomina a vita dei giudici costituzionali da parte del Presidente che, però, al massimo, potrà durare in carica per soli otto anni, esprime una formula politica nella quale è negata espressamente la nozione di sovranità, non fosse altro perché costituzionalmente esistono due livelli: quello federale e quello statuale. È dunque negata la nozione di sovranità, almeno così come è stata concepita in epoca moderna e come si è sviluppata nell’era contemporanea nel contesto politico continentale.

Maiestas summa legibusque soluta (Jean Bodin, «sommo potere, sciolto dalla legge»): un potere autonomo, assoluto e non derivato che non riconosce nulla e nessuno al di sopra di sé. La sovranità, in tal senso, è il principio giuridico e politico che indica il potere di ultima istanza: superiorem non recognoscens. Ebbene, l’esperimento istituzionale americano – la sua formula politica che si traduce nell’assetto istituzionale – ci dice invece che le ragioni dell’ordine politico non risiedono nella risposta al quesito platonico su chi debba governare, ma, più umilmente, come ci ha insegnato Popper, sulla seguente domanda: come organizziamo il potere affinché chi governa non faccia troppi danni?

La risposta a questa domanda è tutta concentrata nel principio che sta al cuore della rappresentanza: Quod omnes tangit ab ominbus approbari debet («quello che riguarda tutti, deve essere approvato da tutti»). Sebbene tale principio affondi le sue radici nel codice giustinianeo e sia giunto fino a noi attraverso il codice canonico, sarà la rivoluzione americana a tradurlo in principio politico: «No taxation, without representation», dal quale scaturirà una determinata formula politica e un peculiare regime politico: la Repubblica democratica.

Nell’ottica della concretezza, intesa come “ragione pratica”, credo che sia utile tematizzare la questione della rappresentanza e non dimenticare che essa, alla luce del principio esposto poc’anzi, rappresenta il fulcro stesso dell’esperimento democratico. Da essa dipende la salute della democrazia che intenda restare liberale. In tal senso, non è sufficiente invitare più o meno retoricamente alla partecipazione. Le politiche populiste non si contrastano invitando alla partecipazione: quale populista o dittatore non chiede al popolo di partecipare al potere che lui detiene, in nome di una condivisione imposta? Anzi, il populista e il tiranno abbattono i corpi intermedi (le sedi della rappresentanza) nel nome della partecipazione diretta del popolo.

Al contrario, il cuore della democrazia risiede nella percezione che i cittadini hanno di essere “rappresentati” (di contare qualcosa) e nella concreta possibilità che essi hanno di vedere le proprie istanze politiche, economiche e culturali ben rappresentate. Si partecipa alla democrazia se si è rappresentati: no taxation without representation, appunto. Era questo il motto dei rivoluzionari americani che hanno abbattuto l’Antico Regime e hanno posto così le basi della democrazia contemporanea.

È vero che la crisi delle democrazie contemporanee è sempre più una crisi segnata dalla fuga dalla partecipazione, ma chi sarebbe interessato a giocare una partita nella quale gli fosse impedito di toccare palla? Se la democrazia diventa una partita che interessa gli altri, la giochino pure gli altri, la difendano gli altri, perché è percepita come la “democrazia degli altri”. Il populismo e le democrature (le democrazie illiberali) si combattano riportando al centro la questione della rappresentanza, dalla quale dipende la disponibilità a partecipare ai processi democratici. In tal senso, la partecipazione democratica e liberale è una derivata della rappresentanza, e la rappresentanza necessita di un ripensamento continuo dei suoi istituti, a cominciare dalla legge elettorale, ma non esaurendosi ovviamente con essa.

Chiudo questa mia fin troppo estesa introduzione, augurando buon lavoro a tutti coloro che parteciperanno alla discussione, nella speranza che tale momento accademico possa rappresentare, in primis per gli studenti, l’occasione di una profonda riflessione sulle ragioni del potere, così come è esercitato nella quotidianità, e sugli strumenti da adottare affinché chi governa, anche al di là delle eventuali buone intenzioni, possa servire davvero il bene di tutti e di ciascuno e non miseramente la propria vanagloria.

Intervento introduttivo al convegno “5 novembre. Le elezioni presidenziali americane”, tenuto il 7 ottobre 2025, presso l’Università del Molise a Campobasso, nell’ambito delle attività del Corso di laurea in Scienze della Politica e dell’Amministrazione, del Corso di laurea in Scienze della Comunicazione e dell’insegnamento di Geopolitica filosofica dei media dei diritti. Con il patrocinio del Consolato generale degli Stati Uniti d’America. 

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