Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Nel suo libro La quarta teoria politica, Alexandr Dugin, membro del sinedrio intellettuale di Vladimir Putin, delinea i principi generali della sua proposta, chiamata “quarta teoria” perché viene dopo le tre grandi teorie politiche moderne: liberalismo, fascismo e comunismo. Secondo Dugin, queste teorie si distinguono in base al soggetto centrale che pongono al centro delle loro prospettive: l’individuo nel liberalismo, la nazione nel fascismo e la classe nel comunismo.

Tuttavia, il nuovo soggetto proposto da Dugin non viene chiaramente definito. Ciò nonostante, il filosofo sottolinea l’importanza fondamentale di quella che definisce l’unità sociale primaria, l’ethnos, un elemento costante che persisterebbe attraverso i cambiamenti storico-sociali. Questa idea è ulteriormente esplorata nella sua vasta opera Etnosociologia, in cui Dugin tenta una ricostruzione genealogica della società contemporanea, partendo dall’ethnos come unità sociale di base per giungere alle società più complesse, come il narod (il “popolo”) e infine la società globale, passando per quella nazionale.

Ora, tale elemento sociale di base, questa identità profonda, rappresenta in un certo qual modo un codice genetico originario, una essenza la cui formazione è talmente primordiale da poter essere considerata quasi come data metafisicamente. Il compito di ogni società, si evince chiaramente dal discorso di Dugin, sarebbe quello di vivere in fedeltà alla propria essenza.

Come si può facilmente intuire, l’argomentazione del filosofo russo funziona bene come giustificazione ideologica dell’imperialismo. La cosa più importante da comprendere, infatti, è che l’ethnos non descrive una determinata cultura, bensì prescrive ciò che questa deve essere. Dunque, tanto per capirci con un esempio non scelto a caso, se gli ucraini o i georgiani abbracciano troppo i valori “atlantici”, non starebbero facendo altro che allontanarsi dal centro della propria identità più profonda. Appare logicamente ovvio, allora, in un mondo in cui dovrebbe vigere «un equilibrio multipolare»  ̶  siamo sempre entro il pensiero di Dugin  ̶  che i diversi imperi regionali, segnatamente la Russia nel nostro caso, tentino con le buone o le cattive di riportare i popoli culturalmente eretici entro l’alveo dell’ovile originario. Naturalmente, manco a dirlo, secondo Dugin tutto questo servirebbe alla pace mondiale. Se altri imperi s’immischiano in tali operazioni di assimilazione, dimostrerebbero, a dire del nostro autore, solo di volere l’instabilità e il disordine mondiale.

Spiace molto  ̶  chi scrive l’ha fatto notare altre volte  ̶  che i fautori dell’appeasement con Mosca nella guerra in Ucraina, sottovalutino o ignorino del tutto questo sfondo ideologico che soggiace alle politiche di Putin. Quanto detto fin qui, comunque, serve come premessa per spostare l’attenzione sul punto che ci preme davvero richiamare.

Dobbiamo chiederci, al di là della fumisteria filosofesca, quale sia l’operazione che conduce Dugin. Crediamo che l’autore russo, nella sua teoria politica, non faccia altro che costruire un mito. È noto a tutti il ruolo centrale che i mitologhemi hanno avuto nelle ideologie totalitarie dello scorso secolo: bisogna però intendersi su quale sia il mito in questione. Il filologo e storico delle religioni ungherese Károly Kerényi ha distinto il «mito tecnicizzato», manipolato e piegato a fini politici, da quello «genuino», inteso goethianamente quale fenomeno originario (Urphänomen) che emerge dal passato immemorabile della storia umana. A differenza di quest’ultimo, il primo è intenzionalmente evocato dall’uomo per conseguire determinati scopi, in particolare scopi di dominio politico attraverso la mobilitazione delle masse.

Le ideologie totalitarie del secolo scorso rappresentano il laboratorio perfetto di questa costruzione mitologica eretta per conquistare il potere politico attraverso il controllo dell’immaginazione collettiva e dunque della volontà sentimentalmente esaltata, a discapito ovviamente della sfera razionale. A tal proposito, c’è una figura che dev’essere assolutamente ricordata se vogliamo comprendere il panorama culturale odierno: stiamo parlando del leader del cosiddetto sindacalismo rivoluzionario di inizio ˊ900, Georges Sorel, le cui Riflessioni sulla violenza (1908) sono state recentemente ristampate in Italia.

Il pensatore amato da Lenin e da Mussolini può essere indicato come il punto in cui estrema sinistra ed estrema destra s’incontrano a formare quel miscuglio sorprendente (in realtà sorprendente fino a un certo punto) impastato dalla comune inimicizia verso la repubblica parlamentare, la democrazia liberale, il riformismo, insomma dal ripudio della società liberal-democratica. A tal proposito, è emblematico ciò che nell’introduzione alla nuova edizione delle Riflessioni, summenzionata, a cura dell’editore Castelvecchi, ricorda Fabio Martini. Nel 1932, per il decennale della morte di Sorel, l’ambasciatore italiano a Parigi offrì la disponibilità del governo italiano a realizzare un monumento funebre in onore dell’intellettuale. Praticamente negli stessi giorni, però, anche l’ambasciatore sovietico avanzò un’analoga offerta.

Com’è noto, in precedenza Sorel aveva elogiato la genialità politica sia Mussolini che di Lenin. Non possiamo qui ripercorrere il pensiero di Sorel, ma dobbiamo concentrarci su quello che, a nostro avviso, ne rappresenta il cuore: l’anarcosindacalismo soreliano, refrattario ad ogni metodo riformista e radicalmente antistatalista, si fonda sul sospetto per la mediazione, intesa sia dal punto di vista meramente intellettuale che sotto il profilo della prassi in tutte le sue forme, inclusa naturalmente quella politica. In questo senso, la prospettiva soreliana è veramente una figlia impazzita della filosofia bergsoniana. La metafisica di Henri Bergson, infatti, costruita sul metodo dell’intuizione immediata e sulla spontaneità selvaggia dello slancio vitale, presta effettivamente il fianco a una visione che percepisce nella mediazione intellettuale prima, e in quella politica poi, meri artifici borghesi utili al mantenimento di un potere. In tale orizzonte, dibattito, contrattazione, parlamento, tessitura paziente del consenso, ricerca del bene possibile, sono denunciati come altrettante ipocrite sordine all’energia vitale del movimento rivoluzionario che deve dispiegarsi senza ostacoli.

Appare evidente che, entro il quadro descritto, anche la violenza possa trovare una propria collocazione e giustificazione, e con essa le forze irrazionali della storia, segnatamente la nuda volontà che si afferma contro l’intellettualismo borghese. È qui che gioca il suo ruolo chiave il mito, inteso come quel complesso di immagini capace di muovere l’azione delle masse operaie nella direzione di una rivoluzione assoluta. Il mito, in altri termini, è quella «costruzione irrazionale che permette alle masse (alle quali si rivolge) di entrare nel “regno della libertà”, sottraendosi ad ogni condizionamento sociale», che se ne sta al di fuori di ogni considerazione e di ogni valutazione pratica, e in quanto tale «può ricevere solamente un’adesione morale e non intellettualisticamente mediata» (P. Ferrario, Sorel e il mito della violenza (Per una rilettura delle Réflexions), «Il Politico», LI/1, 1986, p. 13).

Il mito non è l’utopia: quest’ultima è una costruzione frutto di mediazione intellettuale, è un’astrazione, che può andar bene al socialista riformista ma non al socialista rivoluzionario che vuole essere aderente al fatto immediato e mutare il sistema vigente. Su tali presupposti, in Riflessioni sulla violenza, Sorel scrive che «lo sciopero generale è proprio ciò che ho detto: il mito nel quale si racchiude tutto intero il socialismo, cioè a dire una organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna».

Tali posizioni preoccuparono non poco intellettuali sostanzialmente coevi di Sorel. In un breve ma significativo saggio del 1937, intitolato Introduzione ad una critica del mito, il filosofo Paul Ludwig Landsberg, opera una critica affilata della macchina mitologica sopra esposta. Quest’ultima, sostiene l’autore, sarebbe la diretta conseguenza della crisi dell’idea classica di verità sopraggiunta nella modernità, che a sua volta ha aperto la strada all’affermarsi di un criterio di verità pragmaticistico (qualcosa è vero o falso non in base ai principi teorici ma alla luce degli effetti pratici che produce): «In questa irrealtà attribuita al puramente teorico troviamo la prima fonte del mitologismo moderno. La questione di sapere se una tesi è vera in senso teorico ha perduto d’interesse. Ci si chiede esclusivamente cosa si potrebbe fare con essa», scrive Landsberg. Dall’800 in poi, in altre parole, la verità diventerebbe simile a un’invenzione tecnica. Per il nostro autore, Marx e Nietzsche sarebbero dentro questo movimento.

A tal proposito  ̶̶  il lettore ci conceda un piccolo approfondimento  ̶  è forse opportuno rimarcare come tutti citino l’ultima delle Tesi su Feuerbach di Marx, la celebre «i filosofi finora hanno interpretato il mondo in vari modi, ma si tratta di trasformarlo»; in realtà, crediamo che la più importante di quelle Tesi sia la seconda, la quale afferma che «è nella prassi che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero». Qui è detto il rovesciamento più radicale del platonismo, qui è condensato l’immanentismo marxiano e il mutamento dell’idea di verità che Landsberg sottolinea, a nostro avviso correttamente.

Da questo sentiero si arriva a Georges Sorel, il quale, scrive Landsberg, sotto l’inflienza di Marx, Nietzsche e del vitalismo di Bergson, elabora una teoria del mito. Il fatto nuovo è che per lui il mito non è, come per Nietzsche, l’invenzione di uno solo, che è o fu il genio artistico, ma è emanazione dell’anima delle masse in una determinata situazione sociale. Tale mito, privo di qualsiasi elemento logico-razionale ma pieno solo di immagini mobilitanti, è estremamente flessibile: «Che il mito al quale egli pensa sia quello dello sciopero generale, ciò non impedisce che si tratti di una forma il cui contenuto è intercambiabile. Sorel sarà in grado di accettare, da vecchio, tanto il comunismo di Lenin quanto il fascismo nascente di Mussolini». Se il mito tradizionale ha a che fare con un passato remoto e una purezza perduta, il mito soreliano e le sue derivazioni accentuano però la necessità di operare per la costruzione dell’avvenire, fondandosi sull’ideologia di una pura volontà che vuole sé stessa. Poiché tale mito, scrive Landsberg, non si rivolge all’intelligenza delle persone ma all’immaginario profondo, al sentimento barbaro che abita nelle profondità della psiche, qualunque tentativo di smentita razionale risulterà inutile. Il filosofo tedesco, morto nel campo di concentramento di Sachsenhausen a soli 43 anni, pensava alla mitologia razzista e antisemita che aveva infestato l’Europa nei primi decenni del secolo scorso.

Anche le menti più brillanti e colte possono finire vittime di una pericolosa allucinazione mitologica che instupidisce e porta alla confusione tra bene e male, vittime e carnefici, aggrediti e aggressori. Pensando alla fede nazista proclamata dalle persone che lo circondavano, Dietrich Bonhoeffer, anch’egli giustiziato in un campo di concentramento, scriveva:

Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, motti, ecc. da cui egli è dominato. È ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale. Questo è il pericolo che una profanazione diabolica porta con sé. Ci sono uomini che potranno esserne rovinati per sempre.

Ai nostri giorni, possiamo pensare alla mitologia antioccidentalista, anti-liberale, anti-parlamentare, in ultima istanza anti-democratica, diffusa in settori della nostra società ormai non più così minoritari.

Le teorie di Dugin (e le loro derivazioni e diluizioni), lo diciamo sia con franchezza sia con la disponibilità ad essere smentiti con argomenti, hanno una consistenza logico-filosofica sostanzialmente nulla. Il punto, però, è che riescono a mobilitare immagini di un inesistente passato mitico di razze definite e felici, desideri di cambiamenti dell’ordine vigente da lungo tempo sopiti nella scontentezza diffusa, effettivamente prodotta nelle società occidentali per cause diverse, aspirazioni a un mondo tranquillizzato da un equilibrio edenico delle forze globali, in cui le “aspirazioni democratiche” di questa o quella nazione, rappresenterebbero solo illuministici vezzi perturbatori e pertanto da tacitare.

Anche oggi, come ai tempi di Landsberg, il pensiero razionale sembra arrancare dietro la macchina mitologica antidemocratica e antiliberale, che spinge non pochi a giustificare un’invasione di stampo imperialistico, quella dell’Ucraina da parte della Russia (gli USA non hanno l’esclusiva dell’imperialismo), e ad auspicare il crollo dei regimi democratici, presi dall’orgia di un cupio dissolvi mascherato da attivismo politico, che talvolta si picca addirittura di essere portatore delle ragioni della pace mondiali.

Nessuna sorpresa che tali discorsi, che si esprimono in questo frangente storico con una simpatia per il dispotismo di Putin o di altri autocrati, e con un antioccidentalismo mitomane e grottesco, si leghino a uno scetticismo scientifico (no ai vaccini, no al cambiamento climatico), che nulla ha a che fare con un sano senso critico  ̶  meglio chiarirlo  ̶  che sempre va esercitato verso istituzioni ed esperti, e a una condanna gnosticizzante per tutte le voci dell’informazione che non siano diretta emanazione di sé, secondo il motto: extra mainstream sola salus. Il mito soreliano, infatti, come abbiamo detto, si fonda su una esaltazione dell’immediato.

Se la liberal-democrazia è la macchina mediatrice che la macchina mitologica insegna a distruggere, evidentemente sotto la scure della demolizione finiscono anche tutte quelle voci che pretendono di frapporsi tra la “verità” e il popolo, e osano parlare di una natura che può non far rima con salute. Ciò che sta all’origine, infatti, sarebbe ipso facto sano, genuino, puro (ricordate l’ethnos di Dugin?). Quel che viene dopo sarebbe frutto del mercanteggiamento borghese, di oscuri interessi artificiali, della complessità imbrogliona delle istituzioni liberal-democratiche.

Il rossobrunismo dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, allora, si ritrova su questa piattaforma mitologica, collocata dinanzi a un comune bersaglio: la democrazia liberale e la società aperta, pensate come regno della decadenza. Il rossobrunismo, in fondo, ammette come autentici solo due movimenti: quello che va dal presente al passato, per costruire un avvenire a partire dalla immobile eredità di ieri, e quello che va dall’alto verso il basso e viceversa, vale a dire il movimento di comunicazione tra eletti e popolo, che dev’essere, manco a dirlo, quanto più diretto e immediato possibile.

Il rossobrunismo guarda invece con sospetto, quando non fastidio o vero e proprio astio, al movimento tipico della società aperta, quello “orizzontale”, di allargamento o espansione: moltiplicazione dei centri di potere in un regime di equilibrio tra gli stessi, mobilità tra confini, incontro e rimescolamento delle identità, commercio e mercato globali. In tutto ciò il rossobrunismo vede solo dissipazione, dispersione, degradazione.

Il successo della mitologia rossobruna, a nostro avviso, poggia anche sull’incapacità dell’esistenza contemporanea di elaborare miti alternativi (miti, cioè, che siano riserve di senso per la ragione, come insegnava Platone): quel mix di positivismo e storicismo radicale di cui sono fatte le nostre attuali società, ci rende quasi impossibile concepirli, non ne vediamo (stolidamente) la necessità. Il mito, genuinamente inteso, è però una presa di distanza dalla storia, utile ad elaborare un senso possibile per l’agire. L’uomo contemporaneo occidentale, privato di questo spazio da molto tempo, in un certo qual modo non ne può più della storia, ed è sensibile al richiamo di altre mitologie tanto seducenti quanto pericolose.

Alla luce di queste considerazioni, come già suggeriva Landsberg nel 1937, crediamo sia urgente riabilitare la stima per un’idea di verità che, senza ammazzare l’interpretazione e il pluralismo, non rinunci all’oggettività di principi chiari alla ragione, capaci di demistificare le imposture intellettuali:

La scelta tra il mitologismo e l’idea della verità non dev’essere difficile. Tutti noi dobbiamo collaborare allo sforzo necessario per dissipare le nuvole mitologiche e per affrontare, nella chiarezza del sole degli spiriti, le miserie reali della nostra nazione e dell’umanità. Non perdiamo la speranza.

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