Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).
Poiché viviamo in un’epoca in cui la possibilità tecnica di reagire velocemente a un discorso, con un like o un commento social, talvolta indebolisce l’impegno personale nell’accertamento della comprensione testuale, consentitemi una premessa importante. Questo breve articolo parlerà del match di boxe tra l’italiana Angela Carini e l’algerina Imane Khelif, andato in scena alle Olimpiadi che sono in corso a Parigi. Tuttavia l’incontro di pugilato non rappresenta l’oggetto proprio dell’articolo ma lo spunto per porre un problema connesso ma non identico. In aggiunta, non entreremo più di tanto nel merito delle furiose polemiche generate dall’incontro, che ci tocca comunque brevemente riassumere.
Come probabilmente la lettrice o il lettore sapranno già (a meno che non siano così fortunati da essere all’oscuro di tutto), la Khelif era stata esclusa dal mondiale IBA 2023, per un livello eccessivo di testosterone che, a detta degli organizzatori, le concedeva un vantaggio competitivo non regolare. Il comitato organizzatore delle olimpiadi di Parigi, però, le ha dato regolare permesso di gareggiare, scatenando molte discussioni. La querelle si è infiammata quando l’altro giorno la pugile italiana Carini si è arresa a Khelif dopo neanche un minuto di combattimento, in difficoltà per la potenza dei colpi subiti.
Erroneamente, nei giorni scorsi, la pugile algerina è stata definita trans. In realtà, stando a quanto è riportato dagli organi di informazione, ribadito anche da alcuni specialisti che si sono espressi sulla questione nelle ultime ore, Khelif è una persona intersex. L’atleta è nata donna ma presenta un cariotipo (corredo cromosomico) da uomo (XY). “Intersessualità” è termine utilizzato per riferirsi a quelle persone che hanno caratteri sessuali primari e/o secondari non definibili esclusivamente come maschili o femminili. Posto che la situazione sia stata riassunta in modo dignitoso (mi scuso per eventuali imprecisioni tecniche che spero comunque non gravi), ci si può chiedere: la condizione dell’atleta algerina determina o no una sproporzione di forza irregolare a suo favore rispetto alle sue colleghe donne?
Rispondere non è semplice e non rientra pienamente né nelle competenze né nell’interesse di chi scrive. Il nostro sguardo vorrebbe soffermarsi un attimo sui veri e propri tafferugli verbali che si sono scatenati nelle ultime 48h, e che hanno coinvolto utenti social comuni, giornalisti di una certa popolarità, politici di destra e di sinistra, anche di altissimo livello istituzionale.
Lo scontro è stato a tratti feroce. Da una parte, come già ricordato, sono circolate notizie false su Imane Khelif, dall’altra la sua ultima avversaria, Angela Carini, è stata accusata in modo più o meno esplicito di aver marciato sulle polemiche per creare il “caso” e giustificare la propria inferiorità sportiva, non solo da anonimi leoni da tastiera, ma anche da utenti più noti dell’universo massmediatico. Basti pensare che il 1° agosto uno degli hashtag più popolari sul social X (il fu Twitter) è stato “sceneggiata”, termine utilizzato proprio all’indirizzo dell’atleta napoletana. Insomma: nell’angolo di destra o estrema destra, quanti hanno strumentalizzato apertamente l’avvenimento, per prendere di mira ancora una volta l’“ideologia woke” e il “politicamente corretto”, che sarebbero i soli responsabili dei molti mali del mondo e, tra le altre cose, si proporrebbero a tal punto di sovvertire ideologicamente l’ordine naturale, fino a consentire a un “uomo” di combattere contro una “donna”; nell’angolo di sinistra o estrema sinistra, invece, quelli secondo i quali l’ideologia woke è un’invenzione dei reazionari cripto-fascisti affezionati allo status quo patriarcale e binario, che hanno stigmatizzato la strumentalizzazione suddetta e accusato Carini di aver messo in piedi una pantomima, per dipingersi vittima, in contiguità ideologica col più retrivo conservatorismo.
Naturalmente, in assenza di prove, si è trattato di gratuite congetture sulla scelta di una sportiva, che in altre circostanze sarebbero state impetuosamente biasimate da molti degli stessi che le formulavano, in quanto tese a colpevolizzare il disagio di una donna e il suo sovrano sentire soggettivo, attingendo magari dal dizionario specializzato col quale abbiamo familiarizzato negli ultimi anni: victim blaming, mansplaining, patriarcato. Qui, probabilmente, il “dibattito” (termine assai generoso) ha palesato un cortocircuito alquanto curioso. Oramai, però, la diatriba aveva già superato quel livello dopo il quale conta solo il posizionamento. Le uniche domande che contavano erano “Sei inclusivo o sei fascio?”, urlate dall’angolo sinistro, e “Sei per la distruzione dell’uomo o sei normale?” urlate dall’angolo destro. Ma c’è di più. Tutta la discussione è ruotata e ruota attorno alla definizione, più o meno facile, del sesso di una persona.
A questo punto chi scrive è stato enormemente sorpreso da quanto letto. Le voci riconducibili all’angolo di “sinistra” hanno conflitto con le tesi della “curva destra” con un riferimento costante al dato biologico, assumendo una postura epistemologica alquanto diversa rispetto a quella indossata di solito. Le argomentazioni delle fette più radicali dell’angolo sinistro sul tema, infatti, sono perlopiù debitrici di quella impostazione butleriana (dalla filosofa Judith Butler, che qui prendiamo come figura esemplificativa), secondo la quale il soggetto sarebbe un «effetto del potere», sulla scia del concetto foucaultiano di soggettivazione, inteso sia come sottomissione sia come costituzione del soggetto. In altri termini e schematizzando, non vi darebbe nessuna costruzione del proprio sé, al di fuori di una specifica modalità di assoggettamento. Naturalmente questo vale pure per il sesso (oltre che per il genere): questo è un costrutto che, per così dire, si materializza attraverso la ripetizione forzata di norme regolative che passano dai discorsi e dai suoi interdetti. La differenza tra natura e cultura, che potrebbe essere invocata per disimpigliarsi dalle maglie del discorso disciplinare, sarebbe essa stessa figlia di un gesto istituente preliminare cui è molto difficile attingere. Dunque la “realtà” intesa come datità extra-discorso è un richiamo mitologico e la pratica scientifica, più che riferirsi a una realtà che precede il discorso, sarebbe uno dei modi in cui si articola il discorso disciplinare di cui sopra. Anche la biologia, in altri termini, entro questo quadro, è un dispositivo di potere, non una ricerca neutrale di conoscenze oggettive. In tale prospettiva, ecco che si può parlare, ad esempio, di “sesso assegnato alla nascita” quale imposizione interna a determinate pratiche discorsive, e non come, se così possiamo esprimerci, adaequatio sexus et rei.
Ecco, nella polemica sull’incontro di boxe delle olimpiadi parigine, improvvisamente l’impostazione ora sommariamente richiamata è stata completamente ribaltata: di colpo folle di costruttivisti, più o meno consapevoli di esserlo, hanno fatto ricorso al dato scientifico o all’elementare fatto osservativo (“la persona di cui si parla ha mai avuto il pene, sì o no?”). Non a caso, alcune testate giornalistiche hanno imbastito dei veri e propri fact checking per dimostrare come stavano le cose. Insomma, a un certo punto sembra che Gilbert Keith Chesterton abbia scalzato Butler, e il realismo metafisico e gnoseologico dell’intellettuale inglese, uno dei campioni del mondo culturale dell’angolo di destra, abbia per un attimo prestato le lenti all’angolo di sinistra (il quale, va da sé, preso dalla foga del combattimento, non ha avvertito la contraddizione). Se Chesterton, dal suo punto di vista, paventava il rischio dell’allontanamento dalla sana oggettività del senso comune e preparava alla sana battaglia per difenderla, avvertendo che «Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate», di colpo proprio quanti ci avevano avvisato che il dato biologico conta poco perché decisiva è la cultura, hanno attizzato fuochi e sguainato spade per ribadire la verità sul sesso di una persona, referto medico e libri di biologia alla mano. Questa è la cosa interessante, indipendentemente, lo ribadiamo, da ciò che uno possa pensare del merito della vicenda in sé, su cui possiamo dire poco, anche perché è stato detto già tutto e il suo contrario.
Queste olimpiadi, fin dall’inaugurazione, sono state caratterizzate da una forte dose di antagonismo ideologico. Le guerre culturali, che fino a pochi anni fa sembravano prerogativa del mondo statunitense, sono sbarcate anche da noi, spaccando la società in due diversi schieramenti maggioritari che si fronteggiano agitando due diverse antropologie. Tutto rischia di essere aspirato in questa guerra, tutto diventa o di destra o di sinistra, perfino la decisione di arrendersi o meno durante una gara ufficiale di pugilato, è stata interpretata attraverso il dualismo destra-sinistra.
In questo senso si dà una curiosa situazione: se da punto di vista dell’orientamento di genere, è oggi ammesso dichiararsi come individui “non binari”, in ambito politico-culturale tale libertà è sempre più ristretta: o sei di qua o sei di là in modo assoluto. Non è questo il luogo per approfondire tale questione. Alla luce di quanto detto fin qui, però, possiamo forse dire che il punto di partenza per provare a districarsi nella matassa di contraddizioni, urla e spintoni, potrebbe stare nella presa d’atto che il livello di tossicità del discorso pubblico è tale che, per dirla in modo tranchant, le idee altrui semplicemente non interessano più a nessuno, né interessa molto la libertà d’espressione degli altri.
Molte battaglie culturali sono combattute non tanto per dare la possibilità di dire qualcosa che ieri non si poteva dire, ma per rendere più difficile dire qualcosa che fino a ieri si poteva dire. Non si sta sostenendo che “non si può più dire niente”, né che non sia giusto rispettare le ovvie modificazioni della sensibilità sociale. Tuttavia bisogna chiedersi qual è la quantità di “interdetti” che possiamo addossare a un discorso collettivo senza che questo frani sotto il proprio stesso peso. Tutti quelli cui sta a cuore la “società aperta”, che è uno degli esperimenti più preziosi che siano mai stati fatti nella storia umana, dovrebbero interrogarsi seriamente e cominciare a dichiararsi non binari: non per abbracciare il qualunquismo né per costruire un grande “Centro” culturale, ma per riconoscere alla realtà quel minimo di fluidità senza la quale il mondo è ridotto inevitabilmente a ideologia psicotica: l’ideologia che può arrivare a vedere nella scelta di un comitato olimpico una mossa del “Nuovo Ordine Mondiale”, o in un’atleta che piange sul ring, un’attrice assoldata dalle destre mondiali degna dei peggiori insulti.
Eccoci ancora, dunque, al tema della “realtà”, che torna sempre. Esiste una realtà che precede il linguaggio, ma che non è riducibile al mero dato di fatto del “buon senso”. Bisogna abitare lo spazio tra questi due estremi, altrimenti si rischia di cadere nell’autoritarismo dei fatti privati dell’interpretazione, e in quello, altrettanto pericoloso, dell’interpretazione privata della realtà. La volontà autoritaria li distingue fino a un certo punto, tant’è vero che spesso li utilizza alternativamente entrambi, alla bisogna (come abbiamo visto): se serve ci si rifugia nel dato di fatto oppure nella “cultura” priva di aggancio reale. L’importante è che il mio angolo prevalga. Mera volontà di potenza. La questione del realismo, che all’apparenza sembra problema per polverose disquisizioni accademiche, è dunque, probabilmente, uno dei temi più urgenti del nostro tempo.